Sommario. 1. Riflettere oggi sul diritto dei contratti. – 2.Le possibili letture del rapporto diritto europeo/disciplina generale del contratto. – 3.Il percorso verso un diritto uniforme e le sue criticità: l’impasse della Corte di giustizia in tema di nullità di protezione e integrazione del contratto dal punto di vista del giurista di civil law. – 4.Il dibattito sulla auspicata novella del codice civile italiano e la (mancata) riflessione sul modello di contratto di stampo europeo.
1. Riflettere oggi sul diritto dei contratti
Il tema dell’impatto del diritto di fonte europea nel diritto interno e in particolare sulla disciplina generale del contratto non è certo nuovo; e rimane oggetto di un dibattito sempre aperto.
Due recenti sollecitazioni, pur di segno diverso, contribuiscono a rinnovarne l’interesse e sono alla base della riflessione consegnata a queste note: la pubblicazione (2021) di un volume ‘tematico’ sul Contratto nell’Enciclopedia del diritto (e soprattutto l’approccio metodologico che lo connota) [1], da una parte, e la messa a punto di un disegno di legge delega per la riforma del codice civile (n. 1151 del marzo 2019), con i relativi contenuti in materia di contratto, dall’altra. Non è dato sapere ovviamente quale sarà la sorte della proposta con la fine della legislatura: ma il testo ha avuto il merito di tradurre in norme di principio, dandovi così concretezza, una discussione che va avanti da molti anni, sì da fare apparire meno incerti, almeno, gli ambiti della disciplina dei rapporti privati – per quel che qui interessa, la disciplina generale dei rapporti a contenuto patrimoniale– su cui si vorrebbe o dovrebbe intervenire e da offrire ai giusprivatisti (e non solo) interessanti elementi di riflessione.
Va detto subito che quello degli interventi di matrice europea non può certo assumersi come l’unico punto di osservazione della materia del contratto nell’attuale quadro normativo: il contratto di cui discorriamo oggi non è solo il prodotto di cambiamenti direttamente o indirettamente introdotti dal c.d. diritto europeo dei contratti. Ad accompagnare e segnare in modo decisivo le trasformazioni del nostro diritto dei contratti è stata, insieme agli “innesti” delle fonti europee, una stagione quanto mai intensa di elaborazione specie giurisprudenziale, solo in parte sollecitata da quegli innesti. Occorre dunque fare i conti con una stagione di cambiamenti, con la complessità e una certa ‘fluidità’ del tema.
Di ciò non può non farsi carico ovviamente qualsivoglia opera di ʻsistemazioneʼ come quella richiesta ad un volume collettaneo di Enciclopedia, ʻa temaʼ. Il volume cui abbiamo fatto cenno, di sicuro per questo opera ʻcoraggiosaʼ, va in qualche modo al cuore del problema del quale vogliamo qui occuparci, perché compendia una selezione di ʻvociʼ che non rispettano un unico criterio – i profili di disciplina più incisi dal diritto di fonte europea, piuttosto che quelli più nuovi o più controversi, ovvero, pur classici ma bisognevoli di riconsiderazione– così prendendo programmaticamente le distanze dall’ordine proprio della esposizione classica, che sempre si muove a ridosso di regole e istituti della ʻdisciplina generaleʼ.
Questi ultimi – almeno quelli presi in considerazione – vi risultano mescolati, sicché è dato incontrare contributi dedicati ai temi più caldi, cioè ai segmenti di disciplina maggiormente incisi dal diritto di fonte europea (si pensi alla nullità di protezione) ovvero ad istituti cardine della disciplina del contratto consegnata al codice civile che, sotto le suggestioni delle regole europee di protezione, si vorrebbero piegare a un differente modello di rapporto tra legge e autonomia privata (giustizia contrattuale e sue ricadute); ma non mancano numerosi saggi di impronta ‘tradizionaleʼ, che con impostazione classica tornano su istituti poco toccati dal diritto unionale (rappresentanza, risoluzione per inadempimento).
La scelta di mescolare gli istituti e gli approcci metodologici lascia intuire l’intento di compendiare i pur differenti profili di una lettura aggiornata, attualizzata, del contratto, ma anche la premessa, implicita, dell’intenzionale allontanamento dalla sistematica tradizionale. Non contestata in sé; ma di certo ritenuta inadeguata (o non più attuale) per un obiettivo di ‘messa a punto’ della materia del contratto.
Sullo sfondo dell’opera e a partire dalle singole voci insomma, sta, nel bene e nel male, questa stagione di ʻscomposizione/ricomposizioneʼ nella quale il civilista odierno è immesso quando si misura con il tema del contratto. Ma è proprio qui che torna prepotentemente la domanda: se davvero, per una lettura adeguata del quadro odierno, possa farsi a meno della cornice e della guida delle norme generali; e, di seguito, se e come possa discorrersi di una disciplina generale – nel solco della sistematica del nostro codice civile – di fronte al modello o ai modelli di contratto che il quadro normativo ʻeuropeizzatoʼ e in generale in qualche misura fluido ci rimanda. E questo a mio avviso è un nodo sistematico centrale, che qualsivoglia approccio al tema del contratto non può oggi bypassare.
Con le fonti sovranazionali e in particolare con il diritto europeo dei contratti le singole voci di quel volume, ovviamente, non mancano di dialogare. Aleggia però, inevitabilmente, dietro l’impostazione complessiva, un nodo sistematico che forse si è voluto consegnare, intatto, al lettore: se nel quadro attuale esca quantomeno ridimensionata la funzione della disciplina generale, appunto di cornice regolatoria generale.
Interrogativo che torna dall’altro versante, quello cioè della prima proposta di revisione ʻdiffusaʼ del codice civile. Dove emerge, come meglio vedremo, una certa difficoltà di raccordo (o forse una supposta, quanto indimostrata, incomunicabilità), tra talune tecniche di regolazione di fonte europea che si vorrebbero ormai ‘stabilizzate’ e per questo meritevoli di consacrazione, quali regole generali, entro il codice civile, e la disciplina generale “interna” con i suoi capisaldi.
2. Le possibili letture del rapporto diritto europeo/disciplina generale del contratto
Il rapporto diritto europeo/disciplina generale del contratto si può declinare e si è declinato come sappiamo in diverso modo. Nella prospettazione un po’ datata, e auspicabilmente superata o comunque desueta, secondo cui dovrebbe ormai discorrersi di ‘secondo’ e ‘terzo’ contratto, la disciplina generale perde centralità, si ridimensiona per ‘sottrazione’, in quanto rimarrebbe a governare il ‘primo’ contratto, ma non quei segmenti di fonte europea entro cui emerge e si consolida, rispettivamente, il regime dei contratti di consumo e quello dei contratti dell’impresa debole, ritenuti se non irriducibili di sicuro meno tributari delle regole generali di cui ai nostri artt. 1321-1469 c.c. Tripartizione tanto suggestiva quanto azzardata e soprattutto fragile, tenuto conto sia dell’ambito assai ridotto di regole ‘speciali’ dedicate ai c.d. contratti dell’impresa debole (peraltro mutuati dalla disciplina dei contratti B2C) sia, soprattutto, della programmatica parziarietà dei segmenti di disciplina in materia di contratti di consumo, per questo necessariamente bisognevoli di inquadramento entro una cornice generale. Ma non occorre che mi soffermi oltre su una tesi che è stata sottoposta ad ampie e convincenti critiche.
In un’ottica in parte diversa, di sicuro più cauta, che di nuovo assume come punto di riferimento l’intero panorama di fonte europea e dunque soprattutto le direttive consumeristiche, il contratto odierno vivrebbe entro una dialettica tra diritto dell’Unione e diritto interno non sempre ricomponibile, sicché all’interprete non rimarrebbe che assecondare la ‘specialità’ di regole, istituti, rimedi introdotti dal primo, accettandone per così dire e di volta in volta segnalandone la distanza con la disciplina generale su cui si regge il secondo, cioè il sistema di diritto nazionale. Si profila una sorta di convivenza, solo fino ad un certo punto pacifica, che ha implicita la rinuncia ad un’opera di sistemazione che vada invece alla ricerca di una ricomposizione, seppure una nuova ricomposizione, che non mortifichi le novità ma non porti con sé necessariamente l’obsolescenza o almeno il deperimento del diritto comune. Un’eco di questa lettura ci pare si riscontri, come diremo, nelle linee di revisione del codice civile per la parte che qui interessa.
Una “terza via”, convintamente praticata da parte della dottrina, ritiene invece possibile ed anzi necessario di volta in volta riannodare i fili che legano regole speciali e disciplina generale, ineliminabile cornice per una compiuta applicazione proprio delle regole speciali [2]. E ciò non certo per una sorta di pregiudizio dogmatico o in nome di un approccio un po’ retrò che rende difficile abbandonare l’impostazione classica.
Prescegliere una lettura dei nuovi dati normativi che senza mortificarne le peculiarità non ne recida tout court e talora a priori il legame con la cornice generale non è solo o principalmente una questione di ‘tenuta del sistema’, questione pur in sé non trascurabile. è in realtà scelta di metodo obbligata per ‘gestire’ se così può dirsi l’interazione diritto dell’Unione/ diritto interno in coerenza con il disegno dei Trattati e con i principi fondamentali che vi stanno alla base.
Lo richiedono i dati normativi, innanzitutto. Per quanto intenso, pervasivo, retto da tecniche e principi ormai consolidati, l’intervento europeo è sempre, come si è già ricordato, programmaticamente ‘parziale’: incide su taluni aspetti di singoli contratti (spesso comuni a più tipi contrattuali), o su taluni momenti della vicenda contrattuale (primo fra tutti quello della formazione/conclusione). È un quadro normativo – sottolinearlo è persino scontato – che reclama non solo un completamento ma un inquadramento coerente entro gli ordinamenti interni.
