Sommario: 1.- Proporzionalità e ragionevolezza dei sistemi sanzionatori: la loro assunzione come “valvole di sicurezza” del sistema. 2.- La erosione delle “zone franche”. 3.- Pene fisse e pene proporzionali: il diverso atteggiamento della Corte costituzionale. 4.- La proporzionalità “dinamica”: i mutamenti di sistema e di cultura. 5.- La sproporzione sanzionatoria “derivata”. 6.- Proporzionalità e giurisprudenza sovranazionale. 7.- Proporzionalità e confisca “punitiva”.
1.-Proporzionalità e ragionevolezza dei sistemi sanzionatori: la loro assunzione come “valvole di sicurezza” del sistema
Come sappiamo, per molto tempo la Corte si è mostrata assai cauta nello scrutinare la adeguatezza “costituzionale” delle sanzioni, facendo leva su un concetto di proporzionalità racchiuso nella sfera della “ragionevolezza-uguaglianza”, non “manifestamente” turbata. Solo più di recente i due parametri sono stati autonomamente declinati, salvo poi a ricomporsi in talune ipotesi in cui si è riaffacciato prepotentemente l’esigenza di bilanciamento tra valori contrapposti.
Ma perché proporzionalità e ragionevolezza hanno finito per assumere, nel corso del tempo, un risalto tanto marcato nel quadro dei “poteri” di conformazione dell’ordinamento ai principi costituzionali, per come – fra l’altro – “dinamicamente” e storicamente interpretati e “definiti” dalla Corte costituzionale? Vale ancora la originaria impostazione di tutela oggettiva ed astratta che caratterizzava il sindacato costituzionale, quasi mutuata dalla visione kelseniana di una Corte di “mero annul-lamento”, attenta più alle “geometrie” disegnate dalle fonti che non alla tutela dei diritti, starei per dire “vivi e vissuti”?[1].
La domanda è, ovviamente, retorica. Più si complicano i livelli delle garanzie e la “gamma” dei profili di tutela, più diventa importante che – come ormai da tempo ripete la giurisprudenza della Corte costituzionale – l’ordinamento non presenti aree impermeabili rispetto al controllo di costituzionalità, perché, altrimenti, germinerebbe la figura di un legislatore “legibus solutus” [2].
Da qui la sindacabilità delle norme penali di favore (v. in particolare la sentenza n. 394 del 2006[3]), con il tendenziale superamento delle preclusioni al sindacato di costituzionalità derivanti dal carattere incidentale del relativo giudizio; e da qui, anche, l’adozione di sentenze manipolative o creative “di sistema”, come la sentenza n. 113 del 2011, la quale, in considerazione della perdurante inerzia del legislatore (malgrado il forte monito già lanciato con la sentenza n. 129 del 2008), ha “creato” un nuovo caso di revisione, per consentire la celebrazione di un nuovo procedimento penale nei confronti di chi abbia subito un processo ritenuto ingiusto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Un “ponte” normativo, quest’ultimo, completato solo a distanza di anni, con la riforma Cartabia e l’introduzione nel codice di procedura penale di un apposito istituto (artt. 628-bis).
Da qui, anche e soprattutto, il ricorso a criteri di “commisurazione” del tasso di incompatibilità con i principi costituzionali, meno schematici e dotati di maggiore fluidità, come, appunto, i canoni di ragionevolezza e proporzionalità, atti a meglio bilanciare fra loro i diversi diritti coinvolti e, in ipotesi, in conflitto fra loro. Ed è grazie ad essi – si è affermato – «che viene modulandosi una forma di tutela dei diritti fondamentali che pone al centro la persona in tutta la sua storicità, l’homme situé in luogo dell’individuo astratto dell’epoca liberale» [4]. È ovvio che, in un contesto così articolato, occorre poi misurarsi con il concetto stesso di proporzionalità e con i rapporti che lo possono eventualmente legare a quello (più tradizionale) di ragionevolezza.
La “proporzionalità” evoca, infatti, sul versante dello scrutinio di costituzionalità, una correlazione del mezzo rispetto al fine, nel senso che, tra strumento normativo regolatore, e realizzazione del fine che con esso si intende perseguire, l’opera di “bilanciamento” deve condurre ad un “equilibrato” componimento dei sacrifici. Si cade, dunque, ineluttabilmente in un giudizio di “valori”, che assume connotazioni tanto prossime al “merito”, da imporre – come temperamento alla “fluidità” del criterio – parametri di tale auto evidenza da rendere l’eventuale squilibrio apprezzabile ictu oculi.
La ragionevolezza[5], invece, essendo “figlia” della uguaglianza, tende a spostarsi più sul versante “comparativo” (a situazioni uguali deve corrispondere un trattamento simile; a situazioni diseguali deve corrispondere una differenza di regime), il quale evoca, da vicino, la tematica del giudizio cosiddetto triadico (tertium comparationis, o di confronto fra le norme all’interno di una identica ratio legis) o diadico (confronto diretto fra norma e parametro)[6].
Comunque, tanto se la ragionevolezza venga declinata sul versante della ragionevolezza-uguaglianza; quanto se la si consideri sul piano della ragionevolezza-razionalità, in forza del principio di non contraddizione del sistema (giudizio triadico), quanto, infine, se la si intenda come giudizio a se stante, fondato su un “imperativo di giustizia” che non necessità di alcun tertium comparationis, è evidente che il suo impiego (e la sua stessa “spiegazione” razionale) risenta non poco del tasso di “impegno” con cui la Corte, anche in sede motivazionale, intende utilizzare questo passe-partout.
Ma la ragionevolezza sembra riflettersi anche sul piano funzionale della norma, chiamando l’interprete ad una operazione di “ermeneusi teleologica” non facile, soprattutto in presenza di prassi legislative nelle quali abbondano “norme intruse”, norme sintatticamente ambigue, norme pletoriche o, addirittura, norme contraddittorie. E tutto ciò perché la Corte costituzionale, in una non recente ma fondamentale sentenza, ha tracciato l’oggetto ed il perimetro dello scrutinio di ragionevolezza, che, ovviamente, viene consegnato a qualsiasi operatore giuridico e, dunque, anche ai giudici.
Nella sentenza n. 89 del 1996[7], infatti, la Corte pose in luce la importanza di individuare la “causa” normativa, vale a dire, non la occasio e neppure la ratio legis, ma la funzione che, oggettivamente, la norma è chiamata a svolgere all’interno di un determinato assetto; cosicché, solo ove sia rinvenibile uno iato tra norma e “causa” che la deve orientare (e, dunque, anche quando non si è proceduto al doveroso bilanciamento tra valori contrapposti) è possibile scrutinarne la ragionevolezza, senza sconfinare in non consentite digressioni sul piano della mera opportunità. Al di là della evocazione semantica di categorie civilistiche, ci sembra di cogliere, al cuore di tale significativa pronuncia, la indicazione di un parametro che presenta alcune analogie con l’operazione che i penalisti sono abituati a compiere quando si impegnano nella ricerca dell’oggetto giuridico del reato, in funzione dell’accertamento della relativa offensività.
2.- La erosione delle “zone franche”
Ma è in questi ultimi anni che l’attenzione della Corte costituzionale ha maggiormente esaltato il principio di proporzionalità nel campo penale, affrancandosi, definitivamente, da vincoli – quali la necessità di “rigorosi” tertia comparationis– che ne proietterebbero gran parte delle decisioni verso un insoddisfacente non possumus .[8] La logica della erosione delle “zone franche” atte a precludere lo scrutinio di costituzionalità, ha dunque finito per prevalere.
In questa prospettiva e sullo specifico versante del controverso tema di quali siano gli “indicatori” sulla cui base operare lo scrutinio di “proporzionalità” sulla pena, in larga misura affrancato dal tertium comparationis e dal relativo modello di giudizio triadico, è anzitutto emblematica la sentenza n. 236 del 2016. Con tale pronuncia, infatti, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. – l’art. 567, comma 2, c.p. (delitto di alterazione di stato di famiglia del neonato commesso mediante falso), nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni. La severa cornice edittale – ha rilevato la Corte – mentre non può ritenersi anacronistica in rapporto al mutato contesto normativo, tecnico e scientifico (giacché il disvalore della condotta sanzionata e l’inerente allarme sociale non sono attenuati né dall’astratta possibilità delle prove genetiche per l’accertamento della filiazione, né dalle riforme del diritto di famiglia intervenute nel diverso settore del diritto civile) – risulta, sul piano della ragionevolezza intrinseca, manifestamente sproporzionata al reale disvalore della condotta punita, ledendo congiuntamente il principio di proporzionalità della pena ri-spetto alla gravità del fatto commesso (art. 3 Cost.) e quello della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.). L’eccessiva severità della sanzione, pur se applicata nel minimo edittale, costringe infatti il giudice – ha rilevato la Corte – ad infliggere una punizione irragionevolmente sproporzionata per eccesso, anche nell’ipotesi di condotte poste in essere allo scopo di giovare agli interessi del neonato, attribuendogli un legame familiare altrimenti assente; e può così ingenerare nel condannato la convinzione (ostativa a un efficace processo rieducativo) di essere vittima di un ingiusto sopruso. La manifesta irragionevolezza per sproporzione si evidenzia anche al cospetto della meno severa cornice (reclusione da tre a dieci anni) stabilita dal primo comma dell’art. 567 c.p. per l’altra fattispecie di alterazione dello stato di famiglia del neonato, commessa mediante la sua sostituzione. Le due fattispecie non sono del tutto disomogenee, essendo identico l’evento delittuoso (alterazione dello stato civile del neonato) e, di conseguenza, il bene giuridico protetto (diritto del minore alla corretta rappresentazione della propria ascendenza); né le differenti modalità esecutive esprimono, in sè stesse, connotazioni di disvalore tali da legittimare una divergenza di pena edittale. Pertanto – ha concluso la sentenza – alla luce dei poteri di intervento della Corte costituzionale, l’unica soluzione praticabile per eliminare la manifesta irragionevolezza denunciata, utilizzando coerentemente grandezze già rinvenibili nell’ordinamento, consiste nel parificare (in mitius) il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie incriminatrici nelle quali si articola l’unitario art. 567 c.p. Conclusivamente, la Corte ha ritenuto auspicabile un intervento del legislatore che, riconsiderando funditus, ma complessivamente, il settore dei delitti in esame, potrà introdurre i diversi trattamenti sanzionatori ritenuti adeguati.
Dunque, ragionevolezza e proporzionalità, divengono il nucleo dello scrutinio, rinvenendo all’interno dello stesso sistema il criterio cui “agganciare” la determinazione del trattamento sanzionatorio, non “unico” fra quelli costituzionalmente compatibili, ma comunque “rinvenibile” nel sistema. Un “accenno” di “creatività” sanzionatoria, ma comunque accettabile sia perché non “inventato” ma “rinvenuto”, sia perché destinato a fungere da meccanismo per così dire interinale, in attesa di una auspicata riforma legislativa [9].
