A differenza del ricordo, la memoria rappresenta non solo un’immagine di qualcosa che è stato, ma ne fissa l’idea, generando cultura, conoscenza e alimentando riflessione. A trenta anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, due libri, entrambi editi ad aprile 2022, “Mafia fare memoria per combatterla” di Antonio Balsamo (editore Vita e Pensiero) e “Francesca” di Felice Cavallaro (editore Solferino), pur diversi nel genere (un saggio in stile reportage il primo, un romanzo il secondo), narrando di fatti ed eventi accaduti a Palermo negli anni ’80 e ‘90, ne rinnovano la memoria, e avvicinano il lettore, anche ignaro, alla comprensione di quegli anni e del fenomeno mafioso.
Mafia fare memoria per combatterla
“Nella giustizia italiana, c’è un prima e c’è un dopo. La linea di confine è segnata dal 1980. All’inizio di quell’anno, il 28 gennaio, Rocco Chinnici viene nominato capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Pochi mesi dopo affida al giudice istruttore Giovanni Falcone il processo contro l’imprenditore Rosario Spatola e altri 119 soggetti, scaturito da tre filoni investigativi riguardanti rispettivamente il traffico internazionale di stupefacenti, il reinvestimento dei suoi profitti e il simulato sequestro del finanziere Michele Sindona”
Nel maggio del 1980 ero in tirocinio da uditore giudiziario presso il Tribunale di Roma, e questa frase
estratta dal libro di Balsamo (p.91) mi ha profondamente colpita. Ricordo benissimo quell’anno e i suoi tragici eventi. Per capire la drammaticità del periodo, basta citare un passo del discorso che il Presidente della Repubblica Sandro Pertini rivolse a noi giovani uditori, nel salone dei ricevimenti del Quirinale, in una giornata caldissima del mese di giugno di quell’anno: “Mai presidenza della Repubblica è stata più tormentata della mia. Sono stanco di andare dietro a salme, andare a visitare e trovare dei parenti, dei familiari delle vittime del terrorismo. Quanti magistrati sono caduti compiendo il loro dovere! …è un compito grave che voi avete, compito che non riguarda soltanto quello di amministrare giustizia, ma quello, soprattutto, che, amministrando giustizia, di sapere che voi dovete difendere questa nostra libertà e questa nostra Repubblica…”
Il 6 gennaio del 1980, il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, era stato ucciso a Palermo su mandato di Cosa Nostra mentre si stava recando a messa con la moglie e i figli; il 12 febbraio di quello stesso anno era stato ucciso, sulle scale dell’Università “La Sapienza” di Roma, tra la Facoltà di Giurisprudenza e quella di Scienze politiche, il vice presidente del CSM Vittorio Bachelet. Nel tardo pomeriggio di domenica 16 marzo, poco più di un mese dopo, Nicola Giacumbi, procuratore della Repubblica di Salerno, era stato assassinato da una cellula salernitana delle Brigate Rosse, con una raffica di colpi alla schiena davanti a casa sua. Il 18 marzo, due giorni dopo, mentre viaggiava sulla linea 991 che lo stava portando al Ministero della Giustizia, ove dal giorno prima ricopriva l’incarico di direttore generale degli istituti di prevenzione e pena, era stato ucciso Girolamo Minervini, anche lui vittima delle Brigate Rosse (stessa sorte avevano avuto i suoi predecessori, Riccardo Palma ucciso nel 1978 e Girolamo Tartaglione assassinato nel 1979). Il 19 marzo, Guido Galli era stato assassinato a Milano, da un nucleo armato di Prima Linea. E il 23 giugno 1980, appena una settimana dopo il discorso del presidente Pertini, alla fermata degli autobus a Viale Jonio a Roma sarebbe stato ucciso il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma Mario Amato; il 6 agosto, analoga sorte sarebbe toccata al procuratore capo di Palermo Gaetano Costa, freddato da sei colpi di pistola, su un marciapiede di via Cavour a Palermo mentre stava sfogliando alcuni libri su una bancarella. È del 2 agosto 1980 la Strage di Bologna.
Nessun dubbio, quindi, che il 1980 abbia segnato una linea di confine nella giustizia italiana, e non solo in essa; una linea di confine bagnata dal sangue di molte vittime, a cui seguì poi l’epoca dei processi di mafia, terrorismo e tangentopoli.