A chiedere, insistentemente, questa interazione è d’altra parte la stessa Corte di giustizia, che, fuori dai casi di armonizzazione piena, continua a richiamare il giudice interno ad una applicazione delle Direttive che tenga conto «del complesso delle norme interne» (così fra le tante Banca B, causa C.-269/19, sent. 25 novembre 2020 a proposito di clausole vessatorie).
«Il diritto comune dei contratti proietta un referente sul piano strutturale costituito appunto dallo schema unitario astratto, che si risolve nella categoria generale di contratto”, categoria «costruita in modo da consentire le diversità di discipline al suo interno senza che ciò comprometta l’unità del nucleo comune caratterizzante». Così ammoniva Giuseppe Benedetti(La categoria generale del contratto, nella Rivista di diritto civile del 1991, e poi negli studi in onore di Giorgio Oppo), nella sua riflessione sull’art. 1323 c.c., assunto quale norma chiave che vale a fondare l’unità della categoria nel momento in cui individua nelle norme generali un diritto comune dei contratti. E quella riflessione, è bene ricordarlo, nasceva proprio a ridosso delle prime analisi sull’emergente diritto europeo dei contratti. «La ricostruzione unitaria del contratto» – Egli aggiungeva – «non costituisce opzione dogmatica o lusso concettuale ma necessità applicativa».
Il pericolo di una riflessione incline a ‘parcellizzare’ l’oggetto di analisi e comunque a recidere o indebolire il legame con una cornice generale non è allora tanto o soltanto quello di far circolare nel diritto interno altrettante “monadi” più o meno eversive: anche questo in verità è un prezzo che andrebbe evitato. Interrompere il dialogo tra regole speciali e diritto comune dei contratti reca con sé ben altro rischio, che a me pare nient’affatto remoto: quello di non cogliere o non cogliere appieno gli elementi più interessanti della contaminazione che sola può realizzare l’obiettivo dell’armonizzazione. Una contaminazione che si alimenta di un moto pervasivo reciproco, discendente e ascendente: così come la cornice generale delle regole comuni rimane supporto indispensabile per completare le discipline parziali di fonte europea e guidare l’interpretazione idonea a garantirne una piena ed efficace applicazione, agevolando un più stabile e meno traumatico innesto nel sistema interno; allo stesso modo le regole speciali apportano talora nuova linfa alla disciplina generale interna e i relativi principi ispiratori possono farsi veicolo potentissimo di arricchimento di questa.
Fuori da questa opzione di metodo non c’è solo confusione, talora il travisamento della ratio di tecniche e istituti; ma anche impasse in sede applicativa e l’idea che la trasformazione del diritto dei contratti, nell’impatto con il pluralismo delle fonti e i cambiamenti delle dinamiche socioeconomiche, non possa che compiersi a tratti, a singhiozzo, per strappi successivi, suggerendo all’interprete di assecondarne il percorso, step by step, e rinunciare alla sintesi.
D’altra parte, è proprio quella diversa opzione di metodo a garantire che in nome delle spinte o delle suggestioni provenienti dalle fonti europee non si compiano fughe in avanti, facendo dire alle regole e ai principi che governano il nostro regime del contratto ciò che mai avrebbero voluto dire e possono dire.
3. Il percorso verso un diritto uniforme e le sue criticità: l’impasse della Corte di giustizia in tema di nullità di protezione e integrazione del contratto dal punto di vista del giurista di civil law
Le conferme vengono proprio da alcuni temi chiave della dialettica (o del dialogo?) tra diritto europeo e diritto interno; o meglio sarebbe dire da alcuni punti critici di quel rapporto.
Il primo è il tema forse più indagato del rapporto diritto dell’Unione/diritto interno, quello del regime della nullità di protezione. Del quale sembrerebbe non esservi ormai più nulla da dire, stante la compiuta fisionomia acquisita grazie al costante lavoro di elaborazione compiuto dalla Corte di giustizia. In quella sede nasce il rimedio c.d. a gestione asimmetrica, destinato ad operare a beneficio del consumatore ma affidato al giudice, perché rimedio applicabile d’ufficio. La Corte di Lussemburgo ha compiuto uno dei percorsi di elaborazione più interessanti e soprattutto più raffinati per delineare un modello coerente con la ratio della disciplina europea e tuttavia ‘compatibile’ con le tradizioni dei diritti interni: sicché la ‘non vincolatività’ della clausola abusiva, unico vero risultato voluto dall’intervento sul contenuto del contratto, ha potuto tradursi in un rimedio caducatorio (non sempre demolitorio dell’intero contratto), destinato a tutelare il consumatore ma non lasciato alla sua iniziativa. Un modello certamente particolare, nel quale tutela di una sola parte del contratto e rilevabilità d’ufficio della causa di invalidità possono coniugarsi solo a patto di valorizzare la natura generale dell’interesse protetto, che è interesse di una parte ma a rilevanza generale. Le ragioni di questa rilevanza sono quelle efficacemente elencate, in chiave costituzionale, dalle nostre Sezioni Unite del 2014 (Cass. n. 26242); dove, certo non pour cause, generalità dell’interesse protetto e presidio della rilevabilità d’ufficio costituiscono il binomio, l’unico possibile, nel quale rintracciare e su cui fondare l’unità dell’istituto della nullità, ivi comprese quelle c.d. speciali.
Il ragionamento limpido della Corte si inceppa però su un punto, quello della compatibilità tra potere officioso del giudice e interesse del consumatore contrario alla declaratoria di nullità, rispetto al quale abbastanza sbrigativamente le Sezioni Unite, nel solco del resto di quanto ripetono i giudici di Lussemburgo, tornano a parlare di “opposizione” della parte, idonea a impedire che il giudice passi dalla rilevazione alla dichiarazione della nullità. Non v’è chi non colga la sommarietà della soluzione, della quale forse avrebbe dovuto essere meglio indagata, proprio nel corpo della sentenza, la coerenza con l’appena conclamata indispensabilità del rilievo officioso a presidio dell’interesse generale tutelato dal rimedio. È una defaillance tutta interna al dialogo tra le Corti, che trae origine dal precedente di Pannon, quello che definirei uno sciagurato precedente, dove si palesa per la prima volta un potere di opposizione da parte del consumatore idoneo a bloccare l’iniziativa officiosa del giudice. Di lì a poco Banif Plus avrebbe cercato di correggere il tiro, restituendo la questione alla dinamica endoprocessuale del contraddittorio, e dunque chiamando il giudice interno a valutare se, dalla posizione della parte tutelata, non emergano nel processo elementi ostativi alla caducazione della clausola [3]. Ostativi in ragione di una sorta di convalida successiva del contenuto contrattuale abusivo o piuttosto ostativi perché probanti un assetto di interessi nel quale si ridimensiona l’effetto squilibrante della clausola [4]?
Quale che sia la lettura che si intenda trarre dalle due pronunce in sequenza, e da quelle che vi hanno fatto seguito, non mi pare possa dubitarsi della circostanza che la presunta dialettica endoprocessuale in esito alla quale possa ritenersi, a seconda dei punti di vista, ‘paralizzato’ il potere officioso del giudice o più semplicemente contestata con successo la causa di invalidità, prende corpo nel pensiero della Corte all’interno della nullità di protezione parziale, della o delle clausole sospette di vessatorietà, unica fattispecie che ha fatto da fucina all’elaborazione del modello di nullità ‘speciale’ in seno alla Corte europea. La domanda è allora: ai percorsi argomentativi della Corte di giustizia, necessariamente e palesemente tributari delle questioni pregiudiziali di volta in volta sollevate, pur se, forse maldestramente, riproposti dalle nostre Corti, va riservata una acritica adesione o di essi va vagliata la compatibilità e coerenza con il sistema interno? Ponendosi intanto alcuni interrogativi: ad esempio se sia coerente una ricostruzione del rimedio che, una volta restituito alla disponibilità del consumatore fino al punto da attribuire a quest’ultimo un potere di convalida, possa poi limitare l’esercizio di tale potere alla sede processuale e perché; e quali conseguenze comporterebbe ammetterne invece anche un esercizio extraprocessuale. La posizione della Corte di giustizia potrebbe in modo ‘più ortodosso’ voler chiedere alle Corti interne di riasseverare nel contraddittorio processuale l’effetto squilibrante della clausola in danno del consumatore e, alla luce delle puntualizzazioni della parte protetta, escluderlo, così salvando quel contenuto contrattuale. Machinery ben diversa da una convalida endoprocessuale della clausola abusiva.
La proposta ricostruttiva che ravvisa quale ulteriore elemento di specialità della nullità di protezione l’ammissibilità di una convalida o come si preferisce dire una ‘sanatoria’, può essere condivisa o meno [5]; ci si attende però che non si snodi entro una sorta di autoreferenzialità e si misuri con le coordinate di sistema, magari anche ‘testandola’ fuori dal regime delle clausole vessatorie, allorché si discorra di vizi strutturali che pregiudicano la validità dell’intero contratto come la nullità di protezione per vizio di forma dei contratti di credito o per la prestazione dei servizi d’investimento; o interrogandosi sulla breccia che una nullità convalidabile da parte del consumatore apre proprio sull’obiettivo di tutela di questi, entro un regime che invece in generale si regge proprio sulla non derogabilità .