Identica nella logica, ma tutt’altro che “simmetrica” nella decisione, è la sentenza n. 40 del 2019[10], con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni. La Corte, già in precedenza, aveva avuto modo di sottolineare «che la divaricazione di ben quattro anni venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo «ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria» (sentenza n. 179 del 2017) all’esito di una articolata evoluzione legislativa e giurisprudenziale […].». La Corte ha poi ribadito che l’ampiezza del divario sanzionatorio tra il massimo della pena prevista per i fatti di lieve entità e quella minima prevista per i fatti non lievi, condizionasse «inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto […] con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte».
Da ciò deriva – secondo la Corte – la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost[11].
Il punto, peraltro, nel quale la sentenza offre il destro a talune perplessità critiche è il criterio – o meglio, i variegati e per taluni aspetti “faticosi” criteri[12] – in base ai quali ha rideterminato la pena minima per i fatti non lievi concernenti gli stupefacenti, giacché ha ritenuto di poterla individuare nella misura di anni sei di reclusione, anziché procedere – come sarebbe stato logico attendersi, ma che la Corte aveva già in precedenza disatteso, sul rilievo che il legislatore ben può differenziare il trattamento massimo del fatto lieve rispetto al trattamento minimo del fatto non lieve (sentenza n. 179 del 2017[13]) – in una misura corrispondente al massimo della pena prevista per i fatti di lieve entità. Questa, si, soluzione ricavabile dal sistema, che avrebbe “azzerato” la censurata dissimmetria, in linea, d’altra parte, con quanto la stessa Corte aveva già fatto in tema di riadeguamento delle soglie di punibilità in campo di reati tributari (sentenza n. 80 del 2014)[14].
3.- Pene fisse e pene proporzionali: il diverso atteggiamento della Corte costituzionale
La nuova stagione inaugurata dalla sentenza n. 236 del 2016 non poteva non riverberarsi su quello che da tempo rappresentava un vero punctum dolens della giurisprudenza costituzionale: vale a dire il marcato sfavor con cui la Corte ha da sempre riguardato la categoria delle pene fisse (salvo rarissime eccezioni), la cui ricalibratura in chiave di compatibilità costituzionale incontrava, però, il grosso ostacolo dei tertia comparationis e delle cosiddette “rime obbligate”.
Non può non richiamarsi a questo riguardo la sentenza n. 50 del 1980[15], ove la Corte non mancò di rilevare come «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide» non apparissero in linea con il “volto costituzionale” del sistema penale; cosicché «il dubbio di legittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma dei comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».
Affermazioni “decise”, quelle della Corte, che ancor più si esaltano alla luce dei plurimi parametri che, nella circostanza, vennero evocati a fondamento di un siffatto principio. Non soltanto uguaglianza e ragionevolezza, ma – a sostegno della esigenza di “individualizzazione” della pena – il principio di legalità della pena, la responsabilità penale “personale”, la funzione rieducativa della pena, e il principio di proporzionalità che correla la pena alla offensività del fatto ed al relativo disvalore.
Sembrano, dunque, “punti di non ritorno” che “impongono” la ricerca di correttivi, ove la Corte venga investita sul punto. Ma è ovvio che, in questa prospettiva, è la natura stessa di “pena fissa” a porre non agevoli problemi di individuazione, in concreto, di meccanismi sanzionatori “flessibili”, senza invadere le scelte discrezionali del legislatore e, con esse, il principio di riserva di legge costituzionalmente imposto in materia penale.
Il “mutamento di passo” è, però, segnato dalla riproposizione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare, che stabilisce, in caso di condanna, la pena accessoria della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresta, stabilita in misura fisse di dieci anni. Dopo due decisioni di inammissibilità, per mancanza di “rime obbligate” (sentenza n. 134 del 2012 e ordinanza n. 208 del 2012), la Corte è nuovamente intervenuta con la sentenza n. 222 del 2018[16], dichiarando illegittima la previsione censurata nella parte in cui stabiliva la pena accessoria in misura fissa di dieci anni anziché prevedere l’applicazione della pena accessoria “fino a dieci anni”. In sostanza, la pena accessoria “fissa” diveniva modulabile senza un minimo e sino al massimo precedentemente stabilito come misura fissa. La Corte, nel frangente, ha espressamente respinto la esigenza di un tertium comparationis per la ammissibilità dello scrutinio di costituzionalità in tema di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, evocando, ancora una volta, la sufficienza di “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti” – ancorché non costituzionalmente obbligate – tramite le quali poter sostituire la previsione sanzionatoria dichiarata illegittima, così da sanare immediatamente il vulnus, senza creare, però, vuoti di tutela.
La criticità della pronuncia, sta, però, a nostro avviso, proprio nel percorso decisionale. Per operare la scelta “sostitutiva”, infatti, la Corte ha dapprima escluso la possibilità di eliminare tout court la misura della pena, così da rendere applicabile la regola generale sancita dall’art. 37 c.p. (durata della pena accessoria uguale a quella della pena principale), in quanto tale nuovo “automatismo” avrebbe generato un effetto «distonico rispetto al legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon funzionamento del sistema economico».
Da qui la scelta di sostituire alla originaria fissità della pena accessoria, la valutazione discrezionale del giudice, al quale viene dunque devoluto il compito di «determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p.; durata che potrebbe dunque risultare, in concreto, maggiore di quella della pena detentiva contestualmente inflitta, purché entro il limite massimo di dieci anni. Ciò tenendo conto sia del diverso carico di afflittività, sia della diversa finalità, che caratterizzano le pene accessorie in parola rispetto alla pena detentiva: diverse afflittività e finalità che suggeriscono, nell’ottica di una piena attuazione dei principi costituzionali che presiedono alla commisurazione della pena, una determinazione giudiziale autonoma delle due tipologie di pena nel caso concreto».
La Corte, dunque, crea un tertium genus di pena accessoria, da calibrare alla luce dei criteri che l’art. 133 c.p. – applicabile in linea di principio[17], ma non necessariamente “sintonico” rispetto al “polimorfismo” sempre più accentuato delle pene accessorie – tenendo conto delle peculiarità di natura e funzione di queste ultime: un giudice, dunque, davvero “creatore” della “pena accessoria proporzionale”, e che, al limite, può anche sostanzialmente “disapplicarla” (ancorché obbligatoria) non essendo prevista una durata minima.
Eppure, le pene accessorie sono “altro” rispetto a quelle principali: le prime, come recita l’art. 28 c.p. sono applicate dal giudice con la sentenza di condanna; le seconde, invece, conseguono di diritto dalla condanna, come “effetti penali di essa”. Sul piano strutturale, poi, le prime integrano sanzioni di tipo detentivo o pecuniario; le seconde, invece, misure di carattere interdittivo, e dunque, di tipo ontologicamente “relazionale”. Diverse sono, poi, le corrispondenti funzioni, come riconosciuto dalla stessa Corte, ma trattandosi di funzioni variamente intese in dottrina[18], e comunque non “normativizzate”, non si vede come il giudice possa calibrare la durata della misura in funzione di un qualcosa che egli stesso è chiamato a determinare. Creazione, dunque, stavolta “di sistema”, che trasferisce in capo al giudice un compito che pare difficilmente compatibile con il principio di stretta legalità.
Ad epiloghi in parte analoghi la Corte è pervenuta anche in tema di sanzioni amministrative “fisse” e “sproporzionate”. Nella sentenza n. 40 del 2023 si è infatti affermato che le sanzioni amministrative rigide, che colpiscono in egual modo, e quindi equiparano, fatti in qualche misura differenti, debbono rispondere al principio di ragionevolezza. Di qui l’esigenza di verificare che la sanzione non sia manifestamente sproporzionata anche in relazione alle condotte meno gravi. Pure per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato. Ciò discende – ha sottolineato la Corte – dal dovere di assicurare l’attuazione del principio di proporzionalità, il quale, in questo ambito, trae il proprio fondamento nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione. Da qui, la declaratoria di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, l’art. 4, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 297 del 2004, nella parte in cui prevede, per ogni inadempienza alle prescrizioni o agli obblighi impartiti dalle competenti autorità pubbliche agli organismi di controllo delle DOP o IGP, la sanzione amministrativa pecuniaria «di euro cinquantamila», anziché «da un minimo di diecimila a un massimo di cinquantamila euro». La disposizione, ha infatti osservato la Corte, equipara le condotte più gravi e pericolose a quelle di minor rilievo, stabilendo per tutte una sanzione in misura fissa, in aperto contrasto con il principio di proporzionalità delle sanzioni. Se, infatti, la sanzione in esame è diretta a una categoria peculiare e omogenea di soggetti, il cui compito è quello di verificare il rispetto delle regole sulle produzioni agroalimentari DOP o IGP, a presidio di interessi di sicuro rilievo, quali la concorrenza leale, il legittimo impiego economico del nome e la corretta informazione dei consumatori, ciò non giustifica l’assoggettamento alla stessa sanzione di tutti gli illeciti a tali imprese imputabili. La sanzione – ha peraltro puntualizzato la Corte – non può, in questa occasione, essere eliminata puramente e semplicemente, per effetto della pronuncia di accoglimento, ed è necessario preservare la capacità dell’ordinamento di reagire efficacemente alla commissione di condotte illecite, soprattutto perché la normativa in esame trae origine dall’adesione all’Unione europea e costituisce attuazione della disciplina sovranazionale. La rimozione del vulnus costituzionale deve, quindi, passare attraverso la sostituzione della sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, individuando una misura sanzionatoria graduabile, la cui applicazione sia di volta in volta modulata in base alle caratteristiche degli illeciti commessi. Occorre, dunque, attingere a precisi punti di riferimento, nel tessuto normativo, per fissare il minimo edittale; la soluzione, ha dunque concluso la Corte, è offerta, nella specie, dall’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 20 del 2018, che punisce con sanzione graduabile le violazioni degli organismi di controllo sui prodotti BIO, il cui sistema di tutela, anch’esso di matrice europea, è parallelo e complessivamente simile a quello concernente i prodotti DOP e IGP, in particolare per quanto attiene alla disciplina dei controlli assoggettate alla medesima regolamentazione. La misura sanzionatoria indicata s’intende naturalmente modificabile dal legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, con altra, purché rispettosa del principio di proporzionalità.
L’intervento “manipolativo” del quadro sanzionatorio, si muove, pertanto, da un lato, evitando l’horror vacui che scaturirebbe da una pronuncia meramente demolitoria della sanzione, quante volte essa sia indispensabile;dall’altro, analizzando il “sistema” e rinvenendo al suo interno dei parametri normativi che possano fungere, non da tertium comparationis, ma come criteri da adattare in chiave “analogica”.
