di Mirella Cervadoro
Nel corso della puntata del 23 gennaio del programma televisivo “Cronache Criminali”, la scrittrice Chiara Valerio, interpellata sulla tragica vicenda criminale conosciuta come il delitto del Circeo, ha fatto alcune profonde riflessioni sul bene e sul male. Il Male è più “veloce” del Bene, l’abitudine al male porta assuefazione e tutti siamo propensi a dimenticarlo. Ma il male non si può correggere, e per poter scegliere di non ripeterlo occorre ricordarlo sempre. Gli eventi nefasti del passato vanno pertanto impressi nella memoria collettiva. “Si può rivendicare l’oblio, ma fatti gravi come quelli del delitto del Circeo appartengono al corredo genetico di una popolazione”; non possono cadere e non devono cadere nell’oblio.
La Memoria del Male.
Nel secolo scorso, la scena europea è stata dominata da due totalitarismi che hanno costituito la “Memoria del Male”, mentre le democrazie – comunque i migliori tra i regimi possibili – tendevano a scivolare nella “Tentazione del Bene”. Come si ricorderà un giorno il XX secolo? Il secolo di Hitler e Stalin? Il linguista filosofo e antropologo bulgaro, Tzvetan Todorov, a queste domande – che si pone nel saggio “Memoria del male, tentazione del bene” – risponde che sarebbe troppo onore ricordare il secolo con il nome dei suoi tiranni, un onore che certo non meritano: “ è inutile glorificare i malfattori […] per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l’uomo merita di rimanere scopo dell’uomo”.
Nel saggio (da me scoperto solo di recente, così come il suo Autore), Todorov ha scelto quindi di mescolare, alle sue riflessioni sul bene e sul male politici del secolo, le biografie di alcune figure (tra le quali quella di Primo Levi) che hanno rappresentato in qualche modo questo versante “luminoso” dell’umanità. E lo fa evidenziando, però, che le figure luminose di cui racconta la storia sono uomini e donne come noi per nulla diversi dagli altri: “Non sono eroi, né santi, e neppure dei “giusti”; sono individui fallibili […]. Tuttavia hanno seguito tutti un itinerario drammatico; hanno tutti sofferto nella loro carne, e al tempo stesso hanno cercato di far passare il frutto della loro esperienza nei loro scritti”.
Il versante “luminoso” dell’umanità.
In quest’ultima settimana di gennaio, si parla molto di Memoria, e molte sono le celebrazioni. Il 27 gennaio è infatti il giorno dedicato alla Memoria, per non dimenticare le vittime dell’Olocausto.
Ricordare il male per non ripercorrerne gli oscuri sentieri.
Se si vuole realmente che il male del passato non ritorni, non basta però recitarlo; occorre fissare nella memoria collettiva il senso e il valore del passato storico. E il senso più profondo lo dà proprio il versante “luminoso” dell’umanità di cui parla Todorov: i soggetti umani e le loro storie.
Tra essi, Sami Modiano, sopravvissuto all’Olocausto.
Sami Modiano, sopravvissuto solo perché creduto morto, dopo lunghi anni di silenzio, ha avuto il coraggio di tornare a Birkenau e ad Auschwitz, su sollecitazione della moglie e di qualche amico, per essere testimone del male. E la sua tragedia l’ha raccontata e la continua a raccontare, con grande pacatezza e pudore, soprattutto agli studenti, lui che era studente e aveva solo quattordici anni, un adolescente come loro, quando fu portato nel 1944 nel campo di concentramento di Birkenau, e lì vide soffrire e morire la sorella Lucia e il papà Giacobbe. Ogni tanto scambia uno sguardo affettuoso con la moglie Selma, che lo accompagna e lo ha accompagnato nella vita, accettando anche i suoi dolorosi silenzi. E trattiene le lacrime. Ma “ricorda tutto”, Sami, come dice lui stesso quando si fa aiutare a slacciare il bottone del polsino della camicia per mostrare il numero impresso sull’avambraccio, un numero – ci tiene a dirlo – con l’ultima cifra maggiore di uno rispetto a quella del padre. Un altro terribile numero indelebilmente impresso nella memoria. Così come l’immagine (l’ultima) della sorella Lucia, senza più i suoi lunghi capelli e irriconoscibile per quanto era magra, che – ricevuta dal fratello una fetta di pane – gliela restituiva, lanciandola oltre il filo spinato che li divideva, avvolta in un cencio unitamente alla sua fetta di pane. Il ricordo vivo, e ancora pieno di dolore, si mescola all’amore per la sorella, per papà Giacobbe, per la moglie Selma e anche per quei giovani ragazzi che vuole abbracciare tutti con lo sguardo affettuoso. Non debbano mai soffrire e vedere quello che ha dovuto vedere e patire lui!
Come verrà ricordato domani questo XXI secolo che stiamo oggi costruendo con le nostre azioni, e già ci si mostra con le sue contraddizioni, le sue guerre, le sue bombe, le sue devastazioni anche ambientali? A questa domanda nessuno può ancora rispondere.
Ma sarebbe davvero un peccato riprodurre nel presente e nel futuro, prossimo o lontano, gli errori del passato. Forse lo si potrebbe evitare, cercando di trasmettere, “senza tuttavia mai diventare dei perentori distributori di lezioni”, ciò che abbiamo imparato, del Male e del Bene, anche attraverso le storie degli altri.