Accolto il richiamo, questo sì solido e convincente, al recupero dell’unità concettuale e di regime della nostra nullità, proveniente dalle Sezioni Unite, non credo manchino i margini per preservarla anche a costo di ridimensionare il messaggio un po’ equivoco proveniente dalla Corte di giustizia.
Emerge qui – e ne vedremo talune ricadute nelle proposte sulle possibili correzioni all’impianto del codice civile – un nodo centrale, gravido di conseguenze nella riflessione sul tema di cui ci stiamo occupando: l’approccio della nostra dottrina (e dei nostri giudici) ai dicta della Corte di Lussemburgo. Dopo oltre un ventennio di interventi, nel corso del quale la Corte di giustizia ha fornito un contributo determinante alla creazione e stabilizzazione dell’acquis comunitario in tema (anche) di contratti di consumo, e soprattutto di nullità di protezione, è forse venuto il tempo di chiedersi quanto adeguato sia stato e sia quest’approccio allorché, mentre i giudici di Lussemburgo non si stancano di richiamare le corti interne ad una implementazione delle regole comunitarie nel quadro degli ordinamenti domestici e in coerenza con essi – così intendendo sottolineare la funzione di orientamento e di principio delle proprie decisioni – la reazione che viene dall’interno (almeno per ciò che ci riguarda) rimane ispirata ad una convinta, acritica (forse solo di comodo) adesione che sa di provincialismo e reca con sé una sorta di programmatica rinuncia proprio a quell’opera cui invece i giudici di Lussemburgo (e il ruolo loro affidato dal Trattato) intendono richiamare. Vale a dire la capacità di trasferire entro gli ordinamenti interni le soluzioni interpretative fornite dalla Corte di giustizia, sì da dare corpo a quel percorso di armonizzazione cui gli Stati membri sono chiamati, tanto più quando, in tema di rimedi, le fonti europee optano per interventi di armonizzazione minima e dunque esplicitamente e in principio si fermano, lasciando agli ordinamenti interni di scegliere, tra quelle loro più familiari, le tecniche più efficaci ed adeguate.
Sempre a proposito di nullità di protezione e di ricerca di coerenza tra suggerimenti della giurisprudenza comunitaria e sistema interno, si profila ora nelle ultime decisioni della Corte di giustizia un banco di prova estremamente significativo: quello della gestione delle lacune determinate nel contenuto contrattuale dalla caducazione delle clausole vessatorie e del modo con cui ovviare a queste, quando è in gioco la sopravvivenza del contratto.
Sappiamo bene che la novità dell’intervento affidato al controllo di vessatorietà delle clausole contrattuali risiede nella funzione, non di compressione e/o riconduzione a limiti invalicabili (le norme imperative) delle scelte private, bensì di restituzione di spazi all’autonomia privata: riorientando le manifestazioni distorte dal maggior potere contrattuale di una parte, la legge, nel caso concreto, preserva lo scambio ma privo delle regole non condivise che non rispecchiano un equilibrio di interessi liberamente scelto dalle parti, così proponendosi di restituire all’altra parte i margini di autodeterminazione che la contrattazione di massa ha negato. Il regime delle clausole vessatorie così ‘costruito’ a livello europeo, pur se concepito a ridosso delle garanzie di tutela dei consumatori sancite nei Trattati, si è imposto e si configura allora in tutta la sua portata nell’ambito della disciplina generale del contratto, quale veicolo di transizione verso una nuova e più matura impostazione della dialettica autonomia privata/legge [6]: così disvelando via via il forte impatto sistematico della UCTD.
Ebbene, a segnare i termini – ma anche a circoscrivere gli ambiti – di questa dialettica, dovrebbe essere la scelta che ispira e qualifica l’intervento consegnato alla dir. 93/13/CEE, come enunciata nel Considerando 21 ma soprattutto consegnata al disposto (in apparenza inequivoco) dell’art. 6, § 1 cioè quella di un controllo destinato eventualmente a sfociare in una nullità ‘necessariamente’ parziale. «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». Soluzione in apparenza sempliceche, letta in pendant con l’esclusione dalla verifica di vessatorietà delle clausole che siano state effettivamente oggetto di negoziazione o comunque inserite in un accordo effettivamente negoziato [7], consacra l’obiettivo ultimo dell’intervento, quello di presidiare la libera autodeterminazione dei privati nella regolazione dei propri interessi economici, neutralizzando fin dove possibile le distorsioni conseguenti al maggior potere contrattuale di produttori e distributori.
L’art. 6 sancirebbe una tecnica che presuppone, almeno in principio, una secca operazione di ortopedia, con cui si elimina la clausola (o le clausole) ‘squilibranti’, lasciando sopravvivere nella loro originaria versione gli altri termini dell’accordo. Ma il controllo sul contenuto del contratto e la sanzione demolitoria configurano uno strumento nuovo di governo dall’interno dell’autonomia privata, i cui confini non sembra possano essere così rigorosamente fissati, come del resto la prassi non ha tardato a dimostrare.
Il controllo di vessatorietà apre un percorso non solo per buona parte inedito nella tecnica ma di sicuro non scontato negli esiti. Ora – malgrado l’art. 6 della Direttiva tenda a replicarla prospettando una tecnica di nullità parziale – il rapporto autonomia privata/ legge non si svolge più entro la secca alternativa tra i due poli – riconoscimento e protezione di spazi leciti di autodeterminazione/ disconoscimento degli effetti (nullità) o barriere all’ingresso (inefficacia per i contratti atipici non meritevoli) [8], per le manifestazioni che quegli spazi non rispettino. Prelude bensì ad una sorta di ‘cooperazione’ legge-volontà privata nell’organizzazione in concreto del programma contrattuale; cooperazione che i privati possono escludere solo se e in quanto siano stati capaci di dare vita ad un assetto di interessi autenticamente prodotto della libertà contrattuale di entrambi, e che invece, quando necessaria, deve farsi carico degli interessi compressi e fors’anche non palesati della parte ‘protetta’. Operazione assai più complessa di quanto non lasci intendere la regola consegnata all’art. 6. Dalla norma che dovrebbe guidare e “contenere” il potere del giudice si dipartono dubbi applicativi e nodi sistematici che il pur ricco bagaglio di preliminary rulings, acquisito grazie al notevole sforzo di elaborazione della Corte di giustizia, solo in parte ha superato.
Sono note le criticità che hanno accompagnato la messa a fuoco del rimedio alla vessatorietà, vale a dire la «nullità di protezione» come oggi pacificamente definita. Non conviene attardarsi su questo percorso.
La necessaria ‘flessibilità’ di un intervento di correzione delle scelte di autonomia privata quale disegnato con il regime della clausole vessatorie palesa però di recente il suo vero punto critico soprattutto, per così dire, a valle: se e come riempire il vuoto determinato nel programma contrattuale dopo la caducazione della clausola; se e come organizzare l’innesto della volontà della legge sull’autodeterminazione privata ‘monca’; su quali parametri basare l’alternativa tra conservazione e caducazione dell’intero contratto e fin dove spingere interventi di integrazione/manipolazione per evitare la seconda. Fuori dall’ipotesi, non di scuola ma certo tutt’altro che esaustiva, di un contratto che può perfettamente rimanere in piedi seppur privo della regola convenzionale caducata perché vessatoria, si apre la verifica sui margini e soprattutto sugli strumenti perché si attivi quel meccanismo di ‘cooperazione’ volontà della legge/volontà privata che solo può supportare la sopravvivenza del contratto in versione rivista e riequilibrata. In buona sostanza, l’applicazione della Direttiva 93/13 pone al centro la questione degli strumenti (e dei limiti) con cui l’ordinamento – il nostro, ma in generale quello degli Stati membri e in particolare i sistemi di civil law – sia attrezzato, e come, a governare e correggere ‘dall’interno’ l’atto di autonomia in un sistema che garantisce in principio la libertà contrattuale.
A fare emergere questa criticità, svelando tutta la precarietà della rigida e apparentemente semplice soluzione evocata dal § 1 dell’art. 6 della Direttiva (via la clausola, il contratto per il resto integro sopravvive, se può), è stato soprattutto il percorso intrapreso con decisione dalla Corte di giustizia nella direzione di un ridimensionamento, in nome del principio di trasparenza, della zona ‘franca’, sottratta al giudizio di vessatorietà, costituita dalle clausole di contenuto economico del contratto. Ridimensionata questa zona franca e dunque potenzialmente aggredito il contenuto essenziale del contratto, lo scenario prefigurato (nella sua versione per così dire semplificata)nella regola di cui all’art. 6 della Direttiva ne è stato in buona parte smentito, e i giudici sono stati chiamati sempre più spesso a confrontarsi seriamente con il problema dei margini di integrazione del contratto ‘amputato’ di una parte del contenuto, per sciogliere l’alternativa tra la sopravvivenza o la nullità di questo.
Soprattutto le significative aperture della giurisprudenza comunitaria verso la rigorosa delimitazione dei cosiddetti core terms del contratto (la «definizione dell’oggetto del contratto» ovvero «la perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro») che la Direttiva (art. 4, § 2) vuole sottratti alla verifica di vessatorietà se espressi in modo trasparente, hanno reso molto meno probabile lo scenario per così dire ‘semplificato’ che verosimilmente ha ispirato l’art. 6 della Direttiva 93/13: una sorta di operazione di microchirurgia che, eliminata la clausola o le clausole censurate, lascia di regola sopravvivere il contratto che di esse ‘può fare a meno’, entro una sorta di automatismo del quale il giudice sarebbe quasi spettatore e non attore, di cui potrebbe e dovrebbe solo prendere atto.