Situazione diversa da quella scrutinata con la sentenza n. 185 del 2021[19]. Con tale pronuncia, infatti, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell’art. 3, in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU – l’art. 7, comma 6, secondo periodo, del d.l. n. 158 del 2012, conv., con modif., nella legge n. 189 del 2012, che prevedeva una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro a carico del titolare della sala o del punto di raccolta o di vendita dei giochi per l’inosservanza degli obblighi a carattere informativo sul rischio di dipendenza dal gioco d’azzardo. La norma censurata, osservò infatti la Corte, puniva indistintamente l’inosservanza dei plurimi obblighi di avvertimento – indicazioni su tagliandi e apparecchi da gioco, esposizione di targhe e materiale informativo delle ASL – contemplati dall’art. 7, comma 5, dello stesso decreto, con una sanzione di considerevole severità e fissa, non modulabile dall’autorità amministrativa e dal giudice in base alle circostanze del caso concreto secondo i criteri indicati dall’art. 11 della legge n. 689 del 1981. La fissità del trattamento sanzionatorio – puntualizzò la Corte – impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti, che dipende dall’ampiezza dell’offerta di gioco e dal tipo di violazione commessa. Considerato che si trattava di inosservanze di obblighi informativi, a carattere preventivo, sensibilmente antecedenti la concreta offesa all’interesse protetto, la Corte non ritenne nel frangente di ostacolo alla declaratoria di illegittimità costituzionale l’impossibilità di rinvenire, nel sistema vigente, una sanzione che potesse essere sostituita dalla stessa Corte a quella dichiarata costituzionalmente illegittima, considerata la non assimilabilità delle condotte sanzionate. La declaratoria assunse, pertanto, un contenuto meramente ablativo, non senza devolvere al legislatore il compito di determinare, nel rispetto dei principi costituzionali, una diversa sanzione per i comportamenti considerati, stabilendone i relativi limiti minimo e massimo. L’assenza di un “vuoto normativo” costituzionalmente rilevante, giustificava, dunque, un intervento di mera soppressione della sanzione “sproporzionata”.
4.- La proporzionalità “dinamica”: i mutamenti di sistema e di cultura
Il tema della proporzione, specie ove si tratti di sanzioni penali, oltre che termine di relazione, non può profilarsi come un “dogma” cristallizato nel tempo e nello spazio, dal momento che, a noi sembra, esso vive e si realizza proprio in quanto termine dinamico, plasmabile in ragione delle varie evenienze che diacronicamente vengono a sovrapporsi, tanto nel sistema normativo, che nella stessa coscienza collettiva. Se muta il sistema, mutano con esso tutti gli equilibri che si intersecano, bilanciandosi, al suo interno. Se muta il disvalore del fatto, la proporzionalità della sanzione vi si deve adeguare. Un esempio del primo caso (modifica di sistema): la riforma Cartabia ha introdotto l’istituto delle pene sostitutive, modificando radicalmente il vecchio apparato delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi: necessariamente, ha dovuto coordinare tale nuovo assetto sanzionatorio (art. 59 della legge n. 689 del 1981 come novellato) con le norme dell’ordinamento penitenziario, e con le preclusioni alla applicazione delle misure alternative alla detenzione (ormai assurte al rango di norme “sostanziali” con la sentenza n. 32 del 2020 della Corte costituzionale) che scaturiscono dall’art. 4-bis, per impedire che quel regime di rigore fosse frustrato, in concreto, dalla immediata applicabilità di una pena sostitutiva.
Allo stesso modo, e sempre con la riforma Cartabia, è stato apportato un profondo mutamento di sistema nella esecuzione delle pene pecuniarie e della relativa conversione in caso di mancato pagamento, essendo stata (come si legge nella Relazione al d.lgs. n. 150 del 2022) abbandonata la impostazione civilistica della pena pecuniaria come credito da riscuotere, per riconvertirle alla sua natura di vera e propria pene. Da qui la scelta di convertire la pena pecuniaria nella pena della semilibertà sostitutiva in caso di semplice insolvenza del condannato e in lavoro di pubblica utilità sostitutiva o, in caso di opposizione, in detenzione domiciliare sostitutiva, in caso di insolvibilità del condannato. Il tutto, ci sembra, con evidenti riverberi sul versante della proporzionalità, che può scaturire da un impianto sanzionatorio che costruisce la pena pecuniaria – spesso aggiuntiva a quella detentiva – secondo archetipi ormai superati. Riflessioni, queste, che, a loro volta, finiscono per riverberarsi su quegli altri istituti destinati ad incidere sul patrimonio, come le confische “punitive”.
Un esempio del secondo tipo (sopravvenuta sproporzione per eccesso sanzionatorio, a seguito di un mutamento “culturale”) la nota (e assai discussa) sentenza sull’oltraggio (n. 341 del 1994[20]). Nel frangente, infatti, la Corte osservò che la previsione, da parte del legislatore del 1930, di sei mesi di reclusione come minimo della pena per il reato di oltraggio non fosse consona alla tradizione liberale italiana ne’ a quella europea, apparendo come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e societa’ non e’ un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima. Pertanto, concluse la Corte, la rigidita’ e severita’ del minimo edittale previsto per il reato di oltraggio appare il frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell’amministrazione), anche nei casi di minima entita’, e tutela della liberta’ personale del soggetto agente, come emerge inoltre dal raffronto con la pena minima prevista per il reato di ingiuria (dodici volte inferiore), nonche’ dalla situazione di disagio nei giudici e nella societa’, manifestatasi con la continua rimessione della medesima questione di legittimita’ costituzionale alla Corte. Conseguentemente, tenuto conto che il legislatore, nonostante i ripetuti inviti rivoltigli dalla Corte e le varie iniziative di riforma nel senso di attenuare il censurato trattamento sanzionatorio minimo, non era intervenuto ad adeguare tale disciplina ai principi costituzionali, dichiarò l’illegittimita’ costituzionale, per violazione degli artt. 3, 27, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 341 cod. pen., nel teso allora vigente, nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei.
5.- La sproporzione sanzionatoria “derivata”
E’ altrettanto evidente che un vulnus di sistema può scaturire anche da un “innesto” operato dalla stessa Corte costituzionale, il quale ben può dar vita ad una sorta di effetto di ridondanza, che si proietta su fattispecie finitime, dando vita ad un fenomeno di incostituzionalità, per così dire, derivata. E’ quanto si è verificato nel caso del sequestro di persona di cui all’art. 630 cod. pen., che si è poi proiettato sui reati di estorsione e da ultimo di rapina. Il fenomeno, però, tutt’altro che singolare in sé, merita qualche riflessione sulla sua “causa genetica”
Con la sentenza n. 68 del 2012, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità[21].
Nel frangente, la Corte sottolineò come il giudice rimettente − sul presupposto che la norma impugnata prevede una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza, non ragionevolmente proporzionata all’intera gamma dei fatti riconducibili al modello legale − avesse censurato, in particolare, la mancata previsione di una circostanza attenuante che consenta al giudice di mitigare la risposta punitiva, in presenza di elementi oggettivi rivelatori di una limitata gravità del fatto, sulla falsariga di quanto è consentito dall’art. 311 del codice penale in rapporto al sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo.
Ebbene – puntualizzò la Corte – il sequestro a scopo di terrorismo o di eversione si rivela, in effetti, pienamente idoneo a fungere da tertium comparationis, trattandosi di figura strettamente affine e sostanzialmente omogenea rispetto a quella del sequestro estorsivo, sotto tutta una serie di profili, quali: la comune matrice storica; la struttura della fattispecie; il trattamento sanzionatorio quanto alla pena prevista per la fattispecie-base; la previsione di identici aggravamenti di pena collegati alla morte del sequestrato e di analoghe circostanze attenuanti correlate alla «dissociazione» dell’agente. Peraltro, a fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende l’ordine costituzionale, laddove il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio: e non può esservi alcun dubbio in ordine alla preminenza, nella gerarchia costituzionale dei valori, del primo dei beni sopra indicati rispetto al secondo. La esaminata comparazione – dedusse la Corte – rende manifestamente irrazionale – e dunque lesiva dell’art. 3 Cost. – la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entità, analoga (corsivo nostro) a quella applicabile alla fattispecie “gemella”, tanto più considerando che tale attenuante − rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali − assolve alla funzione di mitigare, in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo), una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale.
Da ciò – concluse la Corte – discende anche una concorrente violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa.
Il quadro normativo su cui si è pronunciata la Corte è di quelli che potemmo definire asintotici: si cerca di tendere alla coerenza ma un simile epilogo pare irraggiungibile. L’art. 311 fu infatti introdotto nel codice penale nel dichiarato intento di mitigare l’asprezza sanzionatoria con la quale il legislatore del 1930 aveva disegnato gli editti punitivi in tema di reati contro la personalità dello Stato[22]. Dal canto suo, nel testo originario del codice, per il delitto di cui all’art. 630 (Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione) era prevista la pena detentiva (oltre quella pecuniaria) della reclusione da otto a quindici anni e se il colpevole conseguiva l’intento, la pena era della reclusione da dodici a diciotto anni. A sua volta, il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione di cui all’art. 289-bis, venne introdotto, a ridosso del sequestro Moro, con il d.l. 21 marzo 1978, n. 59, con una pena, per la ipotesi semplice, che va da un minimo di venticinque ad un massimo di trent’anni di reclusione. E’ del tutto evidente che, nell’introdurre tale norma, con lo strumento della decretazione di urgenza ed in un contesto tanto particolare come quello della gravissima vicenda che ne aveva determinato il “conio”, il legislatore non si pose affatto il problema della applicabilità dell’ipotesi “lieve” prevista, per tutti i reati del titolo, dall’art. 311 del codice penale. E che si tratti di una aporia di sistema lo dimostra, non soltanto il sostanziale silenzio della dottrina sul punto (prima dell’intervento della Corte), ma anche la difficile correlabilità concettuale di una ipotesi “lieve” che acceda ad una fattispecie connotata da un così elevato grado di disvalore. Dal canto suo, anche il delitto di cui all’art. 630 cod. pen., ha vissuto inasprimenti assai sensibili rispetto al quadro delineato dal codice del 1930, dal momento che, anche per esso, la pena per la ipotesi “base” ha raggiunto – come ricorda la Consulta – una “forbice” edittale identica a quella prevista dall’art. 289-bis cod. pen. Insomma, una intricata e poco perspicua “matassa” di previsioni punitive che la sentenza della Corte ha tentato di riequilibrare.
Ma il punto che qui interessa è evidentemente un altro. Ed è, a nostro avviso, rappresentato dal fatto che, da un lato, si finisce per riaffermare la validità del concetto di tertium comparationis, che ancora figura come paradigma di commisurazione della proporzionalità o meno del trattamento punitivo; dall’altro, che, a fondamento della declaratoria di incostituzionalità, si evocano, quali parametri costituzionali di riferimento, il combinato disposto del principio di uguaglianza-ragionevolezza e di quello della funzione rieducativa della pena, all’evidenza compromessi in presenza di un “sistema” che irragionevolmente (vale a dire, senza una valida “causa normativa”[23] che lo assista) tratta in modo diseguale situazioni “analoghe” o all’inverso stabilisce lo stesso trattamento per situazioni difformi.