E allora è bene continuare a ricordarle, le storie “luminose”, anche quelle più recenti e vicine, tra cui quelle dei tanti magistrati uccisi dal terrorismo e dalla mafia.
Nella settimana corrente, ricorre l’anniversario della morte di Emilio Alessandrini. Il ricordo è un doveroso omaggio alla sua figura di magistrato; la memoria di quei giorni non è poi solo una pagina dolorosa della storia del nostro Paese, ma anche un pezzo importante del patrimonio culturale della magistratura.
La mattina del 29 gennaio 1979, alle 8,30 circa, Emilio Alessandrini venne assassinato a Milano da un commando di cinque terroristi di Prima Linea mentre si recava in Tribunale, dopo aver accompagnato il figlio Marco a scuola.
All’epoca non ero ancora magistrato, e avevo da poco sostenuto le prove scritte del concorso; non ho conosciuto pertanto Emilio Alessandrini, ma ricordo bene quel giorno e anche i giorni e i mesi, precedenti e successivi, nei quali furono assassinati tanti magistrati, tra i quali – solo pochi mesi dopo, il 19 marzo 1980 – Guido Galli.
Alessandrini aveva solo 36 anni, quando venne ucciso; il primo magistrato ucciso a Milano. E nel volantino con il quale l’omicidio venne rivendicato, veniva descritto come: “uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della repubblica di Milano”.
Il giorno successivo, il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura venne convocato dal Presidente della Repubblica al Quirinale, con la presenza del Ministro della Giustizia (all’epoca di “Grazia e Giustizia”) Francesco Paolo Bonifacio. Il Vicepresidente Vittorio Bachelet (che sarà anche lui ucciso dalle Brigate Rosse, il 12 febbraio 1980), in quell’occasione, esprimendo solidarietà alla magistratura e partecipando al dolore dei congiunti, ricordò Alessandrini definendolo “magistrato probo, attivo, capace, che faceva onore all’Ordine Giudiziario, noto nella città di Milano e nell’intera Magistratura per le sue qualità professionali e umane”. E il Presidente Sandro Pertini, nella medesima seduta, affermò che “… nella lotta contro il terrorismo la Magistratura ha pagato un prezzo di sangue molto elevato per cui è necessario studiare misure operative allo scopo di evitare che i giudici si sentano isolati dagli altri poteri dello Stato”.
Qualche giorno fa, ho riletto quanto scritto da Adolfo Beria di Argentine dopo la morte di Alessandrini, nel 1979. Il testo si intitola “Dopo la morte di Emilio Alessandrini. La forza dell’umanità dei giudici”, e nella sua semplicità è di una rara bellezza.
Per ricordare Emilio Alessandrini, e onorarne la memoria non si potrebbero oggi trovare parole migliori di quelle di Beria di Argentine:
“Un simbolo o uno come tanti? Questa è la domanda che molti si sono fatti in questi giorni di dolore per la morte di Emilio Alessandrini. Da un lato la sua spiccata personalità, il notevole rilievo nella magistratura italiana, anche associata, il raro equilibrio fra l’impegno professionale civile e politico, la grandissima capacità tecnica e culturale dimostrata in occasione di istruttorie di estrema delicatezza (prima fra tutte quella di Piazza Fontana) […] tutto ciò farebbe pensare che c’è molto di emblematico nella vita, nella morte e nei funerali di Alessandrini. Un simbolo allora o uno come tanti? La risposta che viene […] è che era uno come tanti, anche se, certo, il migliore, che è cosa diversa. […] Cosa vi è dentro questa realtà, al di là della constatazione (talvolta troppo enfatizzata ma non per questo meno vera) della crescente progressiva maturità democratica della nostra società e dei gruppi professionali e sociali in essa più significativi? Guardando in questi giorni i colleghi di Alessandrini, vedendoli partecipare in silenzio alle assemblee […] veniva spontanea la constatazione che in loro vi è la professionalità, il senso profondo di una professione che non è solo tecnicismo giuridico, che è qualcosa di ben diverso dall’esercizio del potere giudiziario. Giudici giovani, molto di più – lo ammetto – degli anziani, vivono consapevolmente la professione con le sue ambiguità, i suoi rischi, le sue incertezze, le sue crisi di identità, le sue debolezze, le sue delusioni, cosicché oggi si può ben parlare di “un’umanità dei giudici” che è molto diversa e molto più solida e significativa di quella sacralità che precedenti generazioni coltivavano. […] l’ultima volta che ho parlato con Alessandrini era il giorno prima della sua morte, abbiamo discusso delle critiche levatesi al Senato e sulla stampa nei confronti dei giudici in occasione della discussione di un disegno di legge che li riguarda. Il ricordo del suo onesto furore verso alcune accuse indiscriminate […] mi dà ora la conferma che la sua forza era l’umanità e che la forza della magistratura sta nel fatto che di Alessandrini ne restano ancora tanti, meno bravi di lui, certo, ma certo nell’umanità molto simili a lui” (in “Dopo la morte di Emilio Alessandrini. La forza dell’umanità dei giudici”, Giustizia Anni Difficili, p.289).