Antonio Balsamo, attualmente presidente del Tribunale di Palermo, racconta nel suo libro, con stile da reportage chiaro e avvincente, l’origine e l’evoluzione della Mafia, e ricorda come per molti anni la mafia sia stata vista come un problema siciliano o come la metafora per eccellenza del Mezzogiorno tradizionale, e come a tale sottovalutazione sia poi corrisposta una potente espansione del metodo e del sistema mafioso nelle più varie zone del Paese. Un fenomeno che Leonardo Sciascia assimilava alla “linea della palma”. L’Autore mette quindi a confronto le tre generazioni che hanno vissuto nell’isola nel secolo scorso (negli anni ’20, e tra il 1970 e il 1990), e ai giorni nostri, osservando infine che “negli ultimi anni il volto della città ha subito un mutamento profondo. Chi passeggia nell’antico porto della Cala…quasi non riesce a credere che, trent’anni fa, nello stesso posto venissero conservate…le bombe di profondità da cui veniva ricavata buona parte dell’esplosivo utilizzato per la strage di Capaci”. Nella coscienza collettiva, la mafia ha iniziato a essere percepita come un problema nazionale il 3 settembre 1982, quando venne assassinato il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme con la moglie Emanuela Setti Carraro e con l’agente di scorta Domenico Russo. Il progresso importante compiuto dallo Stato e dalla società civile in questi quarant’anni, per non essere vanificato, richiede – secondo Balsamo – un impegno ostinato e incessante di memoria e conoscenza, capace di creare un ponte tra le diverse generazioni, tra il passato e il futuro.
Nel libro vengono quindi descritte, con rigore e puntualità, le dinamiche socioeconomiche ed evolutive della mafia, tra vecchio e nuovo mondo; l’intero terzo capitolo è dedicato al diritto alla verità sulla stagione del terrorismo mafioso. Il diritto alla verità costituisce una nuova dimensione della tutela dei diritti fondamentali più importanti, come il diritto alla vita; negli ultimi decenni ha trovato un preciso riconoscimento da parte della Corte interamericana dei diritti umani e della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ne hanno attribuito la titolarità non solo alle vittime e ai loro familiari, ma anche alla collettività nel suo insieme. Invocando tale diritto anche per Palermo, Balsamo esamina alcuni tra i fatti più salienti del periodo, e individua una linea di continuità che collega l’omicidio di Piersanti Mattarella del 1980 alle stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992, passando per il fallito attentato dell’Addaura del 21 giugno 1989, linea di continuità che “affonda le proprie radici in episodi ancora largamente inesplorati degli anni ’70. Che si basa su una forte convergenza di interessi tra Cosa Nostra e centri di potere rimasti ancora nell’ombra”.
Il quarto e ultimo capitolo è dedicato all’esame della normativa antimafia italiana, una delle più avanzate nel mondo, e al futuro della lotta alla mafia, soffermandosi sul contrasto alla dimensione economica e sullo sviluppo di nuove forme di cooperazione internazionale.
Nel libro, basato su documenti giudiziari, abilmente collegati tra di loro attraverso l’analisi di fatti e testimonianze raccolte nei vari procedimenti, non manca un commovente ricordo personale: il 24 maggio 1992, l’Autore e altri giovani uditori giudiziari in tirocinio al Tribunale di Palermo vennero chiamati a fare il picchetto davanti ai corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco di Cillo, Vito Schifani, uccisi il giorno prima nella strage di Capaci. “In quella notte, erano tanti i sentimenti che si agitavano nel gruppo di uditori: dolore, rabbia, ma anche voglia di riscatto per la propria terra e orgoglio di far parte di una magistratura che aveva tra le proprie fila degli autentici eroi civili, capaci di dare la loro vita per lo Stato”.
Chiude l’ultimo capitolo un paragrafo dal titolo “Fare terra bruciata attorno alle mafie: il sostegno ai percorsi di cambiamento dopo il carcere”, nel quale Balsamo individua quale strumento importante in prospettiva rieducativa la riattivazione di un organo previsto dall’Ordinamento Penitenziario del 1975, ma disapplicato da decenni, il Consiglio di Aiuto Sociale. Conclude auspicando che la cultura della legalità sia patrimonio non soltanto della magistratura ma di tutta la comunità, inclusi gli autori del reato. “Il futuro della lotta alla mafia può passare anche attraverso questo percorso di impegno solidale, al Sud come al Nord. È questa la via per realizzare la dimensione collettiva del diritto alla speranza”.