Il trattamento sanzionatorio “sproporzionato” è tale, sembra dire la Corte, se, e nei limiti in cui, una “stampella” di sistema ne consente la “commisurazione” rispetto ad un livello coerente: generandosi, altrimenti, il pericolo di una opinabilità del sindacato e, dunque, l’ingresso, da parte del Giudice delle leggi, in un’area di valutazione del quantum di disvalore che rientra nel perimetro delle scelte “ragionevolmente discrezionali” del legislatore.
La proporzionalità, però, proprio perché valore che definirei “relazionale”, è come un sasso buttato nello stagno: genera una ridondanza della quale è difficile misurare ex ante le conseguenze. La sanzione sproporzionata di una fattispecie va rimossa, come se fosse una cellula malata; ma, attraverso quella rimozione, il sistema “reagisce”, e, come un tessuto fallato, va ricomposto attraverso operazioni di necessaria ricucitura. Ecco spiegata la ragione per la quale la sentenza sul sequestro di persona e sulla necessità di prefigurare una attenuante speciale per i fatti di lieve entità si è riverberata su figure, per certi aspetti, finitime, come i delitti di estorsione e di rapina.
Con la sentenza n. 120 del 2023, infatti, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’art. 629 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. La disciplina censurata dai giudici rimettenti, infatti, a fronte di una tipizzazione legislativa rimasta inalterata, ha registrato nel tempo un progressivo inasprimento del trattamento sanzionatorio, per cui l’innalzamento del minimo edittale da tre a cinque anni (operato dall’art. 8 del d.l. n. 419 del 1991, come conv.) ha determinato una sostanziale impossibilità di accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena. Riguardo specificamente l’entità del minimo edittale, l’inesistenza di un’attenuante di lieve entità determina un vulnus ai principi costituzionali di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena. La mancata previsione di una «valvola di sicurezza» che consenta al giudice di moderare la pena, onde adeguarla alla gravità concreta del fatto estorsivo, può determinare infatti l’irrogazione di una sanzione non proporzionata ogni qual volta il fatto medesimo si presenti totalmente immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire per questo titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza.
Ciò comporta – concluse la Corte – la necessità di estendere al reato in esame la medesima «valvola di sicurezza» (contenuta nell’art. 311 cod. pen.) prevista per il sequestro di persona a scopo di estorsione, al primo affine, poiché gli indici dell’attenuante di lieve entità del sequestro estorsivo risultano coerenti con la fisionomia oggettiva del delitto di estorsione.
Con la sentenza n. 86 del 2024[24], infine, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. Declaratoria che è stata estesa, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 anche alla ipotesi della rapina propria di cui all’art. 628, primo comma, cod. pen., nella parte in cui, analogamente, non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
Nel frangente, la Corte ha in particolare osservato che, come per l’estorsione – per la quale è stabilita la medesima pena e che ha subito parallele modifiche nel trattamento sanzionatorio – anche per la rapina impropria l’elevato minimo edittale previsto dalla disposizione censurata dal giudice a quo (cinque anni di reclusione), introdotto per contenere fenomeni criminali seriamente lesivi della persona e del patrimonio, eccede lo scopo quando l’offensività concreta del fatto non ne giustifichi una punizione così severa, determinando l’irrogazione di una pena irragionevole, sproporzionata e quindi inidonea alla rieducazione. Anche nella rapina infatti – connotata da una latitudine oggettiva e una varietà di condotte materiali non meno ampia di quella dell’estorsione – la violenza o la minaccia possono essere, come nel caso oggetto del giudizio a quo, di modesta portata e il danno cagionato di valore infimo.
Occorre pertanto prevedere – ha sottolineato la Corte – anche in relazione a tale fattispecie un’attenuante ad effetto comune, analoga a quella introdotta dalla sentenza n. 120 del 2023 per l’estorsione, quale “valvola di sicurezza”, che consenta al giudice nei casi di lieve entità di temperare la sanzione. Gli indici di tale attenuante – estemporaneità della condotta, scarsità dell’offesa personale alla vittima, esiguità del valore sottratto, assenza di profili organizzativi – garantiscono, d’altra parte, che la riduzione della pena sia riservata alle ipotesi di lesività davvero minima, per una condotta che pur sempre incide sulla libertà di autodeterminazione della persona.
Risultava poi evidente che, una volta pervenuti ad una siffatta conclusione per la rapina impropria, l’identica ratio decidendi imponesse la estensione conseguenziale del decisum anche alla rapina propria. Infatti, ha sottolineato la Corte, anche per la rapina propria – strutturalmente omogenea a quella impropria, di cui condivide sia l’elevato minimo edittale di pena detentiva (cinque anni di reclusione), sia l’idoneità a manifestare una diversificata offensività (in rapporto agli elementi costitutivi della violenza o minaccia e del profitto) – sussiste la necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, a garanzia della ragionevolezza, proporzionalità e capacità rieducativa della sanzione.
Un approdo importante, che armonizza all’interno di una omologa sfera di attenuazione per i fatti di lieve gravità, la estorsione alla rapina, di cui appare evidente il parallelismo di storica ingravescenza sanzionatoria e di disvalore per i non dissimili oggetti giuridici di protezione[25].
Il fulcro della decisone della Corte costituzionale si rinviene, però, in una nuova propensione verso il sindacato diretto di proporzionalità della pena, secondo schemi sempre più indipendenti dalle ormai da tempo superate logiche di “rime obbligate”, dal momento che è il sistema nel suo complesso ad offrire, in base alla tavola dei valori costituzionali e sovranazionali, adeguati indici di “commisurazione”, come tali non invasivi di scelte riservate alla discrezionalità legislativa.
Il controllo sulla proporzionalità della pena, ha infatti sottolineato la Corte, si articola secondo il triplice test della proporzionalità relazionale (rispetto a eventuali tertia comparationis), della proporzionalità oggettiva (rispetto alla tipologia di condotte rientranti nella fattispecie astratta) e della necessaria individualizzazione della sanzione (rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto concreto).
Il sindacato di legittimità costituzionale sulla proporzionalità della pena – dapprima svolto essenzialmente in chiave triadica alla luce del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. – ha successivamente valorizzato il principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), con conseguente estensione del sindacato medesimo a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata in rapporto alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta. Il finalismo rieducativo della sanzione è stato poi coordinato con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), ovvero con il canone di individualizzazione della pena, il quale esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato[26]. Un trattamento manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto, e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, pregiudica il principio di individualizzazione della pena, che si pone quale attuazione e sviluppo del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.)[27].
A sua volta, il principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) – diventato ormai da tempo patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra – vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie[28], fungendo, dunque, da “collante” che taglia trasversalmente l’ordito sanzionatorio dalla sua insorgenza normativa fino al suo momento di concreta esecuzione. Il che, ci permettiamo di chiosare, finisce evidentemente per riverberarsi anche sugli oneri di carattere interpretativo, da orientare nel senso di una necessaria coerenza ermeneutica rispetto al valore della proporzionalità che deve equilibrare il carico sanzionatorio al disvalore del fatto[29], per soddisfare quella funzione di emenda che la pena deve, sempre e comunque, assolvere.
6.- Proporzionalità e giurisprudenza sovranazionale
La proporzionalità del trattamento sanzionatorio rispetto all’oggetto specifico di protezione è stato, d’altra parte, più volte affermato anche dalla Corte EDU. Pure di recente, infatti, La Corte , nella sentenza sez. V, sentenza 30 giugno 2022, ric. n. 20755/08, ha deciso il ricorso presentato da un giornale e dal suo caporedattore, i quali avevano lamentato l’ingiustificata e non necessaria ingerenza nel loro diritto alla libertà di espressione per la condanna loro inflitta dalle autorità nazionali in seguito alla pubblicazione di articoli presuntivamente diffamatori. Più in particolare, i ricorrenti avevano denunciato che i tribunali nazionali non avessero addotto motivazioni sufficienti e pertinenti rispetto all’interferenza nel loro diritto e che la somma richiesta a titolo di risarcimento danno fosse sproporzionata. Veniva altresì sottolineato come gli articoli pubblicati avessero ad oggetto questioni di interesse pubblico e riconducibili nell’ambito della libertà di informazione. La Corte EDU ha ritenuto di dover scrutinare la questione solamente sotto il profilo della “necessità in una società democratica” dell’interferenza e se questa rispondesse ad una esigenza sociale urgente. All’esito della sua valutazione il giudice di Strasburgo ha ritenuto che le dichiarazioni ritenute diffamatorie costituissero in gran parte dichiarazioni di fatto tali da non potersi qualificare come giudizi di valore volti a pregiudicare la reputazione del destinatario. E che la sanzione inflitta fosse manifestamente sproporzionata, con la conseguenza di interferire in maniera eccessiva e grave nella libertà di espressione. La Corte ha ritenuto infatti che mancasse ogni e qualunque motivazione sufficiente in merito all’esistenza di un bisogno sociale urgente e che le sanzioni irrogate ai ricorrenti non avessero rispettato un ragionevole rapporto di proporzionalità rispetto allo scopo legittimo perseguito, con conseguente violazione dell’art. 10 CEDU.
Nel medesimo senso, la Corte EDU, in tema di libertà di espressione e diffamazione a mezzo e-mail ( sez. V, sentenza 18 gennaio 2024, ric. n. 20725/20) si è pronunciata su un caso in cui la ricorrente lamentava – ai sensi dell’art. 10 della Convenzione – la violazione della propria libertà di espressione, ritenendo irragionevole, sotto il profilo della proporzionalità, la condanna penale inflittale dai giudici francesi per diffamazione pubblica a mezzo mail. Molto brevemente, la ricorrente aveva denunciato, tramite un messaggio di posta elettronica inviato complessivamente a sei persone interne ed esterne all’associazione presso cui era impiegata, di aver subito molestie sessuali e morali da un membro di detta associazione. I giudici di Strasburgo, pur senza discostarsi dalla conclusione dei tribunali nazionali, hanno ritenuto però di dover verificare la necessità/proporzionalità dell’ingerenza e, dunque, accertare se le autorità francesi avessero operato il giusto bilanciamento tra esercizio della libertà di espressione e diffamazione. In questa direzione, essi hanno rilevato che l’e-mail contestata aveva raggiunto un numero esiguo di persone e che, pertanto, aveva prodotto solo effetti limitati sulla reputazione del colpevole. Per di più, detta e-mail aveva avuto il solo scopo di rappresentare la situazione della ricorrente senza alcun riverbero su interessi di carattere generale né sul dibattito pubblico. Sicché, alla luce di simili considerazioni, la Corte di Strasburgo ha ravvisato l’assenza di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra la limitazione del diritto alla libertà di espressione della ricorrente e lo scopo legittimo perseguito e ha dichiarato, conclusivamente, la violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
Anche sul versante dell’art. 3 della Convenzione la Corte, nella sentenza IV Sezione del 17 dicembre 2012 (ric. 9146/07 e 32650/07) Hankins ed Edwards c. Gran Bretagna, ha avuto modo di fare il punto in merito alla compatibilità tra l’ergastolo nella forma di pena detentiva senza beneficio della liberazione anticipata o condizionale ed il precetto di cui all’art. 3 della Convenzione, a garanzia di una pena né disumana né degradante, stabilendo che la imposizione della pena dell’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata non viola di per sé l’art. 3 CEDU sempre che tale pena non debba considerarsi gravemente o manifestamente sproporzionata (grossly or clearly disproportionate) rispetto alla gravità del fatto; e a condizione che il condannato possa comunque beneficiare di una possibilità, de iure o de facto, di liberazione.
