Il caso
Con la sentenza n. 41133 del 2024 la I sezione penale della Cassazione ha acceso il dibattito sull’accessibilità – uno dei temi apparentemente più pacifici – ai programmi di giustizia riparativa nella fase di esecuzione della pena.

I supremi giudici, accogliendo il ricorso del Ministero della Giustizia, hanno annullato senza rinvio la decisione del Magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila, che avevano ammesso presso la Casa circondariale gli operatori di una onlus per valutare la praticabilità di un programma di giustizia riparativa richiesto da un detenuto in regime di art. 41 bis della L. 26 luglio 1975, n. 354.

Tre erano i motivi del ricorso proposto dal Ministero: a) violazione di legge in relazione all’art. 41 bis ord. pen. rispetto agli artt. 43 e 44 del d.lgs.150/2022, per incompatibilità ontologica tra il regime detentivo speciale e la normativa della restorative justice, poiché quest’ultima contrasta con le ragioni di ordine e sicurezza della prima; b) violazione di legge in relazione agli artt. 4 bis e 15 bis ord. pen., poiché, in caso di esito positivo della procedura riparativa, i benefici penitenziari previsti dalla legge sarebbero preclusi per i condannati per i delitti elencati nell’art. 4 bis ord. pen.; c) violazione di legge in relazione agli artt. 17 ord. pen. e 61, 62, 63, 64, e 92 del d.lgs. 150/2022, poiché l’attuale mancata istituzione dei centri di giustizia riparativa e il fatto che i referenti della onlus non siano stati ancora legittimati a operare nell’Istituto non consentirebbe l’esecuzione del provvedimento impugnato.

La Corte accoglie il ricorso con una brevissima motivazione, ma per ragioni diverse da quelle proposte dal ricorrente. Per i supremi giudici, infatti, entrambi i provvedimenti – l’ordinanza impugnata e il provvedimento di primo grado – sono viziati da una palese violazione di legge, in quanto non hanno considerato che «secondo il disposto dell’art. 44, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2022, ai programmi di giustizia riparativa, “si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione della stessa”. Essendo il ricorrente ancora detenuto in esecuzione di pena egli non può essere ammesso ad alcun programma di giustizia riparativa sintantoché la pena sarà in esecuzione, indipendentemente dal regime detentivo a cui è sottoposto[1]».

La ratio decidendi della pronuncia stabilisce un «principio di diritto stupefacente[2]»: alla giustizia ripartiva non si può accedere durante l’esecuzione penale.

Quello in commento è un evidente abbaglio della Suprema Corte; la disciplina sul punto è veramente chiara e confortata anche dalla storia e dalle finalità della giustizia riparativa.

Pillole di storia recente della restorative justice

La pronuncia della I sezione della Corte stupisce, innanzitutto, in relazione alla storia delle prime forme di giustizia riparativa che, prima della riforma organica del 2022, si sono sviluppate fin dalla fine degli anni ‘90 proprio nella fase esecutiva della pena seppur in modo informale[3]. Sul punto è sufficiente ricordare tre fondamentali passaggi.

Nel 2022, con l’approvazione del D.P.R. n. 230 del 2000 c.d. Regolamento penitenziario, l’allora capo del DAP aveva istituito una Commissione di studio su “Mediazione penale e giustizia riparativa” con l’obiettivo di definire delle linee guida per l’adozione di modelli uniformi di giustizia riparativa nell’ambito dell’esecuzione penale di soggetti adulti, in linea con le Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa. Ma ancora, la legge delega n. 103 del 23 giugno 2017, all’art. 1, comma 85, lett. f) faceva già un cenno di apprezzamento verso i programmi riparativi definiti «quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative». Infine, sempre nell’ambito dell’esecuzione penale si colloca il lavoro realizzato dalla c.d. Commissione Casciniper la riforma in tema di ordinamento penitenziario e di modelli di giustizia riparativa, che ha trovato parziale recepimento nella normativa dell’ordinamento penitenziario minorile (introdotta con d.lgs. n. 121 del 2018) dove si stabilisce che «l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato».

Accanto ai primi agganci normativi, ci sono soprattutto anche le tante esperienze territoriali alcune note come l’incontro tra l’ex brigatista Filippo Bonisoli e la figlia Agnese dell’on. Moro, e quelle meno note come l’esperienza lombarda svolta presso il Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione Penale del Comune di Milano e presso lo Sportello di Giustizia Riparativa del Comune di Monza dove sono stati realizzati fin dal 2010 diversi programmi di dialogo riparativo a partecipazione comunitaria, sia fra persone in esecuzione penale interna e persone del territorio, sia fra persone in messa alla prova e/o in esecuzione penale esterna e persone del territorio[4].

Le prime disposizioni e l’esperienza dei territori sono state la base per la riforma Cartabia che ha stabilito un generale principio di accessibilità ai programmi sia nella fase di cognizione sia in quella esecutiva[5].

Il dettato normativo

La Corte, rigettando la richiesta di rinvio proposta dal difensore per sollevare questione di legittimità costituzionale sull’art. 7 del d.l. 4 luglio 2024, n. 92 che esclude l’accesso ai programmi riparativi per i detenuti in regime di art. 41 bis ord. pen., concentra la propria decisione solo sulla fase procedimentale dell’esecuzione, smarcandosi dai motivi di ricorso del Ministero: in questa scelta si manifesta la principale criticità della sentenza in commento, con la frizione del pronunciato con il dettato normativo che si riferisce in molti casi alla fase esecutiva della pena.