Attraverso un percorso abbastanza lineare, l’erosione dello spazio off limits in principio garantito al contenuto economico del contratto si compie lungo due direttrici convergenti: l’una che, con operazione di interpretazione estensiva e teleologica, assegna alla redazione «in forma chiara e comprensibile» (presupposto per la sottrazione al giudizio di vessatorietà) il più ambizioso obiettivo di assicurare una trasparenza sostanziale e dunque l’effettiva comprensibilità del contenuto della clausola; l’altra che, invece valorizzando la generale ratio legis, dà solido fondamento ad una lettura restrittiva della deroga, cioè della regola di esclusione di cui all’art.4 §.2, così limitando le parti dell’accordo sottratte al controllo di vessatorietà (se trasparenti).
Si deve soprattutto a Kásler, come è noto, una solida messa a punto in merito a contenuti e limiti del giudizio di vessatorietà su clausole che riguardano il contenuto essenziale del contratto e i termini economici (causa C-26/13 – Kásler-OTP sentenza del 30 aprile 2014), ma anche dei principi che devono guidare il giudice nell’alternativa tra conservazione e caducazione dell’intero contratto attraverso la soluzione al problema delle lacune contrattuali. Da Kásler in poi si afferma decisamente intanto la lettura ‘sostanzialista’ del principio di trasparenza di cui all’art. 4, § 2 della Direttiva, alla cui stregua perché una clausola contrattuale (nella specie concernente il tasso di interesse di un mutuo) sia da considerare redatta in modo chiaro e comprensibile non basta che essa sia intellegibile sul piano grammaticale ma occorre che esponga «in maniera trasparente il funzionamento concreto del meccanismo» anche in relazione ad altre clausole relative al costo del prestito; sicché una clausola di contenuto economico è trasparente quando «il consumatore sia posto in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi e intellegibili, le conseguenze economiche che gliene derivano». Ma si deve soprattutto a Kásler la definizione dei (rigorosi) confini della norma derogatoria che identifica il contenuto del contratto da considerare off limits (purché trasparente) in sede di controllo di vessatorietà.. Ribadito l’obbligo di interpretazione restrittiva della norma, dato il suo carattere derogatorio, la Corte indica precisi confini di quelli che il giudice nazionale potrà considerare core terms del contratto. Clausole relative all’oggetto principale del contratto dovranno considerarsi (solo) quelle che fissano le prestazioni essenziali e che dunque lo caratterizzano, ma non quelle che rivestono un carattere accessorio. Spetta pertanto al giudice nazionale valutare, dati la natura, l’economia generale e la stipulazione del contratto di mutuo, nonché il suo contesto giuridico e fattuale, se la clausola che determina il tasso di cambio delle rate mensili costituisca un elemento essenziale della prestazione del debitore di restituzione dell’importo prestato. In generale poi – e qui sta il principio guida di maggiore interesse – l’esclusione dal giudizio di vessatorietà si fonda (trovandovi il suo limite) sulla impossibilità di rintracciare un tariffario o un criterio giuridico in base al quale controllare il rapporto qualità/prezzo di una fornitura o di una prestazione come previsto nella clausola in esame. Rapporto che non è implicato nelle clausole che fissano i parametri di determinazione dei tassi d’interesse e, in particolare, le variazioni nella determinazione del corso di conversione della valuta estera prescelta dalle parti per il calcolo dei rimborsi o degli interessi di un mutuo, dove non è rintracciabile un servizio e una ‘remunerazione’.
Ridefiniti in modo così puntuale e rigoroso ambito e finalità della regola di cui all’art. 4, § 2 della Direttiva, è del tutto evidente che ne risulti significativamente ristretto il segmento contrattuale, e in particolare quello di contenuto economico, sottratto almeno in prima battuta al giudizio di vessatorietà, con la conseguenza di una prevedibile moltiplicazione di casi in cui il giudice nazionale si troverà di fronte ad accordi amputati di parti significative che ne renderanno dubbia la capacità di sopravvivenza. Lo scenario, in parte nuovo, così delineato, non può non accompagnarsi allora in Kásler alla definitiva consacrazione del principio già annunciato in diversi precedenti, che, proprio in conformità all’obiettivo di cui all’art. 6, § 1 della Direttiva, ammette il ricorso a disposizioni nazionali anche di natura suppletiva per colmare la lacuna determinata dalla caducazione della clausola vessatoria, chiarendo una volta per tutte che in ciò non può certo ravvisarsi un intervento manipolativo della clausola censurata o in qualche modo creativo da parte del giudice nazionale [9].
La portata di queste aperture, sancite in Kásler, si rivelerà ben presto nel prosieguo. E così (vedi Abanca Corporación Bancaria, cause riunite C-70/17 e C-179/17, sent. 26 marzo 2019), l’alternativa tra caducazione della clausola (e dell’intero contratto) e sua sostituzione, in nome dell’interesse del consumatore, verrà messa alla prova anche nel contesto della successione di norme di diritto interno: onde evitare la caducazione dell’intero contratto, con conseguenze sfavorevoli per il mutuatario [10], la Corte di Lussemburgo suggerisce al giudice interno, una volta caducata una clausola di risoluzione del contratto per morosità di una sola rata di mutuo, giudicata vessatoria, di applicare in via suppletiva una norma emanata successivamente alla stipula del contratto, in forza della quale è da ritenersi valida la clausola contrattuale che consente la risoluzione anticipata del contratto ma in caso di mancato pagamento di almeno tre rate di mutuo (come nella fattispecie venuta all’esame della corte interna). E allora, «gli articoli 6 e 7 della Direttiva», sancisce la Corte, «non ostano a che il giudice nazionale sani la nullità della clausola abusiva sostituendola con il nuovo testo della disposizione legislativa che ha ispirato detta clausola, applicabile in caso di accordo tra le parti contraenti, sempreché il contratto di mutuo ipotecario in questione non possa sopravvivere in caso di eliminazione della clausola abusiva e l’annullamento in toto del contratto esponga il consumatore a conseguenze particolarmente pregiudizievoli».
Poco prima in Banco Santander Banco Santander SA e Rafael Ramón Escobedo Cortes (sent. 7 agosto 2018, cause riunite C-96/16 e C-94/17), la Corte aveva del resto ritenuto ‘salvabile’ il contratto di mutuo, amputato della clausola vessatoria che ne fissava la misura degli interessi moratori con eccessiva maggiorazione di quelli corrispettivi, mediante la determinazione di interessi moratori nella misura fissata per quelli corrispettivi; così eliminando dalla clausola abusiva solo la parte riferita alla maggiorazione e ricorrendo alla diversa regola convenzionale presente nel contratto e ‘sopravvissuta’ nella versione del contratto corretta. Il giudice nazionale, ad avviso della Corte, può operare tale correzione. In una sorta di equilibrismo argomentativo, la sentenza si affretta a ribadire che ciò va fatto «senza poter sostituire alla clausola disposizioni legislative suppletive, né rivedere la clausola in questione»; ma in realtà, in un allontanamento a cascata dalle prime interpretazioni ‘ortodosse’ della regola di cui all’art. 6 della UCTD, i giudici di Lussemburgo sorvolano sulla circostanza che l’eliminazione di una parte della clausola pattizia equivale ad una sua riscrittura.
A questa decisione come sappiamo si ispireranno le nostre Sezioni Unite quando, a proposito di interessi moratori usurari, nella contestata decisione n. 19597 del 2020 [11], ritenuta applicabile la disciplina antiusura anche ai tassi moratori, prospetteranno una operazione di salvataggio (peraltro non necessaria visto che il contratto, ove si applicasse tout court la norma interna, art. 1815 comma 2 c.c., sopravviverebbe quale mutuo gratuito), operazione che presuppone invece insieme, secondo la Corte, la parziale applicazione di una norma imperativa (la nullità comminata dall’art. 1815, comma 2, c.c., ma qui limitata al segmento usurario dell’interesse moratorio rispetto al tasso di interesse corrispettivo) e l’applicazione di una norma suppletiva, quale l’art. 1224, comma 1, c.c.
La risposta ‘conservativa’ alle lacune contrattuali si affranca dalla asettica constatazione delle possibilità di sopravvivenza del contratto a seguito della mera individuazione di una o più regole suppletive direttamente applicabili in sostituzione di quelle pattizie vessatorie dichiarate nulle, e si apre ad una più complessa – ma anche più adeguata – operazione che si colloca, riteniamo, a pieno titolo nell’attività di interpretazione del contratto.
In questo percorso, abbastanza lineare e molto promettente per ricostruire il rapporto autonomia privata/legge secondo la ratio della Direttiva 93/13, irrompe però l’inatteso quanto approssimativo revirement che la Corte di Lussemburgo ci riserva in Dziubak (ottobre 2019), dove la Corte – malamente indirizzata dalle Conclusioni dell’Avvocato Generale, va detto – esclude che la lacuna contrattuale (sempre a proposito di indicizzazione del mutuo e relativo tasso di interesse corrispettivo) possa essere colmata mediante l’applicazione di disposizioni nazionali di carattere generale che prevedano una integrazione tramite gli usi, poiché esse non risulterebbero «essere state oggetto di una valutazione specifica del legislatore al fine di stabilire» se consentano l’equilibrio tra diritti ed obblighi delle parti. La risposta è in realtà per così dire “fuorviata”, o comunque orientata, dalla considerazione che l’applicazione di tale diverso parametro porterebbe a condizioni di scambio diverse da quelle prefigurate in sede di conclusione del contratto; e dunque secondo la Corte verrebbe in gioco il principio secondo cui il contratto non può essere mantenuto se il giudice nazionale, alla stregua del diritto interno, ritenga che l’eliminazione delle clausole comporti «la modifica della natura dell’oggetto principale del contratto». Mentre Kásler insegna che le clausole sui parametri di determinazione dei tassi di cambio degli interessi non sono da considerare sempre e comunque rientranti nell’«oggetto» del contratto, qui si rinviene nel mutamento dei relativi parametri di indicizzazione che seguirebbe all’applicazione degli usi una modificazione dell’oggetto; che risiederebbe però proprio (e solo) nell’allontanamento dai contenuti ed esiti economici dell’originaria determinazione convenzionale (abusiva).