Ma è proprio con riferimento all’art. 3 e al divieto di tortura che la Corte di Strasburgo ha enunciato affermazioni di univoca “chiarezza”, in alcuni dei suoi leading cases, come nella sentenza Centaro c. Italia del 7 aprile 2015, in relazione ai noti fatti verificatisi presso la scuola Diaz dopo i disordini del G7.
Si è infatti sottolineato che «le autorità giudiziarie nazionali non devono in alcun caso mostrarsi disposte a lasciare impunite delle aggressioni contro l’integrità fisica e morale delle persone. Ciò è indispensabile per mantenere la fiducia del pubblico e garantire la sua adesione allo Stato di diritto, nonché per prevenire ogni accenno di tolleranza di atti illegali o di possibile collusione nella loro perpetrazione (si veda, dal punto di vista dell’articolo 2, Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 96, CEDU 2004 XII). Il compito della Corte consiste dunque nel verificare se e in quale misura si può considerare che i giudici, prima di giungere a una qualsiasi decisione, hanno sottoposto il caso di cui sono stati investiti all’esame scrupoloso richiesto dall’articolo 3, in modo da preservare la forza di dissuasione del sistema giudiziario esistente e l’importanza del ruolo di quest’ultimo nel rispetto del divieto di tortura (Okkali c. Turchia, n. 52067/99, §§ 65-66, 17 ottobre 2006, Ali e Ayşe Duran, sopra citata, §§ 61-62, Zeynep Özcan c. Turchia, n. 45906/99, § 42, 20 febbraio 2007, e Dimitrov e altri, sopra citata, §§ 142-143). Quanto alla sanzione penale per i responsabili di maltrattamenti, la Corte rammenta che non ha il compito di pronunciarsi sul grado di colpevolezza della persona in causa (si vedano, sotto il profilo dell’articolo 2, Öneryıldız, sopra citata, § 116, e Natchova e altri c. Bulgaria [GC], nn. 43577/98 e 43579/98, § 147, CEDU 2005 VII) o di determinare la pena da infliggere, in quanto queste materie rientrano nella competenza esclusiva dei tribunali penali interni. Tuttavia, in virtù dell’articolo 19 della Convenzione, e conformemente al principio che vuole che la Convenzione garantisca dei diritti non teorici o illusori ma concreti ed effettivi, la Corte deve assicurarsi che lo Stato adempia come si deve all’obbligo di tutelare i diritti delle persone che rientrano nella sua giurisdizione. Di conseguenza, la Corte «deve mantenere la sua funzione di controllo e intervenire nel caso esista una evidente sproporzione tra la gravità dell’atto e la sanzione inflitta. Altrimenti, il dovere che hanno gli Stati di condurre un’inchiesta effettiva perderebbe molto del suo senso» (si veda, in questi termini precisi, Gäfgen, sopra citata, § 123; si vedano anche Ali e Ayşe Duran, sopra citata, § 66, e Saba, sopra citata, § 77; si veda infine, dal punto di vista dell’articolo 2, Nikolova e Velitchkova, sopra citata, § 62). La valutazione dell’adeguatezza della sanzione dipende pertanto dalle circostanze particolari della causa determinata (İlhan, sopra citata, § 92).
La Corte ha anche dichiarato che, in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da parte di agenti dello Stato, l’azione penale non dovrebbe estinguersi per effetto della prescrizione, così come l’amnistia e la grazia non dovrebbero essere tollerate in questo ambito. Del resto, l’applicazione della prescrizione dovrebbe essere compatibile con le esigenze della Convenzione. Pertanto, è difficile accettare dei tempi di prescrizione non flessibili che non sono soggetti ad alcuna eccezione (Mocanu e altri c. Romania [GC] nn. 10865/09, 45886/07 e 32431/08 § 326 CEDU 2014 (estratti) e le cause ivi citate). Lo stesso vale per la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena (Okkali, sopra citata, §§ 74-78, Gäfgen, sopra citata, § 124, Zeynep Özcan, sopra citata, § 43; si veda anche, mutatis mutandis, Nikolova e Velitchkova, sopra citata, § 62) e per la liberazione anticipata (Abdülsamet Yaman, sopra citata, § 55, e Müdet Kömürcü, §§ 29-30).»
V’è quanto basta, dunque, per postulare un dovere di “proporzionalità” tra pena e offensività del fatto a “tutto tondo”: tanto nel caso per sproporzione per “eccessività” sanzionatoria, che di sproporzione per “inadeguatezza” sanzionatoria, configurata, per di più, nella sua dimensione di effettiva applicabilità. Come ribadito dalla Grande Camera, nella nota sentenza sul caso Gäfgen c. Germania del 1 giugno 2010, «It is vital in ensuring that the deterrent effect of the judicial system in place and the significance of the role it is required to play in preventing violations of the prohibition of ill-treatment are not undermined (compare Ali and Ayşe Duran v. Turkey, no. 42942/02, § 62, 8 April 2008; Çamdereli, cited above, § 38; and Nikolova and Velichkova, cited above, §§ 60 et seq.).». Ribadendo, nella circostanza, che se è vero che spetta ai giudici nazionali giudicare le responsabilità e applicare il trattamento sanzionatorio appropriato, tuttavia «under Article 19 of the Convention and in accordance with the principle that the Convention is intended to guarantee rights that are not theoretical or illusory, but practical and effective, the Court has to ensure that a State’s obligation to protect the rights of those under its jurisdiction is adequately discharged (see Nikolova and Velichkova, cited above, § 61, with further references). It follows that while the Court acknowledges the role of the national courts in the choice of appropriate sanctions for ill‑treatment by State agents, it must retain its supervisory function and intervene in cases of manifest disproportion between the gravity of the act and the punishment imposed. Otherwise, the State’s duty to carry out an effective investigation would lose much of its meaning (see Nikolova and Velichkova, cited above, § 62; compare also Ali and Ayşe Duran, cited above, § 66).»
Tra le “rutilanti” novità che sovente il diritto sovranazionale ci somministra, la Grande Sezione della Corte di giustizia della UE, in una importante sentenza depositata lo scorso 8 marzo 2022 (NE, in causa C‑205/20) ha affermato il principio secondo cui il criterio di proporzionalità della sanzione – stabilito da singole direttive, ovvero fondato sull’art. 49, paragrafo 3, della Carta – è dotato di effetto diretto nell’ordinamento degli Stati membri. Da ciò scaturisce la conseguenza che il giudice penale, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, sarà tenuto a disapplicare la disciplina legislativa nazionale che si ponga in contrasto con esso, sia pure «nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate».
Ribaltando dichiaratamente l’opposta decisione assunta dalla stessa Corte con la sentenza Link Logistic (C-384/17), emessa dalla Quinta Sezione il 4 ottobre 2018[30], la Grande Sezione, chiamata a pronunciarsi su un (secondo) rinvio pregiudiziale nel quale si domandava di chiarire, in primo luogo, se il principio di proporzionalità delle sanzioni sancito dall’art. 20 della direttiva 2014/67 costituisca una disposizione direttamente applicabile; e, in secondo luogo, se il diritto UE richieda che i giudici, in assenza di intervento legislativo, debbano essi stessi integrare le disposizioni nazionali sulla misura delle sanzioni sulla base del criterio generale di proporzionalità, ha risposto ai quesiti affermando che: «1) L’articolo 20 della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, concernente l’applicazione della direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi e recante modifica del regolamento (UE) n. 1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno («regolamento IMI»), laddove esige che le sanzioni da esso previste siano proporzionate, è dotato di effetto diretto e può quindi essere invocato dai singoli dinanzi ai giudici nazionali nei confronti di uno Stato membro che l’abbia recepito in modo non corretto. 2) Il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone alle autorità nazionali l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale è contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni previsto all’articolo 20 della direttiva 2014/67, nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate».
Il percorso argomentativo su cui si basa l’overruling è stato così efficacemente sintetizzato: «il requisito di proporzionalità delle sanzioni ha natura chiara e incondizionata, essendo riformulabile quale divieto a carico dello Stato membro di prevedere ed applicare sanzioni sproporzionate rispetto alla gravità dell’infrazione, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto rilevanti; le norme che prevedono tale requisito sono pertanto dotate di effetto diretto, potendo essere invocate dal singolo di fronte ai giudici nazionali, i quali saranno tenuti a disapplicare il diritto nazionale nella misura in cui esso imponga l’irrogazione di sanzioni sproporzionate; tale obbligo di disapplicazione deve, peraltro, essere contenuto nella misura minima necessaria ad assicurare il rispetto del divieto di applicare pene sproporzionate, non estendendosi in particolare all’intera disposizione che prevede l’infrazione, per la quale lo stesso diritto dell’Unione richiede normalmente che siano previste sanzioni «efficaci e dissuasive» oltre che proporzionate; un tale obiettivo può ottenersi semplicemente riconducendo le sanzioni previste dalla legge nazionale entro il limite della proporzionalità.»[31]
Il suggerimento[32] di devolvere la disciplina “sproporzionata” al controllo di proporzionalità accentrato della Corte costituzionale, salva, per quest’ultima, una eventuale “dialettica” con la Corte di Strasburgo, attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale, non sembra risolvere il problema di fondo concernente l’obbligo eurounitario di disapplicazione diretta, in virtù di un sindacato problematico quale è quello di giudicare se un determinato trattamento punitivo integri o meno i connotati di sanzione “effettiva, proporzionata e dissuasiva”, come richiesto dal diritto della Unione. Difficile pensare ad una “analogia di sistema” se i parametri di commisurazione sono tanto generici; difficile, anche, pensare ad una disapplicazione “manipolativa” in capo allo stesso giudice; difficile, infine, ammettere una così evidente “torsione” del principio di legalità, sul presupposto – come mostra di ritenere la Corte di Strasburgo – che la legge debba essere tenuta in non cale dal giudice purchè sia derogata in bonam partem.
7.- Proporzionalità e confisca “punitiva”
L’assist offerto dalla Corte di Lussemburgo per le materie eurounitarie è stato comunque prontamente raccolto e spunta prepotentemente nell’ultima sentenza della Corte costituzionale in tema di confisca. Con la recente sentenza n. 7 del 2025 è stata infatti dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2641 cod. civ. secondo comma, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato, nonché, in via consequenziale, del primo comma, limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo».