Infatti, sarebbe stato sufficiente soffermarsi sull’art. 44 del d.lgs. n. 150/2022 che stabilisce: ai programmi di giustizia riparativa «si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione delle stesse e all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere». O ancora, sarebbe bastato fare riferimento a due novelle introdotte nella legge sull’ordinamento penitenziario[6]: a) il nuovo art. 15 bis ord. pen. – che replica nella fase esecutiva il dettato dell’art. 129 c.p.p.[7] – il quale stabilisce: «in qualsiasi fase dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dei condannati e degli internati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa»; b) il nuovo comma 4 all’art. 13 ord. pen. che precisa che «nei confronti dei condannati e degli internati è favorito il ricorso ai programmi di giustizia riparativa».

Infine, di conforto alla tesi possibilista dell’accesso ai programmi in sede esecutiva anche la modifica del Codice di rito che prevede nel novellato art. 656, comma 3, c.p.p. che tra gli avvisi contenuti nell’ordine di esecuzione ci sia anche «la facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa».

Il dettato normativo non pone alcun dubbio e ci consente di ribaltare il principio di diritto stabilito nella sentenza n. 41133 del 2024 della I sezione della Cassazione: ai programmi si accede sempre, non è la fase processuale a vincolare l’ammissibilità, perché la giustizia riparativa ha paradigmi e confini differenti da quelli tradizionali del Codice di rito. Il percorso dialogico ha al centro fatti e persone, e quindi la ricostruzione dei legali sociali. Tale differente approccio è già tradotto nella normativa della Riforma Cartabia che consente di accedere ai programmi in ogni stato e grado del procedimento, in fase esecutiva, a seguito di una sentenza di non luogo a procedere e perfino dopo la scarcerazione.

La riparazione nella finalità rieducativa della pena

L’art.43, comma 2, del d.lgs. n.150/2022 fissa le finalità della procedura riparativa: riconoscere la vittima, responsabilizzare l’autore dell’offesa, superare il conflitto provocato da una condotta illecita, ricostruire legami con la comunità. In sintesi: la ricostruzione dei legami sociali interrotti dal reato attraverso un percorso di incontro che può terminare anche con un mero gesto simbolico come precisa l’art. 56 della Riforma.

In questi termini il paradigma riparativo esprime una pena non più solo subita, imposta dall’autorità statale, ma agita: sanzione che cura la frattura prodotta dal reato. Una pena che si fa progetto: è un percorso che “costruisce” la responsabilità, in linea con il processo di rieducazione previsto dall’art. 27 Cost. Infatti, nella dimensione valoriale della Costituzione la pena è un progetto, che può contribuire a un percorso di riacquisto della dignità in senso dinamico persa con la condanna.

La giustizia riparativa, come immaginata dal legislatore, può essere un tassello del programma costituzionale, dunque concretizzazione della sua essenza di accordo sociale finalizzato alla convivenza pacifica: alla rottura del patto di convivenza, non può seguire solo la giustizia vendicatoria, ma anche un dialogo riparativo volto a rimuovere le cause del conflitto e ricostruire legami. In questo senso, l’accessibilità ai programmi riparativi nella fase dell’esecuzione penale costituisce il “terreno di elezione[8]” di questo nuovo paradigma di fare giustizia: l’esclusione come stabilito dalla sentenza in commento è un’interpretazione non conforme a Costituzione. La fase dell’esecuzione, come insegna il Prof. Mitja Gialuz, è il tempo della riflessione e della costruzione del futuro che è l’obiettivo primario della finalità rieducativa posta dalla Costituzione, definita dal Prof. Francesco Palazzo come un progetto che «deve proiettarsi verso l’esterno, la società, come espressione di un impegno dello Stato verso il condannato, che si traduce nella offerta al condannato di opportunità per un autonomo impegno di assunzione di responsabilità verso i valori sociali[9]»: un proposito che si scorge anche nella filigrana delle norme, delle finalità e delle prime esperienze della giustizia riparativa.


[1] Cass. pen., sez. I, sent. n. 41133 del 2024.

[2] M. Gialuz, La giustizia riparativa, questa sconosciuta. Uno svarione della Suprema Corte, in Sist. pen. 11/2024, p. 83.

[3] L. Basilio, La mediazione nell’esecuzione della pena, in Sist. pen. 24.11.2023, p. 2.

[4] F. Brunelli, La giustizia riparativa nei reati senza vittime, in Giur. pen. 7-8, 2023, p. 4.

[5] Sia consentito indicare G. Ruggiero, Giustizia riparativa: le prime applicazioni/contraddizioni in tema di “reati senza vittima”, in Dir. pen. proc. 8/2024, p. 1078 ss.

[6] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150: «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», in G.U. 19.10.2022, p. 591: si intende introdurre «un obbligo per l’amministrazione penitenziaria, per gli operatori che “hanno in carico” la persona condannata, nonché per la magistratura di sorveglianza, di favorire, attraverso le opportune azioni il ricorso alla giustizia ripartiva, offrendo agli interessati l’insostituibile opportunità di accedere ai programmi anche durante l’esecuzione della pena».

[7] Per un approfondimento A. Menghini, Giustizia riparativa: i principi generali, in Sist. pen. 24.11.2023, p. 17 ss.

[8] M. Bortolato, Giustizia riparativa ed esecuzione penale, in V. Bonini (a cura di) La giustizia riparativa, Giappichelli, Torino 2024, p. 289.

[9] F. Palazzo, Presente, futuro e futuribile della pena carceraria, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta (a cura di) La pena ancora: tra attualità e tradizione, Studi in onore di E. Dolcini, II, Giuffrè, Milano 2018, p. 538.

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