Tralasciando altri aspetti di una decisione complessa e, sia consentito, abbastanza inquietante – non foss’altro per il palese travisamento o vera e propria negazione di principi consolidati ben sanciti in Kásler [12] – un dato, decisivo, merita rilievo: entro un certo bailamme argomentativo, che dalle conclusioni dell’Avvocato generale approda al decisum, (al quale rinviamo), a scomparire è nel pensiero della Corte l’unico dato certo che avrebbe potuto guidare la decisione, in linea con l’acquis consacrato in Kásler, e cioè la rintracciabilità, nel diritto interno implicato, di una norma suppletiva sulla integrazione del contratto, quale l’art. 56 c.c. polacco, di tenore analogo al nostro art. 1374 c.c., secondo cui «Un atto giuridico produce non solo gli effetti che sono in esso espressi, ma anche quelli che derivano dalla legge, dalle norme di convivenza sociale e dagli usi». Norma peraltro invocata proprio dalla Banca per salvare il contratto e idonea a realizzare l’unico obiettivo della UCTD, cioè, come insegnano proprio i giudici di Lussemburgo, ripristinare «per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di tale clausola» [13].
Le dottrine Dziubak cacciano la Corte in un vicolo cieco i cui esiti non tardano a emergere. Di lì a poco, in Banca B S.A. (sent. 25 novembre 2020, causa C-269-19), ribadita, sull’onda del suo precedente, l’impraticabilità di integrazioni del contenuto contrattuale alla stregua del quadro normativo generale e in applicazione dei suoi principi, la Corte troverà ora più accettabile la via, pure esplorata dai giudici interni ma prospettata dubitativamente da quello del rinvio, della rinegoziazione. E dunque aprirà la via al paradosso di una soluzione che intende tutelare il consumatore semplicemente restituendolo a quello scambio impari che il controllo sulle clausole abusive dovrebbe correggere; uno scambio in esito al quale gli si prospetterà verosimilmente solo la possibilità di accettare un contratto diversamente squilibrato quale unica alternativa ad un fallimento della trattativa che lo esporrebbe alle medesime conseguenze della caducazione del contratto originario. A meno di immaginare una rinegoziazione eterodiretta dal giudice, sul cui fondamento però – ad oggi – non si ritrovano tracce nei principali ordinamenti degli Stati membri.
Dietro questa impasse, che rischia di allontanare il regime della nullità di protezione dai suoi obiettivi, vi è a mio avviso una scarsa ponderazione delle conseguenze che ha sul piano sistematico l’abbandono del modello classico di ‘gestione’ delle clausole vessatorie, cioè quello della integrazione cogente; abbandono che si compie quando la Corte di giustizia ammette il ricorso alle norme suppletive.
Siamo tornati, in qualche modo, al punto di partenza: la necessità di collocare (e perché no rileggere) le risposte della Corte di giustizia entro le coordinate di sistema offerte dagli ordinamenti interni.
Abbandonato il modello di una operazione ‘notarile’ che registra l’innesto di contenuti imperativi in luogo di quelli pattizi censurati, e sdoganato il ricorso alle norme suppletive, il compito del giudice inevitabilmente si sposta entro la complessiva funzione ermeneutica, operazione per cui egli ha dunque a disposizione – e non potrebbe essere diversamente – tutti gli strumenti propri dell’attività di interpretazione; e ciò sia, come esplicitamente richiesto dalla Direttiva, quando si tratti di scandagliare i contenuti anche impliciti della clausola pattizia sospetta di abusività nel contesto del complessivo assetto di interessi delineato dalle parti (l’overall assessment richiesto dalla Direttiva, e spiegato nel suo Considerando 16) sia quando si tratti di saggiare la realizzabilità del programma contrattuale così corretto nel contesto normativo considerato nel suo complesso, compresa l’integrazione suppletiva, al quale l’accordo, ricondotto alla sua fisiologia, deve essere restituito.
Di fronte ad una sorta di scheggia impazzita (Dziubak), che rischia di travolgere un percorso difficile ma lineare e fecondo con cui la Corte di giustizia ha tentato di mettere in contatto obiettivi e tecniche su cui si regge il più originale e incisivo intervento ‘correttivo’ sugli atti di autonomia privata, spetta alla dottrina, prima che alla giurisprudenza, aggiustare il tiro, ‘mettendo in contatto’, questa volta, il regime di fonte europea con il quadro normativo interno.
La Corte di giustizia non manca di ricordare, ancora nella decisione da ultimo richiamata (Banca B, del 2020) che la Direttiva 93/13 «non mira a raccomandare soluzioni uniformi per quanto concerne le conseguenze da trarre dalla dichiarazione del carattere abusivo di una clausola contrattuale». E che per questo il giudice interno deve riferirsi, nell’applicazione, al complesso del diritto interno. D’altra parte, avverte, «l’accertamento giudiziale del carattere abusivo di una clausola del genere, in linea di massima, deve produrre la conseguenza di ripristinare, per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di tale clausola» [14].
Una volta ammesso – nella prospettiva di privilegiare ove possibile il mantenimento del contratto – che a consentire la sopravvivenza dell’accordo ‘amputato’ e la realizzabilità dei suoi effetti possano essere le regole suppletive, la Corte di giustizia porta il regime europeo delle clausole vessatorie decisamente fuori dallo schema ‘ortodosso’ che ad esempio il nostro ordinamento affida al combinato disposto degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.: il modello per cui se le parti hanno espresso una volontà contraria alla legge non può farsi luogo che alla caducazione della clausola con eventuale inserzione di quella prevista da norma imperativa, mentre non vi è spazio per l’integrazione ex art. 1374 c.c., il cui (diverso) presupposto è «l’incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti» [15].
L’allontanamento da quel modello, del resto, non potrebbe essere più esplicito già nel corpo della Direttiva: il Considerando 16, non a caso, dopo avere spiegato le ragioni che, secondo l’art. 1, § 2, conducono ad escludere dalla verifica di vessatorietà clausole che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative, che si presuppone non contengano regole abusive, chiarisce che l’espressione «disposizioni legislative o regolamentari imperative … comprende anche le regole che per legge si applicano tra le parti contraenti allorché non è stato convenuto nessun altro accordo», il che, ci sembra, basti a legittimare, una volta eliminato quanto previsto in contratto perché ritenuto abusivo, il ricorso a tutte le fonti suppletive previste dalla legge, comprese quelle richiamate nelle regole di integrazione del contratto.
Privilegiato l’obiettivo di conservazione del contratto, che emerge dall’art. 6 della Direttiva e dall’acquis comunitario, e ammesso il ricorso a norme suppletive, la via per restituire il contratto alla situazione di fatto e di diritto che si sarebbe determinata senza le deroghe squilibranti imposte dal professionista va cercata nella cornice del diritto comune dei contratti e dei principi che lo ispirano nei singoli ordinamenti. Dal cortocircuito tra Kásler e Dziubak, si esce solo con un’opera di elaborazione che valorizzi il dialogo diritto europeo/diritto interno fuori da una acritica e talora infruttuosa adesione ai singoli dicta della Corte di giustizia, facendo anzi tesoro di un percorso significativo, seppur travagliato, di elaborazione compiuto proprio in sede europea.
Entro un dialogo autonomia privata/legge come quello, abbastanza inconsueto, prefigurato dal regime delle clausole vessatorie, ne risultano esaltate, sia la continuità tra contenuto ed effetti del contratto [16], sia l’inevitabile contiguità tra interpretazione e integrazione [17], secondo l’insegnamento della nostra migliore dottrina; la seconda, cioè l’integrazione, del tutto in linea con l’avversione per interventi manipolativi ribadita dai giudici di Lussemburgo, quando, rifuggendo dalla ricerca di parametri ‘esterni’, si muova nel rispetto del programma contrattuale e delle disposizioni di legge.
4. Il dibattito sulla auspicata novella del codice civile italiano e la (mancata) riflessione sul modello di contratto di stampo europeo
La questione della gestione delle ‘lacune’ determinatesi nel contratto a seguito della verifica di vessatorietà dei contenuti – ma possiamo dire, più in generale, la questione della gestione della nullità di protezione, con tutte le sue specificità – è destinata peraltro a mantenere e rafforzare la sua attualità se si considerano talune proposte di revisione del nostro codice civile, nel progetto da cui abbiamo preso le mosse. I nostri giudici potrebbero essere chiamati infatti a ‘gestire’ la questione delle lacune del contratto nella prospettiva della sopravvivenza di questo, ben oltre l’ambito delineato a livello europeo, e, per tutti i contratti, a proposito di «clausole, patti o accordi che risultino in contrasto con la tutela dei diritti della persona aventi rango costituzionale», clausole che andrebbero colpite da invalidità operante soltanto a vantaggio del titolare dei predetti diritti, ma «con salvezza quando possibile delle altre clausole del contratto». E’ questa una delle modifiche al codice civile indicate all’art. 1, lett. h), del citato disegno di legge delega per la revisione del codice civile presentato nel marzo 2019.