Il tema della confisca e della sproporzione aveva già formato oggetto della sentenza 112 del 2019[33], anche se relativa ad una ipotesi di confisca amministrativa in tema di market abuse. La Corte, infatti, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. add. CEDU, nonché degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49, par. 3, CDFUE – l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. a), della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevede, in tema di abusi di mercato, la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto. Tale sanzione, ha osservato infatti la Corte, conduce a risultati manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione: mentre la confisca del «profitto», infatti, ha una funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, quella del «prodotto» e dei «beni utilizzati» assume una connotazione “punitiva”, infliggendo all’autore una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito, alla quale si aggiunge anche l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, la cui cornice edittale è essa pure di eccezionale severità. Nè è di ostacolo alla pronuncia in esame il vigente diritto dell’Unione europea, che richiede agli Stati membri di prevedere soltanto la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie all’illecito. Quanto, infine, al petitum richiesto, benché il giudice a quo paia circoscriverlo alla sola previsione della confisca per equivalente, va tuttavia considerato che l’effetto manifestamente sproporzionato della confisca in oggetto – esattamente posto in luce dall’ordinanza di rimessione – non dipende dal fatto che la misura abbia ad oggetto direttamente i beni o il denaro ricavati dalla transazione o utilizzati nella transazione stessa, ovvero beni o denaro di valore equivalente, quanto, piuttosto, dalla stessa previsione dell’obbligo di procedere alla confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo. La Corte sottolineò pure che il principio di proporzionalità della sanzione amministrativa rispetto alla gravità dell’illecito – che trae la propria base normativa dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione – già invocato dalla Corte costituzionale, anche in relazione a sanzioni amministrative dalla natura non “punitiva”, a fondamento di dichiarazioni di illegittimità costituzionale di automatismi sanzionatori, in ragione della necessaria adeguatezza della sanzione al caso concreto, possiede potenzialità applicative che eccedono tale orizzonte, come dimostra proprio giurisprudenza relativa alla materia penale, i cui principali approdi sono estensibili anche alla materia delle sanzioni amministrative. (Si citano, comeprecedenti, le sentenze n. 161 del 2018, n. 22 del 2018, n. 268 del 2016 e n. 170 del 2015). Secondo la giurisprudenza costituzionale, nella materia penale – sottolinea ancora la Corte – la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato è soggetta a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso in relazione alla gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. Da un sindacato sulla proporzionalità della pena affermato sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. – con atteggiarsi del giudizio di legittimità costituzionale sulla misura della pena secondo uno schema triadico, imperniato attorno al confronto con un tertium comparationis – la valorizzazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. e, in particolare, del necessario orientamento alla rieducazione che la pena deve possedere ha, infatti, condotto a estendere il sindacato della Corte costituzionale anche a ipotesi in cui la pena appaia manifestamente sproporzionata in rapporto direttamente alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta. Inoltre, la considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. è alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare ed esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato, comportando, di regola, l’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.
Con la più recente sentenza n. 7 del 2025 la Corte ha ribadito come il principio di proporzionalità – che pure è un requisito di sistema, che opera in relazione a qualsiasi atto della autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo – ammetta declinazioni differenziate ove riferito a misure orientate prevalentemente a punire l’interessato per un fatto da questi colpevolmente commesso, o prevenire un pericolo (come per le misure di sicurezza o cautelari), o, ancora, per ripristinare la situazione preesistente al reato (come la demolizione di un immobile abusivo). Se, dunque, la confisca di un profitto dell’illecito –tanto da applicata dal giudice penale che dalla autorità amministrativa amministrativa – svolge una funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale preesistente all’illecito, il discorso non può valere per i beni strumentalmente utilizzati per la commissione dell’illecito, in quanto, essendo stati lecitamente acquisiti, la loro ablazione determina un peggioramento della situazione patrimoniale preesistente. Dunque, la misura non può avere natura meramente ripristinatoria, ma avrà una funzione essenzialmente punitiva, dal momento che essendo la confisca obbligatoria, ed essendo i beni confiscati non intrinsecamente pericolosi, è impossibile accertare caso per caso se sussista o meno un pericolo di reiterazione del reato, connesso al persistere del possesso del bene da parte dell’autore del fatto. La confisca prevista come obbligatoria dei beni strumentali si atteggia, quindi, come una vera e propria “pena” che si aggiunge alle altre sanzioni principali previste in conseguenza della commissione di ciascun reato. Ed alle stesse conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento alla confisca per equivalente. Dunque, entrambe le ipotesi di confisca previste dall’art. 2641 cod. civ., devono essere rispondenti alla necessità che la correlativa portata sanzionatoria non risulti sproporzionata, tenuto conto del relativo connotato patrimoniale, rispetto tanto alla gravità del reato che alle condizioni economiche e patrimoniali del soggetto colpito dalla pena. A differenza della libertà personale, che colpisce ogni persona allo stesso modo, le pene pecuniarie presentano l’inconveniente di presentare un coefficiente di afflittività differenziato in ragione delle differenti condizioni economiche dei singoli condannati. Da qui la esigenza di una loro armonizzazione sostanziale che tenga conto del diverso impatto economico. Principi, questi, ai quali l’art. 2641 cod. civ. non si conformerebbe, tanto nell’assoggettare a confisca i beni strumentali che il valore equivalente agli stessi in modo indifferenziato, senza collegamento con il vantaggio conseguito e senza tener conto delle condizioni economiche del condannato. Il che, può dunque determinare risultati sanzionatori sproporzionati. Principio, quello di proporzionalità, che in materia governata dal diritto della Unione europea rinviene fonte di diretta applicazione nell’art. 49, par. 3, CDFUE (per come declinato dalla Corte di giustizia, nella sentenza innanzi richiamata) e che, come tale, si applica a qualsiasi forma di confisca disciplinata dagli strumenti unionali.
Fondamentale, ci sembra, l’approccio conclusivo della Corte. Rispetto, infatti, alla possibilità di una pronuncia che sostituisca la previsione della confisca obbligatoria di denaro o cose di valore equivalenti ai beni strumentali con una corrispondente confisca meramente facoltativa, la Corte ha ritenuto doveroso «cedere il passo alla valutazione del legislatore. Quest’ultimo è, infatti – sottolinea la Corte – nella migliore posizione per stabilire se conferire al giudice una discrezionalità nella scelta sull’an, o addirittura anche sul quantum del valore confiscabile, in modo da assicurare il pieno rispetto del principio di proporzionalità nell’applicazione concreta di questa confisca. Una simile innovativa soluzione, in ogni caso, non è oggi reperibile nell’ordinamento italiano, e costituirebbe anzi una «novità di sistema»: […] non prestandosi, così, a essere assunta […] come soluzione costituzionalmente adeguata, in grado di sostituirsi a quella dichiarata costituzionalmente illegittima».
Si potrà forse discutere se davvero la confisca delle somme impiegate per la commissione di fatti di aggiotaggio o abusi di mercato, cagionando, a seconda del relativo importo, una maggiore o minore offesa dei beni protetti, non ne giustifichi la integrale ablazione, essendo la relativa “proporzione” dimensionata sulla falsariga dello stesso illecito investimento. Così come ci si potrebbe forse chiedere se la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 2641 c.p. limitatamente ai beni strumentali destinati alla commissione del reato non faccia “rivivere” l’applicabilità della confisca facoltativa degli instrumenta sceleris di cui all’art. 240 cod. pen. Ed in tal caso, se non fosse evocabile proprio quella previsione generale come istituto di “sistema” del quale la Corte ha lamentato la carenza. D’altra parte, lo stesso riferimento alle condizioni economiche del condannato presenta aspetti problematici, posto che, per definizione, la confisca riguarda proprio gli esborsi finanziari compiuti dall’autore del fatto e che costituiscono lo strumento per realizzare il reato: finanziamenti che, dunque, provengono dal patrimonio legittimo del reo.
Una situazione, quindi, ben diversa dalla pena pecuniaria vera e propria, che colpisce in modo “indifferenziato” e che può riguardare persone – queste si – che vengono assoggettate a “sacrifici” differenti in rapporto alle loro condizioni economiche. Quel che sembra però importante rilevare è la cautela con la quale la Corte ha evitato qualsiasi “traslazione” in capo al giudice di un potere di commisurazione privo di reali indicatori di sistema: evenienza che, invece, ci sembra si sia realizzata nella già ricordata sentenza n. 222 del 2018 con la quale è stata “ricalibrata” la pena accessoria della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, che consegue ai reati di bancarotta, affidando al giudice la scelta sull’an e sulla sua “proporzionata” durata.
Solo spigolatura a margine di una possibile conclusione. La traslazione in capo al giudice di uno scrutinio di proporzionalità che conduca ad una rimodulazione del “plesso” sanzionatorio, presenta, come è ovvio, gli stessi rischi di “personalizzazione” del modulo sanzionatorio che possono scaturire dai possibili abusi della interpretazione adeguatrice, tanto costituzionale che sovranazionale: rischi evidenti di torsione col principio di legalità e di prevedibilità, circa l’applicazione della norma. Rischi[34] sui quali si è puntualmente soffermato, tra gli altri, Massimo Luciani[35] il quale, incisivamente, conclude il suo studio sulla interpretazione conforme a Costituzione asserendo che «La moltiplicazione delle legittimazioni e il pluralismo delle fonti saranno anche interessanti da studiare e saranno anche lo specchio fedele della complessità delle società contemporanee, ma il prezzo che, una volta di più, si paga in termini di certezza è troppo elevato per essere ancora tollerabile».
[1] V. al riguardo i fondamentali rilievi svolti da F. MODUGNO, in La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, p. 1646 s. Sul tema della proporzionalità, v. l’importante contributo di F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Giappichelli, 2021, nonché, più di recente, Id., La proporzionalità nella giurisprudenza recente della Corte costituzionale: un primo bilancio, in Sistema penale, 8 gennaio 2025.
[2] ) La scuola del cosiddetto “diritto libero” di Kiel in epoca nazista, in cui il legislatore poteva fare ciò che voleva, ne è fedele testimonianza. I suoi principali esponenti, Schaffstein e Dahm, propugnavano, infatti, il superamento della logica individualistica del bene giuridico per identificare il reato come semplice violazione del dovere di fedeltà al Führer.
[3] La tematica si è allargata ai vizi procedurali di formazione della legge, a prescindere dai riflessi ipotetici in malam partem sul giudizio a quo. Emblematica la sentenza n. 5 del 2014, ove, in linea con quanto affermato nella sentenza n. 28 del 2010, sulle ceneri di pirite, si è affermato che «Per superare il paradosso ed evitare al tempo stesso eventuali effetti impropri di una pronuncia in malam partem, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo penale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali». Sul tema v., amplius e più di recente, V. NAPOLEONI, Il sindacato di legittimità costituzionale in malam partem, in V. MANES, V. NAPOLEONI, La legge penale illegittima, Giappichelli, 2019, p. 408 s.
[4] M. CARTABIA, Edipo re, in M. CARTABIA, L. VIOLANTE, Giustizia e mito, il Mulino, 2018, p. 29 s., 55.
