Ho visto “Maria” di Pablo Larrain per puro caso: una mia amica, appassionata di cinema, che aveva già visto il film, me ne aveva parlato malissimo e, poiché in genere mi trovo d’accordo con lei, il suo giudizio mi aveva condizionata negativamente.

Dopo aver visto il film mi sono chiesta che cosa abbia visto io nel film, o, piuttosto, cosa non ci abbia visto lei, o quali aspetti, per lei negativi, siano apparsi a me, tutto sommato, irrilevanti.

Lei ha trovato incongruo, ad esempio, l’aver inserito, nella narrazione del film, l’aria della Tosca “E lucean le stelle”, dato che è un’aria da tenore. Il che è vero; tuttavia, credo che i versi dell’aria, cantati dal personaggio di Mario Cavaradossi nell’opera di Puccini, descrivano perfettamente il sentimento che il regista attribuisce alla sua Maria: il sogno di un amore, quello per Aristotele Onassis, che si era consumato in un breve arco di tempo, ma che aveva segnato irrimediabilmente e, nella ricostruzione filmica, aveva continuato a consumare la vita di Maria.

Larrain descrive Maria ed Onassis come due personaggi irriducibilmente distanti. Onassis – e l’attore che lo interpreta è incredibilmente rassomigliante – è un personaggio disturbante: un uomo per nulla affascinante nella sua evidente mancanza di raffinatezza e nel suo rapace senso della realtà, e ci si chiede cosa mai abbia potuto trovare in lui una donna come Maria. E il film narra la fase della vita di Maria in cui il suo sogno d’amore si è trasformato in un’ossessione mortifera, l’anticamera inquietante della fine.

La narrazione ci descrive una donna molto attuale, ma anche senza tempo, quasi un archetipo dei legami inspiegabili che legano alcune donne ad uomini inadeguati, forti solo del loro narcisismo. Non a caso, Pablo Larrain insinua l’idea che l’inizio del declino della Callas come artista fosse dipeso proprio da Onassis, dalla sua invidia ed avversione per la statura, non solo professionale, della sua compagna. Emblematica è la frase che Onassis rivolge a Maria dopo l’esibizione canora di Marylin Monroe alla festa di compleanno del presidente Kennedy: “Nessuno fa caso alla sua voce, come nessuno fa caso al tuo corpo.” Un’affermazione di assoluta aggressività, che fa emergere la natura di un legame in cui si mescolano fragilità e competitività, in cui si fronteggiano una donna sensibile ed un misero predatore, confusi sotto la patinata ed inconsistente etichetta di un così detto amore. 

Questa è una relazione che si interrompe, ma per Maria non finisce; ella continua a vivere dentro di sé questo legame, lo trasfigura e lo trasforma nel fantasma che riempie le sue giornate. A questo punto, il punto il cui il film colloca la vicenda, Maria non è già più la Callas, è una donna consumata da ricordi venefici e da un amore malato, una donna stranita che solo talvolta ritorna ad essere la Callas. Ma solo per capire che non potrà farcela.

Condividiamo occasionalmente il quotidiano rarefatto di una donna sola con il suo senso di fallimento, che si nutre dei ricordi di un unico uomo. Un uomo mediocre e tutto sommato volgare, incomprensibilmente amato da una donna come Maria, una donna che si è lasciata sminuire, tradire, alla fine abbandonare, e, ciò nonostante, ha continuato a vivere nel rimpianto di un legame fondato soprattutto sui suoi sentimenti, sulla sua volontà e sulla sua capacità di amare. Anche a costo del travolgimento della sua arte e della sua voce.

C’è una scena illuminante del film, quasi una rivelazione, quella dell’incontro tra Maria e la sorella. Una sorella che le fornisce i farmaci, anche consapevole dei loro effetti dannosi; una sorella che conosce i suoi fantasmi, perché si tratta di fantasmi comuni. Una donna che condivide con Maria ricordi su cui si basa un mondo che non si può condividere con nessun altro, esperienze che costituiscono un linguaggio che nessun altro comprende.

Ed è proprio la sorella che, innanzi al dilagare dei ricordi di quanto accaduto durante l’occupazione nazista della Grecia, intima a Maria di chiudere quella porta, la porta dei ricordi. Le due donne sono sedute di fronte, al tavolino di un caffè, in una dimensione rarefatta, quasi come se si trovassero all’interno del palco di un teatro dell’opera e al di fuori, oltre i vetri, la realtà scorre come un fondale di proscenio.

In un racconto dal titolo “Occhi di cane azzurro”, Gabriel Garcia Marquez narra di un uomo ed una donna che si incontrano solo nei sogni e che, da svegli, non si riconoscono. “Non aprire quella porta, è pieno di sogni difficili lì dentro”, è una delle frasi del racconto che ho sempre portato dentro di me, da quando l’ho letto, molti anni fa.

A quella frase mi ha fatto pensare la scena del colloquio tra Maria e la sorella, quasi come se vi fosse un colloquio insondabile tra Garcia Marquez e Larrain; quando Maria risponde alla sorella che non è possibile chiudere quella porta, perché è da lì che viene la musica, perché non c’è musica senza dolore.

Nel racconto di Marquez la donna, durante il giorno, scrive sui muri della città le parole “occhi di cane azzurro”, nel disperato tentativo di riconoscere l’uomo del sogno. Forse Maria ha bisogno dei suoi ricordi, del dolore che da essi scaturisce, perché senza di essi non ci sarebbe più nulla, non resterebbero neanche i sogni, non ci sarebbe più Maria, sicuramente non c’è più la Callas.

Pablo Larrain ci racconta la storia di una donna che ha fatto della sua vita un mito per conservare il dolore.    

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