Il richiamo alla delega per la riforma del codice civile ci riporta all’altro dei profili da cui va considerato il tema oggetto di queste note: il moto ascendente del rapporto diritto europeo/diritto interno. L’interrogativo sul se e sul quanto di novità proveniente dal diritto europeo, quando solidamente retto da nuovi principi e strumenti, possa approdare o sia già approdato ad un tale livello di generalità da smentire, sostituendoli, principi, regole, istituti del nostro diritto comune, o anche solo da favorirne una rilettura in chiave evolutiva, intercetta a ben vedere il vero nodo sistematico determinato dalle politiche di armonizzazione.
Il processo in atto va nella seconda piuttosto che nella prima delle direzioni ora menzionate, nel senso che appaiono azzardate letture del quadro normativo ‘armonizzato’ che celebrino abbandono o obsolescenza dei cardini dell’ordinamento domestico in tema di rapporto autonomia privata/legge, mentre assai feconde sono le sollecitazioni del diritto di fonte europea per una rivisitazione di principi e regole interne.
Pur con questa precisazione, si tratta come ben sappiamo di processi di cambiamento di non poco momento, se è vero che sull’onda di queste spinte innovative si è ritenuto addirittura di mettere mano alla riforma delle principali codificazioni civili di fine Ottocento e del secolo scorso. Un appuntamento del quale si discute da tempo ormai anche da noi e che è sembrato avere una accelerazione proprio con il ricordato disegno di legge delega n. 1151 del marzo 2019.
La prima considerazione da fare al riguardo è che il modello prescelto non è quello della ‘cooptazione’ entro il codice di interi segmenti di discipline speciali, destinate a rimanere tali seppure entro una cornice che ne segnala l’acquisita stabilità, o addirittura gli elementi di generalità. La riforma proposta, nel nostro caso, intende prendere in considerazione molteplici aspetti della disciplina dei rapporti privati (personali oltre che patrimoniali) ritenuti bisognevoli di revisione, ora per una acclarata obsolescenza delle scelte originarie, ora per rispondere ad esigenze nuove emerse nella prassi, ora per sciogliere dubbi applicativi, ora per arricchire la disciplina dei rapporti privati di tecniche o rimedi di più recente elaborazione o “di importazione”: in quest’ottica si colloca una selezione di interventi mirati in tema di contratto, probabilmente ritenuti necessari o comunque maturi. Una proposta, dunque, che segue non il modello della riforma del diritto delle obbligazioni tedesco, per intenderci, ma il modello della riforma del 2016 del code civil, pur se – va detto – con ben minore organicità.
Ciò che sicuramente non può dirsi della proposta è che essa intenda delineare un disegno organico di riforma del codice civile. È da ritenere invero che l’organicità sia stata programmaticamente esclusa; l’obiettivo dichiarato, e comunque il risultato versato nelle disposizioni di delega, è infatti quello di un intervento come si è detto diffuso, ‘a macchia’, nella direzione di modifiche sparse, ritenute più mature o urgenti.
Di altro profilo di organicità dobbiamo però lamentare la mancanza: vale a dire quello, imprescindibile, che dovrebbe accompagnare e supportare i singoli cambiamenti normativi quando ad essi si ritenga di dare il rango sistematico proprio della novella codicistica. L’innesto nell’impianto del codice non può essere meramente topografico e reclama raccordi di natura sistematica, di cui in verità il nostro legislatore ha cercato di farsi carico persino nella prima e più convulsa stagione di implementazione delle Direttive comunitarie (con l’inserimento nel codice delle regole in tema di clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, prima, e delle norme in materia di garanzia nella vendita d beni di consumo, poi) [18].
Non stupisce che nella materia del contratto le proposte revisioni abbiano una diretta matrice europea; e in questo senso non dovrebbe sorprendere che la scelta sia caduta, innanzitutto, sulla nullità di protezione. Sorprende – o forse sconcerta – semmai l’approccio al rimedio.
L’intervento in questo caso è invero assai ‘mirato’ e a dir poco parziale, poiché al legislatore delegato si chiede di emanare norme volte a [art. 1, comma 1, lett. h)] «prevedere l’invalidità delle clausole, dei patti o degli accordi che risultino in contrasto con la tutela dei diritti della persona aventi rango costituzionale, operante soltanto a vantaggio del titolare dei predetti diritti, con salvezza quando possibile delle altre clausole del contratto».
Innovazione sicuramente meritevole di apprezzamento ma a dir poco azzardata.Non solo per la estrema (e forse normativamente ingovernabile) ampiezza e vaghezza dei contenuti contrattuali che potrebbero impingere nella lesione di diritti della persona di rango costituzionale, ambito che sconsiglia di procedere con una delimitazione affidata a una legge ordinaria ma rende al contempo pericoloso l’affidamento, almeno nella verifica dei contenuti contrattuali, alla discrezionalità del giudice.
Ciò che lascia perplessi e che preoccupa non poco dal punto di vista sistematico è soprattutto la scelta di un così significativo ampliamento dell’utilizzo di un rimedio – la nullità di protezione – di cui non può certo dirsi ‘assestato’ l’innesto nel diritto interno.
Il legislatore domestico non è certo nuovo a interventi che prendono a prestito quel modello di nullità esportandolo fuori dall’ambito direttamente inciso dalle fonti europee: si pensi alle norme di tutela degli acquirenti di immobili da costruire (d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 e successive modificazioni, artt. 2, comma 1 e 4, comma 1). Stupisce però che la medesima disinvoltura nel ‘maneggiare’ ed anzi valorizzare questo rimedio si presenti nel contesto di un intervento non più circoscritto a una disciplina speciale bensì ‘in principio’ di portata generale e sistematica quale la riforma del codice civile. A distanza di anni dal primo impatto con la nullità speciale di stampo europeo (e dunque dalla prima stagione cui tutto sommato apparteneva il d.lgs. n. 122/2005/), e nel contesto di un quadro normativo stabile pur se non pienamente definito – come dimostrano le questioni applicative sopra ricordate – la delega chiede al nostro legislatore di arricchire la disciplina generale del contratto consegnata al codice civile con una regola di controllo e limite all’autonomia privata (per tutti i contratti) affidata ad un rimedio che però, almeno nell’impianto codicistico, è ancora un oggetto misterioso e sconosciuto.
La novella proposta arricchirebbe il ventaglio dei rimedi caducatori di un paradigma solo evocato, quello della nullità di protezione, disciplinato da (più) regole speciali e di certo non immediatamente coerente con il sistema delle nullità negoziali di stampo codicistico. D’altra parte, dovrebbe introdurre un meccanismo di controllo sulle clausole vessatorie, di tutti i contratti, diverso da quello di cui agli artt. 1341 ss. c.c., senza con esso coordinarsi.
L’obiettivo, di sicuro in astratto apprezzabile, di veicolare la tutela dei diritti della persona per il tramite di un meccanismo di controllo e di ‘correzione’ di tutte le manifestazioni abusive di autonomia privata a contenuto patrimoniale abbastanza incisivo come quello delineato dal regime delle clausole vessatorie e relativa nullità di protezione, non compensa l’esito – in verità paradossale – di mantenere i contratti (se non conclusi tra un professionista e un consumatore) ancora fuori da tale regime quando si tratti di controllarne invece il rimanente contenuto e segnatamente la distribuzione di diritti ed obblighi tra le parti. Alla regola generale che estende il modello europeo di controllo sul contenuto del contratto da ritenere ‘vessatorio’ quando siano in gioco i diritti della persona, fa da contrappunto la persistenza di un regime duale che, quando si tratti di controllare il contenuto normativo del contratto – lo squilibrio di diritti ed obblighi di cui all’art. 33, comma 1, cod. cons. – mantiene limitato al solo segmento dei contratti di consumo l’uso di tale più incisivo modello (supportato dalla nullità funzionale di protezione) – e lascia tutti gli altri contratti al riparo del diverso e più blando regime di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c.
In più, come si è detto, si fa irrompere nel corpo del codice un rimedio di certo diverso dalla nullità disciplinata negli artt. 1418 ss., la cui coerenza con il regime codicistico della nullità (si pensi alle regole di cui agli artt. 1421 e 1419) rimane tutta da definire; operazione di raccordo che, a tacere d’altro, il legislatore delegato non potrebbe neppure tentare, pena il superamento dei limiti della delega.
Torna ad affacciarsi, con tutte le sue pericolose conseguenze, l’approccio step by step. Il disegno riformatore apre, forse suo malgrado, ad una quanto mai opportuna ed auspicabile estensione del modello europeo di controllo sui contenuti vessatori a tutti i contratti (che proprio per questo avrebbe potuto delinearsi in modo più compiuto prevedendo innanzitutto la riscrittura degli artt. 1341 ss.). E tuttavia sorvola sull’appuntamento più atteso e necessario, ‘mettere in contatto’ o meglio riallineare, individuandone margini di compatibilità o tratti di specialità, nullità di protezione e categoria della nullità. Una conferma non rassicurante, del resto, della confusione e degli equivoci palesati dal dibattito dottrinale.
L’altra direzione di riforma, ça va sans dire, è quella che prospetta l’introduzione (o meglio esplicita la presenza) di un obbligo di informazione a carico delle parti contraenti, chiedendo al legislatore delegato [lett. f)] di «prevedere, nel corso delle trattative per la conclusione del contratto, che la parte che sia a conoscenza di un’informazione di rilievo determinante per il consenso sia inderogabilmente tenuta a comunicarla all’altra parte quando questa la ignori e abbia fatto necessario affidamento sulla lealtà della controparte; sono escluse le informazioni concernenti il valore dell’oggetto del contratto».
