Introduzione

È ipotizzabile il dialogo riparatorio per i reati senza vittima?

Il tema ha polarizzato il dibattito sull’applicazione della giustizia riparativa introdotta dalla c.d. Riforma Cartabia, soprattutto a seguito di due pronunce di segno opposto. In due procedimenti aventi ad oggetto reati relativi al T.U. Stupefacenti, mentre il Tribunale di sorveglianza di Lecce1 si è fatto fautore di una tesi possibilista; la Corte d’Appello di Milano2 ha ritenuto inammissibile l’accesso alla giustizia riparativa per quelle fattispecie di reato che tutelano un bene giuridico che non appartiene a un soggetto specifico.

Le due decisioni si basano su una diversa interpretazione degli artt. 42-53 del d.lgs. 150 del 2022, e sulla valutazione giudiziale “in concreto” degli effetti del reato sui singoli e sulla comunità3.

La tesi restrittiva

L’inammissibilità dell’istanza di accesso ad un programma di giustizia riparativa presentata da un imputato, condannato in primo grado per il reato di cui all’art. 73 D.P.R. 309/1990, è stata motivata dalla Corte di appello di Milano sulla base dell’assenza di una vittima diretta «con cui intrattenere tale dialogo».

Nell’ordinanza i giudicanti hanno “snaturato” il principio di accessibilità posto dall’art. 44 del decreto che consente l’accesso ai programmi «senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità». La tesi proposta dal collegio milanese, invece, circoscrive l’accesso ad un elenco di fattispecie di reato (quelli con vittima), individuando implicitamente una presunzione/preclusione di impossibilità ontologica astratta per tutti i c.d. reati senza vittima come quelli relativi al microsistema del T.U. Stupefacenti.

Le disposizioni della Sezione II della c.d. Riforma Cartabia sono in parte “fraintese”. Infatti, la normativa rimette ai soggetti coinvolti una valutazione – caso per caso – di concreta fattibilità di un programma riparativo: non è prevista una preclusione all’accesso attraverso un elenco di reati stabilito ex ante del legislatore. In particolare, fondamentali in tal senso sono i compiti assegnati ai mediatori a cui spetta – ex artt. 53 e 54 del decreto – individuare il programma più idoneo al caso concreto, e quindi ogni valutazione sulla fattibilità dei percorsi proposti. La tesi restrittiva vede, invece, i giudici sostituirsi alla figura del mediatore. Al contrario, l’accertamento che si chiede al giudice è la valutazione di altri elementi; l’art. 129 bis, co. 2, c.p.p. prevede di verificare «che lo svolgimento di un programma (…) possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede [e] che non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti». In altri termini, al giudice si chiede di valutare solo il rischio di vittimizzazione secondaria e la possibilità concreta di inquinamento probatorio.

Alla base della tesi restrittiva vi è un postulato errato: il mancato riconoscimento dell’esistenza di due forme di giustizia del dialogo, con e senza vittima. La prima, interrelazione, che è un incontro personalistico che potrebbe condurre ad una riconciliazione con un’assunzione di impegni e responsabilità tra le parti coinvolte. La seconda, senza vittima, che assume caratteristiche sociali e si concretizza nella spontanea sottoposizione ad un percorso costituito da attività socialmente utili.

La tesi possibilista

L’art. 43, co.2, del decreto fissa le finalità della procedura riparativa: riconoscere la vittima, responsabilizzare l’autore dell’offesa, superare il conflitto provocato da una condotta illecita, ricostruire legami con la comunità. Condizione essenziale è l’assunzione di responsabilità sociale dell’autore ell’offesa che si mostra consapevole, di fronte alla comunità, delle sofferenze cagionate ad altri dalla sua condotta.

A differenza della giustizia tradizionale che continua ad avere come destinatario l’autorità dello Stato, la giustizia riparativa – come dimostrano le prime esperienze internazionali – ha come punto di riferimento la comunità. Nelle formule del family group, del community group conferencing e del circles – che sovente hanno ad oggetto reati senza vittima come lo spaccio di sostanze stupefacenti – il programma riparativo si traduce in un’esperienza di dialogo allargato, con la possibilità di includere la vicenda personale del reo in un contesto più ampio, riconoscendo l’impatto negativo del reato sulla collettività, al fine di ripristinare un fascio di relazioni sociali inevitabilmente interrotto.

Nel paradigma riparatorio, l’accento sulla vittima sembrerebbe escludere la possibilità di accesso al dialogo terapeutico per i reati che non hanno una vittima diretta e specifica.
L’apparenza inganna. I percorsi riparativi non dipendono dalla volontà all’incontro della vittima primaria; si vuole scongiurare, infatti, che il reo venga privato di strumenti utili al reinserimento sociale, solo perché non ha incontrato una vittima pronta al dialogo. In questo senso, di particolare interesse, è anche la lettura – in una prospettiva sistematica – dell’art. 53, co.1 lett. a), del decreto che fa riferimento alla vittima c.d. aspecifica ossia la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede in sede penale contro il reo. La vittima aspecifica non è un sostituto della persona offesa diretta, ma è la vittima di un reato, e non del reato.

La lettura sistematica delle norme (artt. 42-53 del decreto) consente di ritenere l’accesso ai programmi generalizzato, come un vero e proprio diritto di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento; e, in particolare, una modalità di espressione di quel diritto sociale che è la finalità rieducativa per il detenuto che, al di là dei benefici penitenziari e processuali, è una modalità di riacquisto della dignità sociale perduta con il reato.