Francesca
(Storia di un amore in tempo di guerra)
“La prima cosa che mi è venuta in mente voltando virtualmente le pagine di questo intenso racconto è il cinema. Il ritmo, la struttura dei dialoghi, lo spostamento e la descrizione delle scene fa pensare a una narrazione per immagini…Assistiamo alla nascita e allo sviluppo di un amore profondo e felice, anche se verrà interrotto nel modo più imprevedibile e mostruoso…un importante viaggio dentro una storia siciliana, che nella vitalità della memoria, riguarda tutto il Paese…” così mirabilmente Dacia Maraini nei commenti dei grandi lettori alla fine del libro. La Maraini, nel corso della presentazione del libro a Roma, il 13 maggio scorso, ha quindi ribadito il suo giudizio, definendo cinematografica la sua dimensione narrativa.
Inizia il romanzo con il primo incontro tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone, nel febbraio del 1979, e prosegue quindi narrando la loro storia personale che si intreccia necessariamente con i tragici eventi di quegli anni: gli omicidi Costa, Terranova, Mattarella, Dalla Chiesa, La Torre, Livatino, Scopelliti; “la Beirut di via Pipitone”; il sacrificio di Montana e Cassarà, di Basile, Agostino, Antiochia, Mondo e tanti altri; il maxiprocesso nell’aula bunker di Palermo. I nomi e le immagini scorrono velocemente da un capitolo all’altro e l’universo di quel periodo sapientemente riorganizzato dall’Autore nella narrazione semplice ma intensa passa davanti agli occhi del lettore.
Molte pagine suscitano profonda commozione; tra le tante, quelle del capitolo “La spilla di Emanuela” (la mamma di Emanuela Setti Carraro incontra Francesca e le regala una spilla: “Per te, Francesca. Accetta. La indossava Emanuela. Mi prometti che la porterai tu, che farai brillare questa stella, come lei non può più…?”). Altre qualche sorriso. In particolare, le pagine di uno tra i quadretti familiari nel capitolo “La luce di via Notarbartolo”, quando Giovanni allinea con cura le piccole papere di porcellana, terracotta e legno della sua collezione, e ripone gli astucci con una dozzina di penne stilografiche e una schiera di boccette di inchiostro verde. “Altra mania. Francesca scarta un pacco. Estrae una paperella e l’altra donata da Giovanni al ritorno dall’America. Le fa roteare disegnando un cuore fino a planare accanto a quelle già allineate da Giovanni, mentre simula l’annuncio metallico di un Aeroporto: Appena atterrate con volo proveniente da Trapani a New York”.
Come in un’opera cinematografica, vi è un “narratore filmico” che qui è anche un personaggio, il giornalista Federico, ovvero lo stesso Cavallaro che di molte vicende descritte nel libro si è interessato quale giornalista al “Giornale di Sicilia” prima, e al “Corriere della Sera” poi, mentre di altre è stato diretto testimone. Federico appare qua e là in alcuni colloqui con Francesca, ma rimane sempre defilato per tutto il racconto, nell’evidente intento di non togliere spazio a Francesca e a Giovanni, forse anche di non “disturbarli”, per lasciare intatta l’emozione che suscitano la loro vita e i loro discorsi. Ricostruiti in parte sui racconti di parenti e amici, alcuni colloqui sono frutto di una licenza narrativa (come spiega in una nota finale lo stesso Autore) rispettosa però delle personalità dei protagonisti, che risultano così veri e autentici.