[5] Cfr. G. ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, in AA.VV., Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della corte costituzionale, Giuffrè, 1994, p. 180 s. V. MANES, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 741
[6] V. per tutti, con ampi richiami ai numerosi contributi sul tema, N. RECCHIA, Le declinazioni della ragionevolezza penale nelle recenti decisioni della Corte costituzionale (nota alle sentenze n. 80, 81 e 143 del 2014), in Dir. pen. cont., 2/2015, p. 55 s.
[7] «Il parametro della eguaglianza – ha rilevato la Corte – non esprime la concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l’ordinamento non può prescindere, ma definisce l’essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico. L’eguaglianza davanti alla legge, quindi, non determina affatto l’obbligo di rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti o rapporti che, sul piano fenomenico, ammettono una gamma di variabili tanto estesa quante sono le imprevedibili situazioni che in concreto possono storicamente ricorrere, ma individua il rapporto che deve funzionalmente correlare la positiva disciplina di quei fatti o rapporti al paradigma dell’armonico trattamento che ai destinatari di tale disciplina deve essere riservato, così da scongiurare l’intrusione di elementi normativi arbitrariamente discriminatorii. D’altra parte, essendo qualsiasi disciplina destinata per sua stessa natura ad introdurre regole e, dunque, a operare distinzioni, qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente destinata ad introdurre nel sistema fattori di differenziazione, sicché, ove a quel parametro fosse annesso il valore di paradigma cristallizzato su base meramente “naturalistica” e dunque statica, ogni norma vi si porrebbe in evidente contrasto proprio perché chiamata a discriminare ciò che è attratto nell’alveo della relativa previsione da ciò che non lo è. Se, dunque, il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l’identica disciplina e, all’inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul “perché” una determinata disciplina operi, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo». Il giudizio di eguaglianza, pertanto – ha soggiunto la Corte – in casi come quello sottoposto alla Corte costituzionale con l’ordinanza del giudice rimettente, è in sé un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa “ragione” della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell’eguaglianza. Ogni tessuto normativo presenta, quindi, e deve anzi presentare, una “motivazione” obiettivata nel sistema, che si manifesta come entità tipizzante del tutto avulsa dai “motivi”, storicamente contingenti, che possono avere indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall’analisi di tale motivazione scaturirà la verifica di una carenza di “causa” o “ragione” della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potrà dirsi realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché fondato sulla “irragionevole” e per ciò stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe. Da tutto ciò consegue – osservò la Corte – che il controllo di costituzionalità, dovendosi per un verso saldare al generale principio di conservazione dei valori giuridici e restando comunque circoscritto all’interno dei confini proprii dello scrutinio di legittimità, non può travalicare in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in cui la questione dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi complessi, all’interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche. Non può quindi venire in discorso, agli effetti di un ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire, giacché, ove così fosse, al controllo di legittimità costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunità, per di più condotta sulla base di un etereo parametro di giustizia ed equità, al cui fondamento sta una composita selezione di valori che non spetta a questa Corte operare. Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si sovrappongono, dovendosi il sindacato arrestare in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella “causa” o “ragione” della disciplina, l’espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore è abilitato a compiere.»
[8] A proposito dell’horror vacui, è peraltro ormai costantemente ribadito l’assunto secondo il quale «L’esigenza di garantire il principio di costituzionalità rende, infatti, imprescindibile affermare che il relativo sindacato «deve coprire nella misura più ampia possibile l’ordinamento giuridico» (sentenza n. 1 del 2014), non essendo, ovviamente, ipotizzabile l’esistenza di ambiti sottratti allo stesso. Diversamente, si determinerebbe, infatti, una lesione intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato, soprattutto quando risulti accertata la violazione di una libertà fondamentale, che non può mai essere giustificata con l’eventuale inerzia del legislatore ordinario. Una volta accertato che una norma primaria si pone in contrasto con parametri costituzionali, questa Corte non può, dunque, sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio e deve dichiararne l’illegittimità, essendo poi «cómpito del legislatore introdurre apposite disposizioni» (sentenza n. 278 del 2013), allo scopo di eliminare le eventuali lacune che non possano essere colmate mediante gli ordinari strumenti interpretativi dai giudici ed anche dalla pubblica amministrazione, qualora ciò sia ammissibile.» (v, fra le tante, la già citata sentenza n. 162 del 2014).
[9] Tra i vari commenti v. F. VIGANÒ, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont., 14 novembre 216; D. PULITANÒ, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, ivi; E. DOLCINI, Pene edittali, principio di proporzione, funzione rieducativa della pena: la Corte costituzionale ridetermina la pena per l’alterazione di stato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2016, 1956; E. COTTU, Giudizio di ragionevolezza e vaglio di proporzionalità della pena: verso un superamento del modello triadico?, in Dir. pen. proc., 2017, p. 473; P. INSOLERA, Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. pen., 2016, p. 174.
[10] V. F. DEPRETIS, Verso una nuova tipologia decisoria della Corte costituzionale in materia penale? A margine della sentenza n. 40 del 2009, in diritti comparati.it, 2019; M. PASSIONE, La fine è ignota. Un commento alla sentenza n. 40 del 2019 della Corte costituzionale, in giurisprudenza penale.com, 2019, n. 3; C. BRAY, Stupefacenti: la Corte costituzionale dichiara sproporzionata la pena minima di otto anni di reclusione per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le droghe pesanti, in Dir. pen. cont., 18 marzo 2019.
[11] Infatti, – si puntualizza nella motivazione – come questa Corte ha chiaramente affermato ancora di recente nella sentenza n. 222 del 2018, allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994). I principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. «esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» (sentenza n. 179 del 2017) in vista del «progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa» della pena (da ultimo, sentenza n. 149 del 2018). Al raggiungimento di tale impegnativo obiettivo posto dai principi costituzionali è di ostacolo l’espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere».
[12] ) «La misura della pena individuata dal rimettente, – osserva infatti la Corte – benché non costituzionalmente obbligata, non è tuttavia arbitraria: essa si ricava da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e si colloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore. Il giudice rimettente, infatti, trae l’indicazione della misura della pena minima per i fatti non lievi anzitutto dalla previsione introdotta con l’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 per i medesimi fatti, che ancora conserva viva traccia applicativa nell’ordinamento in considerazione degli effetti non retroattivi della sentenza n. 32 del 2014. Inoltre, sei anni è altresì la pena massima – a cui pure fa riferimento l’ordinanza di rimessione – prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le sostanze di cui alle tabelle II e IV previste dal richiamato art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990. Sempre in sei anni il legislatore aveva altresì individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti”, vigente il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d.l. n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”. In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi. In tale contesto, è appropriata la richiesta di ridurre a sei anni di reclusione la pena minima per i fatti di non lieve entità di cui al comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, al fine di porre rimedio ai vizi di illegittimità costituzionale denunciati. Il giudice rimettente ha infatti individuato – secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale più recente – una previsione sanzionatoria già rinvenibile nell’ordinamento che, trasposta all’interno della norma censurata, si situa coerentemente lungo la dorsale sanzionatoria prevista dai vari commi dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e rispetta la logica della disciplina voluta dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018).».
[13] V. al riguardo, E. Aprile, “Monito” della Consulta al legislatore sulle sproporzioni del trattamento sanzionatorio previsto per i reati in materia di stupefacenti, in Cass. pen., 2017, 3988; F. Bailo, Potenzialità e limiti del sindacato costituzionale in materia di dosimetria sanzionatoria (a margine della sent. N. 179 del 2017), in Studium iuris, 2018, 306; R. Bartoli, La Corte costituzionale al bivio tra “rime obbligate” e discrezionalità? Prospettabile una terza via, in Dir. pen. cont., rivista, 2019, n. 2
[14] V. al riguardo, R. Acquaroli, Un’incursione del giudice costituzionale nel territorio di un legislatore distratto, in Giur. cost., 2014, 2904.
[15] V. C. E. Paliero, Pene fisse e Costituzione: argomenti vecchi e nuovi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1981, p. 726.
[16] V. A. Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e “rime obligate”: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont., 10 dicembre 2018; C. Leone, La Corte costituzionale censura la pena accessoria fissa per il reato di bancarotta fraudolenta. Una decisione a “rime possibili”, in Quaderni costituzionali, 2019, n. 1, p. 183; P. Pisa, Pene accessorie di durata fissa e ruolo “riformatore” della Corte costituzionale, in Dir. pen. proc., 2019, p. 216.
[17] In giurisprudenza, sia pure con qualche contrasto, è stato infatti affermato che in tema di pene accessorie, quando la durata di una pena accessoria temporanea è determinata dalla legge solo nella misura massima, non trova applicazione il principio dell’uniformità temporale tra pena accessoria e pena principale previsto dall’art. 37 c.p., ma spetta al giudice determinarne in concreto la durata applicando i parametri di cui all’art. 133 c.p. (Fattispecie relativa alle pene accessorie previste per i reati in materia di stupefacenti dall’art. 85 del d.P.R. n. 309 del 1990). (Sez. VI, n. 697 del 3 dicembre 2013, Antonelli, in C.E.D. Cass., n. 25785001).
[18] Nella logica del codice Rocco faceva “capolino” la vecchia logica delle pene cosiddette “infamanti”, quasi a rievocare l’antica aquae et igni interdictio e le altre forme di capitis deminutio. In dottrina si afferma che i presupposti delle pene accessorie sarebbero tre, che informerebbero altrettanti tipi di misure. Anzitutto, il legislatore si servirebbe di tale strumento per «esprimere un giudizio di disvalore, di biasimo etico: chi si è posto contro i dettami dell’ordinamento giuridico deve subire le conseguenze di questa sua ribellione; questo giudizio di riprovazione, che è tutto di costruzione legale, non deve essere superato. In presenza di questo presuppostole pene accessorie presentano le caratteristiche di gettare discredito su chi le subisce. Una seconda categoria di misure perseguirebbe l’intento di «allontanare il reo dal contesto in cui è nata l’occasione del suo reato, neutralizzando la possibilità di una ripetizione quel particolare tipo di delitto». Anche in questo caso, l’automatismo sanzionatorio e l’attenzione circoscritta al fatto, piuttosto che al reo, indurrebbe a ritenere che la funzione di inabilitazione «non prescinde da una valutazione di biasimo». Per una terza ed ultima categoria, il legislatore ricollega le pene accessorie a forme qualificate di pericolosità sociale, come per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza (art. 28, secondo comma c.p.). «In tali casi – si afferma – è la funzione disonorante ad assumere rilievo preponderante: difatti, l’acquisizione di un certo status penale determina automaticamente la loro applicazione, a prescindere dalla gravità del reato commesso». V. S. Larizza, Pene accessorie, in Dig. d. pen., vol. IX, Utet, 1995, p. 421 s.