L’ obiettivo, dichiarato nella relazione di accompagnamento al disegno di legge delega, è quello di sopperire ad una lacuna che le aperture giurisprudenziali in tema di buona fede nelle trattative non avrebbero compiutamente colmato. La proposta è allora quella di ‘positivizzare’ se non un elenco dettagliato di informazioni da fornire all’altra parte, secondo la scelta prevalente a livello europeo, almeno l’obbligo di informazione – per gli elementi ‘di rilievo’. Scelta in sé da condividere, ma non per questo più rassicurante.
Anche in questo caso la proposta nulla dice circa il raccordo con le due norme codicistiche pure ricordate, gli artt. 1337 e 1338, un eventuale aggiustamento delle quali peraltro non sfuggirebbe alla censura di superare i limiti della delega.
Un tale raccordo è da ritenersi al contrario essenziale. È grazie proprio al dettato dell’art. 1337 c.c., ma soprattutto alla lettura che ne ha dato la nostra giurisprudenza, che l’obbligo di informazione è ‘consegnato’ alla clausola generale di buona fede (peraltro richiamata sotto forma di «lealtà» nella formula sopra ricordata della norma di delega); clausola di buona fede che francamente appare ancora l’unica idonea a consentire all’obbligo di informazione, anche ove così ‘positivizzato’, di reagire alle mille variabili delle manifestazioni dell’autonomia privata entro cui si delinea il rilievo in concreto delle informazioni dovute e si specifica e individualizza il livello di affidamento della singola controparte, unico parametro idoneo a misurare l’adeguatezza dell’informazione.
Quello degli obblighi di informazione precontrattuale è senza dubbio un esempio ‘virtuoso’ di contaminazione tra diritto interno e diritto europeo, determinatosi spontaneamente e proprio grazie alle aperture consentite dalla clausola di buona fede, come interpretata dai nostri giudici. Non condividendo le considerazioni consegnate alla Relazione al disegno di legge delega – secondo cui l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 1337, come degli artt. 1439 e 1440 del codice non colpirebbe la ‘reticenza’ – è legittimo chiedersi quale sia il guadagno, in termini di protezione del contraente meno informato, di una tale positivizzazione dell’obbligo di informazione. Per realizzare l’obiettivo, dichiarato, di rafforzare la tutela già assicurata dall’art. 1337 c.c., tale obbligo dovrebbe comunque rimanere supportato da una lettura ‘aperta’ alla stregua della clausola di buona fede; ma forse dovrebbe anche trovare un nuovo e più incisivo supporto sul piano rimediale.
E invece, come non si è mancato di notare in alcuni commenti a caldo del disegno di legge delega, non sembra profilarsi un sicuro guadagno da questo versante.
Invero, nel testo della norma di delega non si fa cenno a un rimedio invalidante in caso di violazione dell’obbligo di informazione. L’inderogabilità di tale obbligo, espressamente richiesta nella norma di delega, non appare in sé sufficiente a prospettare – oltre che l’ovvia nullità di patti in deroga – una ricaduta della sua violazione sulla validità dell’intero contratto. L’obbligo sembrerebbe allora mantenere la sua collocazione tradizionale nell’ambito della responsabilità precontrattuale.
Il condizionale è però d’obbligo ove si prenda in considerazione non tanto la diversa soluzione adombrata a proposito di pratiche commerciali scorrette quanto la spiegazione a questo riguardo fornita dalla Relazione di accompagnamento. Ai sensi della lett. g) dell’art. 1 il legislatore delegato dovrà “disciplinare i casi in cui pratiche negoziali ingannevoli, aggressive o comunque scorrette, o circostanze quali la distanza tra le parti, la sorpresa, la situazione di dipendenza di una parte rispetto all’altra determinano l’invalidità del contratto concluso”. La delega, e lo spiega la Relazione, vuole intestarsi il merito, finalmente, di ‘saltare il fosso’ che dovrebbe separare regole di comportamento e regole di validità, specie nel caso di pratiche commerciali scorrette, dove l’utilizzo di rimedi invalidanti non solo è stato da qualche parte auspicato in dottrina ma è stato con un certo successo sperimentato da altri legislatori europei.[19]
Apprezzata questa scelta, è inevitabile chiedersi se le medesime articolate considerazioni che la Relazione spende per supportare la sanzione della nullità radicale del contratto condizionato da pratiche commerciali scorrette non debbano o possano valere anche per la violazione dell’obbligo di informazione, le cui manifestazioni, in concreto, ben possono attingere ai livelli prefigurati nel catalogo di pratiche commerciali (ingannevoli) [20] e qui richiamati. O se invece proprio le argomentazioni che ne additano come possibile l’utilizzo segnatamente in caso di pratiche commerciali scorrette non consentirebbero al legislatore delegato di estendere il rimedio invalidante anche alla violazione degli obblighi di informazione. Il dubbio non trova soluzione nel disegno di legge delega. Dove anzi si profila un altro interrogativo: se cioè, considerati gli elementi che dovrebbero accompagnare l’uso di pratiche scorrette (pratiche aggressive o comunque scorrette, o circostanze quali la distanza tra le parti, la sorpresa, la situazione di dipendenza di una parte rispetto all’altra) affinché possa discenderne la nullità dell’intero contratto, il ricorso a tale rimedio sia ora ammesso solo per le pratiche commerciali in qualche modo ‘qualificate’ per la loro attitudine ad alterare la volontà del consumatore, sicché la sua applicazione torni in qualche modo ad impingere in una indagine in concreto sulla formazione della volontà del consumatore così ridimensionandosi il guadagno rispetto al regime di invalidità per vizi del volere [21].
Altrettanto problematica la proposta di inserire nella disciplina del contratto un diritto alla rinegoziazione per le parti del contratto che sia divenuto eccessivamente oneroso per cause eccezionali e imprevedibili. Il legislatore delegato dovrà i) «prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti».
La novella consacrerebbe aperture già in qualche modo prospettate in dottrina alla stregua dall’utilizzo del canone di buona fede (nell’esecuzione del contratto), da cui discenderebbe per le parti un obbligo di rinegoziazione, peraltro sovente esplicitato nella prassi dall’uso di clausole negoziali abbastanza consolidate. Introdurre un diritto alla rinegoziazione di certo consentirebbe di cancellare con un tratto di penna le (comprensibili) perplessità di dottrina e giurisprudenza nell’ammettere l’ingresso (del suo dirimpettaio e cioè) di un obbligo veicolato dalla clausola di buona fede.
Ravvisata l’esigenza di dotare sempre e comunque l’incontro delle volontà private che danno vita all’accordo di una seconda chance, a fronte di eventi straordinari e imprevedibili, l’obbligo di rinegoziazione avrebbe potuto essere consegnato ad una norma inderogabile, con l’eventuale supporto della inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della relativa clausola. Il legislatore della delega, forse consapevole della dirompente novità di un obbligo a contrarre, seppure in seconda battuta (che renderebbe le parti, pur liberamente giunte al primo accordo, vincolate a rinnovarlo per mantenerlo in vita con le necessarie modifiche), sembra aver escluso un simile regime; il che non può che mantenere (il diritto e) l’obbligo di rinegoziazione entro il perimetro che lo ha fin qui connotato nella prassi, quello del contenuto del vincolo obbligatorio e del comportamento dovuto dalle parti (da valutare alla stregua del canone di buona fede), supportato dunque dal regime della responsabilità contrattuale.
L’adozione della prospettiva del diritto alla rinegoziazione prelude però a palesare la vera novità della regola: il contenuto del diritto non è infatti limitato alla sola pretesa verso controparte di giungere sempre in via convenzionale ad una revisione che si avvicini all’equilibrio originario compromesso da eventi eccezionali e imprevedibili; meglio sarebbe parlare infatti di un diritto all’adeguamento del contratto, poiché in caso di mancato accordo (rinegoziato), a ciascuna delle parti si riconosce il diritto di chiedere al giudice l’adeguamento delle condizioni contrattuali «in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti».
L’obiettivo non è solo quello di superare le tante ambiguità rivelate nella prassi dalla tecnica che consente di ‘modificare equamente’ le condizioni del contratto (ex art. 1467, ult. comma, c.c.) utilizzata dal nostro codice a proposito di recupero del contratto divenuto eccessivamente oneroso.
Per quanto infelice nella formulazione, la tecnica di ‘recupero’ del contratto risolubile, nel codice, rimane perfettamente in linea con un modello di autoregolazione dei rapporti privati rispetto al quale non è dato sindacare «l’equilibrio economico delle prestazioni che è profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale» [22], sicché il giudice può essere chiamato, su istanza della parte che si ritiene pregiudicata, solo ad accertare eventuali eventi esterni che abbiano seriamente compromesso l’originario equilibrio autonomamente determinato dai contraenti, nonché la rilevanza di siffatta alterazione, onde sciogliere il vincolo (con la risoluzione); mentre rimane invece sempre e comunque appannaggio delle scelte private qualsivoglia correzione che elimini in qualche modo lo squilibrio, mediante una sorta di rinegoziazione in itinere proposta da una parte e accettata da quella interessata alla risoluzione, che porti il giudice a negare il rimedio.
La prospettata riforma vorrebbe invece rimettere al giudice, una volta fallita la revisione in via convenzionale, il compito di ripristinare «la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta tra le parti»: intervento che presuppone, a monte, la corretta individuazione della originaria proporzione – in concreto e nel contesto di complessi rapporti economici di durata – unico argine sicuro ad un intervento discrezionale. Il rischio, neppure tanto remoto, è invero che si chieda al giudice di divenire, suo malgrado, il terzo contraente.