In tal senso va interpretato l’elenco “incompleto” dei partecipanti ai programmi ex art. 45 del decreto, che si conclude con una clausola aperta: «chiunque vi abbia interesse». La comunità assume un ruolo centrale: come destinataria degli interventi di riparazione e come attore sociale interessato a promuovere la riparazione e la risocializzazione del reo. La comunità è vittima più o meno diretta del fatto offensivo nella concretezza del suo esistere e sentire psico-sociale, con la conseguenza che non vi potrà mai essere reale ricomposizione del conflitto senza un suo effettivo coinvolgimento.

In questo modo, si esprime l’estensione soggettiva delle disposizioni del decreto. Il concetto normativo di vittima non può esaurirsi nelle figure note all’ordinamento (persona offesa, danneggiato dal reato, parte civile) ma, deve considerare una declinazione espansa che evoca un ruolo attivo e costruttivo di reo, vittima e comunità. All’impostazione verticistica statale nelle dinamiche del processo penale, viene preferita una di tipo orizzontale in cui tutti i protagonisti sono coinvolti allo stesso modo, perché la giustizia riparativa non è una «“questione privata” fra vittima del reato e reo4».

La tesi possibilista, fatta propria dal Tribunale di sorveglianza di Lecce, pone al centro il carattere “incompleto” dell’elenco dei partecipanti ai programmi e l’assenza di un catalogo di reati che ne circoscriva l’accesso, valorizzando il riferimento alla comunità.

Centralità dei fatti o della loro qualificazione giuridica?

La motivazione del Tribunale di sorveglianza di Lecce si muove sui binari della giustizia tradizionale: soggetti legittimati a partecipare, elenco di reati. Pur approdando allo stesso esito, la giustizia riparativa utilizza però un lessico differente e un diverso confine5.

Il principio sull’accesso non sarebbe comprensibile, se si rimane legati alla qualificazione giuridica dei fatti di reato, che nelle pratiche di giustizia riparativa non ha alcuna rilevanza.
Fondamentali sono i “fatti”: non solo quelli sussumibili sotto la fattispecie di reato per cui si è a processo, ma anche tutti quelli che servono a spiegare i “moventi” della condotta illecita, come il contesto in cui è maturata l’offesa e la storia dei soggetti coinvolti. Cambiano i paradigmi: si accede ad una procedura “terapeutica” che permette di osservare ed elaborare “fatti” che consentono di “sciogliere” il nodo tra condotta offensiva e personalità dell’autore, mentre i fatti antigiuridici vengono lasciati nelle aule di giustizia.

In questi termini, il dialogo riparativo esprime una concezione della pena differente, non più solo subita (imposta dall’autorità statale), ma agita: sanzione che cura la frattura prodotta dal reato6 , e che si fa progetto7 , quindi percorso che “costruisce” la responsabilità. È il cuore della finalità rieducativa.

Conclusioni

La tesi restrittiva presenta rilevanti criticità: è incompatibile con l’interpretazione letterale dell’apparato normativo, e non è coerente con un’interpretazione conforme a Costituzione. Al contrario, la tesi possibilista ha ad oggetto: la centralità della funzione rieducativa della pena, il principio di uguaglianza, il riconoscimento e la responsabilizzazione della comunità.

Infine, l’applicazione in concreto dell’adesione all’una o all’altra tesi, è di estrema rilevanza per il rispetto del principio costituzionale di ragionevolezza: consentire l’accesso ai programmi riparativi potrebbe comportare effetti favorevoli per l’autore del reato (benefici penitenziari, il riconoscimento dell’attenuante ex art. 62, co. 1, n. 6, c.p., la graduazione ex art. 133 c.p. della pena pro reo) in tutti quei casi in cui il percorso si conclude con un esito positivo; l’adesione dei giudici di merito alla tesi restrittiva determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra gli autori di reati (anche gravissimi) con vittima e autori di reati (magari bagatellari) senza vittima, come dimostrano già le prime applicazioni: una manifesta e irragionevole disparità di trattamento tra il parricida8 e un giovane ragazzo condannato per spaccio di lieve entità.

1 Tribunale di sorveglianza di Lecce, 12 dicembre 2023, Pres. Dott. Giuseppe Mastropasqua.
2 Corte d’Appello di Milano, Sez. V penale, 12 luglio 2023, Pres. Dott.ssa Francesca Vitale.
3 G. Ruggiero, Giustizia riparativa: le prime applicazioni/contraddizioni in tema di “reati senza vittima”, in DPP 8/2024.
4 Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, Sez. penale, 2/2023, 297.
5 Il diverso confine consiste nella possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento, nella la fase esecutiva della pena, a seguito di una sentenza di non luogo a procedere, ma anche dopo la scarcerazione.
6 M. Donini, Pena agita e pena subita. Il modello del delitto riparato, in Quest. giust. 29.10.2020.
7 L. Eusebi, Riforma penitenziaria o riforma penale? in DPP 11/2015, 1334.
8 La Corte di assise di Monza ha disposto l’invio al Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione penale di Milano per la verifica della fattibilità di un programma di giustizia riparativa di un uomo accusato per l’omicidio del padre, seguito dalla distruzione del cadavere.

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