Molte le pagine toccanti, dove con poche frasi si narra un universo di cose. Tra le tante, meritano una citazione i capitoli “Il ghetto dei giudici” ( “per essere così protetto, deve aver fatto malvagità” commentano alcuni passanti vedendo il corteo blindato con Falcone; con una lettera circolare inviata ai condomini l’amministratore del condominio declina ogni responsabilità per “i danni che potrebbero essere arrecati alle parti comuni dell’edificio” nel caso di un attentato a Falcone; in una lettera inviata e pubblicata sul “Giornale di Sicilia”, un’onesta cittadina – come si definisce l’autrice della missiva – chiede lo spostamento dei magistrati antimafia in periferia “in modo da tutelare l’incolumità di noi tutti”), e “Il giudice ricusato” (pochi, o quasi nessuno, a distanza di anni, fa più menzione del presidente del maxiprocesso Alfonso Giordano. In questo capitolo, si ricordano il coraggio e i no che seppe dire Giordano davanti a intimidazioni, minacce, ricusazioni; e viene descritto lo stupore di mamma Lina, che non capisce (questa donna vedova di un magistrato e madre di due magistrati) “come sia possibile che, uno dietro l’altro, dodici giudici esperti nel penale abbiano rinunciato, indisponibili a presiedere la Corte d’assise. Chiede e non trova risposte sufficienti in Francesca, che evita di amplificare l’ansia e tace sui pavidi”).
La vera protagonista della storia è comunque lei, Francesca, con le sue paure e il suo coraggio, non solo figlia premurosa e moglie affettuosa che ha condiviso la sorte del suo compagno di vita fino alla morte, ma anche giudice scrupolosa e attenta alle problematiche giovanili soprattutto degli ambienti più degradati. Finalmente un riconoscimento anche alla sua attività professionale. Ed ecco alcune belle pagine, nei capitoli “La quinta strada” (dove si narra di una normale giornata lavorativa di Francesca in udienza e in istruttoria, quando garbatamente ricorda a un maresciallo, che accompagna all’interrogatorio “un delinquente di quindici anni”, che non è un delinquente bensì solo un ragazzo che si è trovato a delinquere, a commettere un reato. “E noi con la punizione, ma soprattutto con la rieducazione, dovremmo tirarlo fuori…”. Poi, concluse le formalità, raggiunge la collega e amica Silvana nel suo ufficio, sconfortata: “Ma serve a qualcosa stare da mattina a sera buttati qui se poi questi picciotti, appena fuori, vengono fagocitati da quartieri con la mafia alla gola?”); “Un bambino da salvare” (dove, all’esclamazione di una madre che lamenta l’ingiustizia di levarle un figlio, Francesca “reagisce dura, controllando il tono, ma con una foga impastata di collera, il cuore che batte forte: “Basta con questa sceneggiata. Lei ha nelle sue mani il destino di suo figlio. Avete il destino dei vostri uomini nelle mani. E solo voi donne potete salvarli invece di diventare complici…”), “Mery per sempre” (“Pochi giorni dopo, la relazione è pronta per il convegno che si tiene nel salone del Malaspina… nelle ultime file anche un gruppo di ragazzi detenuti, controllati da un pugno di agenti penitenziari, in piedi. Uno di loro…commenta e sintetizza sottovoce l’intervento di Francesca Morvillo al microfono: “Dice in sostanza che non siamo un deposito di malacarne…”), “Il paese della ragione” (dove Giovanni ricorda a Francesca le sue qualità professionali: “Con un piede a Roma, potrai mettere anche più a frutto le tue competenze, la tua bravura, le tue analisi. Quante volte mi hai aiutato…”).
“La lettera del bunker” è l’ultimo capitolo del libro. Un paio di anni dopo le stragi del 1992, Alfredo Morvillo torna nel bunker, preceduto da Giovanni Paparcuri, autista di Chinnici, nel nuovo ruolo di custode della memoria, impegnato a trasformare quell’ufficio dove montò il primo computer in una tappa di riflessione per studenti e viaggiatori. Nelle pagine di una copia del libro “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia è custodito un foglio; Paparcuri lo consegna al fratello di Francesca che legge, muto, travolto dalla sensazione di riascoltare la voce della sorella: “Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca”.
Il racconto avvincente e commovente della vita personale e professionale di Francesca Morvillo, nell’intenso ritratto di Cavallaro, lascia una forte impressione nel lettore, e può essere per i più giovani, che nel 1992 non erano ancora nati, uno stimolo e un ausilio alla conoscenza non solo di un pezzo della storia del nostro Paese, ma anche delle persone che l’hanno reso migliore, persone che Dacia Maraini definisce solo apparentemente perdenti, “ma alla fine vittoriose per la forza con cui si trasformano in punti di riferimento storico e ideale per le nuove generazioni”.