Ancora una volta la delega intende meritoriamente dialogare con sollecitazioni e suggestioni del dibattito sul contratto – questa volta in tema di giustizia contrattuale – alimentate anche nel contesto degli interventi di fonte europea; dimenticando però il dialogo, necessario, con il sistema interno. In discussione è, ancora una volta, non l’apprezzabilità in astratto di regole che aggiornino la disciplina dei rapporti privati allineandola a istanze emergenti dalla prassi e/o avviandola a cambiamenti ritenuti ormai maturi, bensì il disimpegno sul versante della ricerca di coerenza e compatibilità con il complessivo quadro di riferimento interno. La delega, con la proposta in questione, entra per così dire a gamba tesa nel sistema che regge il rapporto legge/autonomia privata nel nostro ordinamento, con l’obiettivo di avviarlo surrettiziamente al rispetto di un principio di giustizia contrattuale (imposto per via giudiziale), che allo stato vi è estraneo [23]. Così pretendendo di inserire un elemento di novità che, fuori da ogni più complessiva rivisitazione del modello di contratto, appare destinato a portare nel sistema confusione e ambiguità piuttosto che innovazione.
La disciplina generale del contratto è guardiana di quel modello ma soprattutto del disegno coerente che lo supporta: proprio perché affidata a principi e regole generali, essa è sufficientemente flessibile da preludere programmaticamente a specificazioni, aggiustamenti, aggiornamenti, che in quei principi però si riconoscano. Testare il nuovo rispetto alla tenuta di quei principi – almeno finché non sia in gioco l’abbandono di quel modello di contratto, ma con opera ricostruttiva di ben altro spessore e solidità – non è difesa ad oltranza della tradizione e avversione di principio alla imprescindibile evoluzione del sistema; bensì unico indispensabile antidoto contro improvvide quanto precarie fughe in avanti.
*Già pubblicato in Studi in onore di A.Garilli a cura di A.Bellavista e M.Marinelli, vol.I, Torino, 2023.
[1] AA.VV., Contratto, ED, I tematici,a cura di G. D’Amico,Milano, 2021.
[2] R. Alessi, La disciplina generale del contratto, 4 ed. , Torino, 2023, che a tale sforzo ricostruttivo ha inteso dare un organico contributo
[3] Cfr. Corte giust. 4 giugno 2009, causa C-243/08, Pannon e21 febbraio 2013, causa C-462/11, Banif Plus Bank Zrt.
[4] Sia consentito rinviare alle considerazioni critiche sul dibattito aperto dalle due pronunce e alla proposta ricostruttiva di R. Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice: alcuni punti fermi dopo le sentenze Jörös e Asbeek Brusse, www.jus civile.it, 2013, 388 ss.
[5] Sanabilità che sarebbe qui rintracciabile (e da ritenere compatibile) solo per implicito nel paradigma in questione. Altra cosa è invero quando «l’interprete si deve confrontare con [una] realtà normativa che non si può eludere per la sua chiarezza terminologica» (cfr. Cass. 28 aprile 2017, n. 10498, DJ, a proposito della norma tributaria di seguito richiamata); e cioè quando è la legge, talora, e certamente in via eccezionale, a consentire un ‘recupero’ di manifestazioni di autonomia privata nulli, sempre però nel quadro di un utilizzo per così dire meno ortodosso della sanzione di nullità (sempre testuale), posta a presidio non più della liceità o compiutezza strutturale del contratto bensì di una regolarità ab externo. Si veda il caso, considerato nella su menzionata decisione della suprema Corte, della nullità comminata per la mancata registrazione dei contratti di locazione di immobili dall’art. 1, comma 346 della l. n. 311/2004, sanabile ex tunc se la registrazione interviene entro i trenta giorni dalla conclusione; o il caso della nullità per mancata allegazione o dichiarazione di regolarità urbanistica che colpisce gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali ai sensi degli artt. 40, comma 2, l. n. 47/1985 e 46, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, dei quali la legge ammette la ‘conferma’ successiva (con la menzione o allegazione richiesta). Come si è opportunamente osservato «l’intensità» dell’intervento sull’autonomia contrattuale da parte della norma inderogabile «vuoi nel senso dell’ampiezza delle prescrizioni legali, vuoi nei rapporti con l’autonomia privata, ha subìto nel tempo significative variazioni. Infatti, da un canto, le tutele assicurate dalla legge possono avere contenuti più o meno pervasivi; dall’altro la norma legale può cedere spazi di regolazione, e quindi potere derogatorio/sostitutivo o suppletivo/integrativo, alle parti»: A. Garilli, Il rapporto tra le fonti nel nuovo diritto del lavoro, DML, 2017, 408.
[6] Lo conferma la già rilevata tendenza verso un utilizzo della tecnica di intervento fuori dall’originario ambito della contrattazione di consumo.
[7] Puntualizzazione necessaria e non di poco conto alla luce del disposto dell’art. 3, § 2,«Il fatto che taluni elementi di una clausola o che una clausola isolata siano stati oggetto di negoziato individuale non esclude l’applicazione del presente articolo alla parte restante di un contratto, qualora una valutazione globale porti alla conclusione che si tratta comunque di un contratto di adesione».
[8] Ci riferiamo al guadagno ricostruttivo che emerge dall’approccio al controllo di liceità/meritevolezza della causa del contratto come delineato in sede giurisprudenziale a proposito di (qualificazione e regime dei) contratti di assicurazione sulla responsabilità civile corredati da clausole claims made: cfr. Cass., S.U., 24 settembre 2018, n. 22437, DJ.
[9] Sono noti i dubbi avanzati in dottrina (soprattutto tra i commentatori italiani) sull’ammissibilità di un ricorso alle norme suppletive a ridosso delle (prime) decisioni con cui la Corte di giustizia è venuta affermando il principio che esclude ogni potere del giudice, una volta accertata la vessatorietà di una clausola, di mantenerla in vita pur se rivista o rimaneggiata, come nel caso di una clausola penale vessatoria che si lasci sopravvivere riducendo la misura della penale (su quelle pronunce e le questioni solleviate v. supra e note 3 e 4).
[10] La caducazione della clausola vessatoria e la conseguente nullità dell’intero contratto avrebbero nel caso di specie bloccato la speciale procedura esecutiva prevista dalla legge interna per i mutui immobiliari (più favorevole al mutuatario, in quanto non esercitabile sull’abitazione), così esponendolo comunque alla più rigorosa procedura esecutiva ordinaria per il recupero del credito.
[11] Per una sintesi dei profili di criticità, vedi il commento di A. Stilo, Usura e interessi di mora: secondo le Sezioni Unite è questione di simmetria, Milano, 2020, 647 ss.
[12] Ma anche dei principi fondamentali del Trattato: vedi F. Esposito, Dziubak is a fundamental wrong decision:superficial reasoning,disrespectful of National Courts, lowers the level of consumer protection, European Review of Contract Law, Berlino, 2020.
[13] Cfr. Corte giust. 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, Gutiérrez Naranjo; C-307/15, Palacios Martínes, e C-308/15, Irles López.
[14] Cfr. Corte giust. 21 dicembre 2016, cit., (corsivo nostro).
[15] Vedi ancora, fra le tante, Cass. 21 marzo 2014, n. 6747, DJ.
[16] «Se consideriamo il contratto come regolamento» – insegna Sacco – «non c’è posto per la distinzione tra contenuto ed effetto»: R. Sacco, L’integrazione. Nozioni generali, in R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, Torino, 2016, 1379.
[17] «Il fenomeno dell’integrazione, nei termini previsti dall’art. 1374 c.c., altro non è che una sorta di proseguimento di un unico itinerario interpretativo che se ruota intorno all’art. 1362 c.c., ha i suoi punti intermedi più qualificanti negli artt. 1366, 1368, 1369 c.c., ma che trova il suo inizio già nell’art. 1340 e il suo approdo logico e naturale appunto nell’art. 1374 c.c.»: G.B. Ferri, Il negozio giuridico, Padova, 2004, 256.
[18] Ci riferiamo agli opportuni adattamenti sistematici che accompagnarono l’ originaria scelta di recepimento tramite una novella codicistica: al tentativo di segnalare il riferimento al ‘sottotipo’ vendita di beni mobili di consumo nel caso della Direttiva 1999/44/CE sulla garanzia nella vendita di beni di consumo mediante la collocazione agli artt. 1519 bis ss. c.c.; ma anche al prudente utilizzo della nozione di «inefficacia» in sede di primo recepimento della Direttiva 93/13 (art. 1469 bis c.c.) con il proposito di preservarne la continuità con il regime codicistico di cui agli artt. 1341 ss.
[19] Ove approvata, con l’attuazione della delega, simile innovazione dovrebbe ora coordinarsi con l’implementazione della Direttiva (UE)2019/2161 del 27 novembre 2019, nella parte in cui modifica la Direttiva 2005/29/CE introducendovi l’art.11 bis , in forza del quale ai consumatori lesi da pratiche commerciali sleali deve comunque essere riconosciuto l’accesso a rimedi proporzionati ed effettvi, compreso il risarcimento del danno subito e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.
[20] Basta scorrere al riguardo la definizione di pratica commerciale ingannevole e l’elenco nell’art. 21 cod. cons.
[21] V., fra gli altri, R. Alessi, Politiche antitrust e diritti dei consumatori in Italia dopo le recenti riforme, www.iuscivile.it, 2013, 46-63.
[22] Lo continua a ribadire la nostra Suprema Corte; da ultimo in Cass., S.U., 24 settembre 2018, n. 22437, DJ.
[23] V. per tutti, le efficaci considerazioni di G. D’Amico, Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, EuropaDP,2019, 1 ss.