[19] M. Branca, Sentenza n. 185 del 2021 e sentenza n. 40 del 2023: identici principi e applicazioni opposte, in Giur. cost., 2023, 1415; B. De Maria, , La Corte di fronte alla proporzionalità delle sanzioni amministrative: una sentenza dai risvolti sistemici, in Giur. cost, 2021, 2874; R. Pinardi, , L’ ‘horror vacui’ nel controllo di costituzionalità su misure di carattere sanzionatorio (note a margine di Corte costituzionale, sentenza n. 185 del 2021), in www.nomos-leattualitaneldiritto.it, 2021, n. 3; S. Prandi, , Pene fisse e proporzionalità nel quadro dei rapporti tra diritto amministrativo punitivo e diritto penale, in Diritto penale e processo, 2022, 333; N. Recchia , Principio di proporzione e sanzioni amministrative. Ancora un importante intervento della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2021, 1942.
[20] V. al riguardo, G. Ariolli , Il delitto di oltraggio tra principio di ragionevolezza e finalita’ rieducativa della pena, in Cass. pen. 1995, 29; A. Cerri, Novita’ della corte in tema di oltraggio, in Critica del diritto, 1994, n. 4, 58; F. Curi,, L’attivita’ paralegislativa della Corte costituzionale in ambito penale: cambia la pena dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in Giur. cost., 1995, 1091; S. Finazzo, La Corte costituzionale tra principio di ragionevolezza e discrezionalità legislativa: riflessioni a margine della sentenza n. 68 del 2012, in L’indice penale, 2012, 509; E. Gallo, L’evoluzione del pensiero della corte costituzionale in tema di funzione della pena, in Giur. cost., 1994, 3203; S. Giannello, Il (nuovo) delitto di oltraggio a pubblico ufficiale davanti alla Corte costituzionale tra conferme e spunti in chiave prospettica, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2020, 333; P. Maizzi, Minimo edittale della pena per il delitto di oltraggio e principio di proporzione, in Giur. Cost., 1995, 1101; R. Pinardi, Riflessioni sul giudizio di ragionevolezza delle sanzioni penali, suggerite dalla pronuncia di incostituzionalita’ della pena minima prevista per il delitto di oltraggio, in Giur. cost.1994, 2815; M. Vecchi, Disvalore dell’oltraggio e comminatoria editiale della pena, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1996, num. 2, parte 3, p.788.
[21] A proposito di tale sentenza v. S. Finazzo, La Corte costituzionale tra principio di ragionevolezza e discrezionalità legislativa: riflessioni a margine della sentenza n. 68 del 2012, in L’indice penale, 2012, n. 2, p. 509; S. Rossi, Il principio di ragionevolezza, in relazione al quadro sanzionatorio, nel sindacato di legittimità costituzionale: rinnovati spunti in chiave comparatistica, in L’indice penale, 2012, n. 2, p. 483; S. Seminara, Il sequestro di persona a scopo di estorsione tra paradigma normativo, cornice di pena e lieve entità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 2393; C. Sotis, Estesa al sequestro di persona a scopo di estorsione una diminuzione di pena per i fatti di lieve entità. Il diritto vivente “preso-troppo?-sul serio”, in Giur. cost., 2012, p. 906. Sempre in tema di incostituzionalità, per così dire derivata, va ricordato che con la sentenza n. 143 del 2021, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., l’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 cod. pen., introdotta, appunto, con la sentenza n. 68 del 2012, sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. La Corte ha infatti ritenuto che la necessaria funzione di riequilibrio del regime sanzionatorio di particolare rigore del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione – che vede una pena detentiva molto elevata, sia nel minimo (venticinque anni di reclusione), sia nel massimo (trenta anni), all’interno di una “forbice” ridotta a soli cinque anni e che trova, altresì, giustificazione nelle caratteristiche oggettive della fattispecie incriminatrice, ricomprendente anche fatti di minore gravità rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore “emergenziale” degli anni ’70 – conferisce all’attenuante in parola una connotazione del tutto peculiare. Pertanto, la disposizione censurata impedendo in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente tale diminuente, in presenza della recidiva reiterata, vanifica la finalità ad essa riconosciuta, anche sul versante della funzione rieducativa della pena, in quanto non consente di assicurare una pena adeguata e proporzionata alla gravità del fatto-reato e di sanzionare in modo diverso situazioni differenti sul piano dell’offensività della condotta, con conseguente violazione del principio di necessaria proporzionalità della pena e del principio di eguaglianza.
[22] L’attenuante, diversamente dall’immediato precedente storico costituito dall’analoga previsione di cui all’art. 6, L. 25.11.1926, n. 2008, ha carattere obbligatorio (V. Manzini, Trattato di diritto penale, Utet, IV, 1986, p. 37; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Giuffrè II, 2008, p.630) e risulta inserita nella disciplina codicistica in considerazione della necessità di assicurare l’adeguamento della pena al fatto in una materia caratterizzata da particolare severità, nella quale per taluni fra i maggiori reati il semplice tentativo è elevato a reato perfetto (v. Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, in Lav. prep., II, Roma, 1929, 109).
[23] Sul concetto di causa normativa v. la già citata sentenza n. 89 del 1996
[24] V. nota 16)
[25] A proposito del fenomeno della c,d, “qualificazione multipla” di un fatto concreto ed in riferimento ai rapporti tra rapina ed estorsione, si è efficacemente osservato come sia «chiaro, per esempio, che un fatto concreto non può essere qualificato contemporaneamente come “rapina” e come “estorsione”: se Tizio ferma Caio di notte per strada e, costringendolo al muro, gli intima “o la borsa o la vita!”, non si può pensare che tale increscioso episodio sia suscettibile di qualificazione multipla, qualora Tizio, senza fare l’eroe, consegni il proprio portafoglio a Caio. Rapina oppure estorsione? Se si legge il fatto descritto rispettivamente dagli artt. 628 e 629 c.p., in base al significato letterale delle parole utilizzate si potrebbe sostenere che entrambe le fattispecie possano ricorrere: Tizio si è impossessato della cosa mobile altrui, sottraendola a Caio tramite una minaccia, ma tramite la stessa minaccia, ha anche costretto Caio a consegnargli il portafoglio («fare qualche cosa») e da ciò ha tratto «un ingiusto profitto con altrui danno». Si pone, dunque, una questione di “confine” tra le due norme, per evitarne la sovrapposizione applicativa. Ecco che gli interpreti finiscono per “sacrificare” la sfera della fattispecie dell’estorsione e leggono quel «fare qualche cosa» non già come qualunque attività materialmente percepibile, secondo il significato letterale delle parole, ma – più realisticamente – come qualche cosa che assume una veste giuridicamente rilevante: un vero e proprio «atto di disposizione patrimoniale», senza il quale non potrebbe ricavare il suo ingiusto profitto. L’estorsione diventa così un reato per cui la cooperazione della vittima è necessaria alla produzione del risultato patrimoniale, mentre nella rapina – al più – l’eventuale concreta collaborazione materiale della vittima si risolve in una agevolazione del raggiungimento di tale risultato». D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, Giappichelli, 2019, p. 27.
[26] In proposito viene rievocata la sentenza n. 112 del 2019
[27] La giurisprudenza costituzionale è sul punto ormai consolidata: v. in proposito le sentenze nn. 244 e 7 del 2022.
[28] V. Corte cost., sentenze n. 179 del 2017 e, soprattutto, la fondamentale sentenza n. 313 del 1990, sul patteggiamento.
[29] A nostro avviso da risolvere in chiave biunivoca, nel senso che la sproporzione va evitata in ogni caso, in quanto non consona alla funzione rieducativa, e cioè tanto in peius che in melius.
[30] Nel frangente, infatti, La Corte ha confermato che il principio di proporzionalità costituisce un principio generale del diritto dell’Unione basato sulle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, e che esso riceve una specifica enunciazione in materia di sanzioni penali da parte dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta. Peraltro, in merito al problema relativo all’eventuale effetto diretto della disposizione di una direttiva che impone l’adozione di sanzioni «proporzionate», la Corte ebbe ad osservare che una tale disposizione conferisce un ampio potere discrezionale agli Stati quanto alla configurazione di tali sanzioni, e non stabilisce alcun criterio per valutare la loro proporzionalità. Conseguentemente essa non può essere considerata incondizionata e sufficientemente precisa: il che, concluse la Corte, esclude una sua efficacia diretta. Anche perché la contraria interpretazione «condurrebbe, in pratica, all’eliminazione del potere discrezionale conferito ai soli legislatori nazionali, ai quali spetta predisporre un adeguato regime sanzionatorio». A parere della Corte, dunque, la direttiva non consente ai giudici nazionali di sostituirsi al legislatore, né conferisce ai singoli un diritto soggettivo tale da poter essere invocato innanzi agli stessi giudici nazionali.
[31] F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della carta alla luce di una recentissima sentenza della corte di giustizia, in Sistema penale, 26 aprile 2022.
[32] F. Viganò, op. cit., ultimo paragrafo
[33] R. Acquaroli , La confisca e il controllo di proporzionalità: una buona notizia dalla Corte costituzionale, in
Diritto penale e processo, 2020, 197; E. Amati , Confisca “amministrativa” negli abusi di mercato limitata al solo profitto e persistenti criticità della confisca penale, in Giurisprudenza commerciale, 2019, num. 6, parte II, 1293; R. Bartoli, Il sindacato di costituzionalità sulla pena tra ragionevolezza, rieducazione e proporzionalità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2022, 1441; N. Madia , La Consulta dichiara la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 187-‘sexies’ del d.lgs. n. 58 del 1998 sia nel testo introdotto dalla l. n. 62 del 2005 sia in quello modificato dal d.lgs. n. 107 del 2018, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, num. 3, pag. 1636; Mongillo V., Confisca proteiforme e nuove frontiere della ragionevolezza costituzionale. Il banco di prova degli abusi di mercato, in Giur. cost., 2019, num. 6, pag. 3343
[34] Le degenerazioni, però, sono dietro l’angolo. Basti pensare all’irrompere, in piena epoca nazista, dell’irrazionalismo o intuizionismo della cosiddetta Scuola di Kiel, di cui già abbiamo fatto cenno (nota 2), con i vari Schaffstein (poi “ravvedutosi” nella parte terminale della sua produzione) e Dahm, secondo la quale il giudice era chiamato a mettere in collegamento la legge penale col suo sentire e col sentire della coscienza giuridico-popolare, fonte essenziale del diritto penale del sentimento (Gefühlsstrafrecht). La struttura del reato, dunque, si scinderebbe in tante individualità giuridiche concrete per vedere come la coscienza collettiva “sente” e “percepisce” l’omicida, il ladro il truffatore ecc. Una estremizzazione cui neppure la “Scuola del diritto libero”, fondata agli inizi del secolo scorso da Kantorowicz era pervenuta, nel teorizzare l’idea di un diritto di creazione giurisprudenziale, del caso per caso.
[35] M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir. Annali, vol. IX, Giuffrè, 2015, p. 474. Puntuale, anche il riferimento a V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Dike Giuridica, 2012, p. 170