1.- La tragedia greca e la comunicazione.

La tragedia è uno specchio che riflette l’uomo, nel suo essere -come diceva Aristotele- animale sociale; ogni diversa umanità, ogni diversa società trova in essa rappresentati, se ha la volontà di fermarsi a guardare con occhio critico, le sue vicende, le sue pecche e le conseguenze degli errori che commette.  Dalla tragedia greca hanno preso spunto illustri studiosi, primo tra tutti Sigmund Freud,  per spiegare il comportamento dell’uomo e le sue deviazioni. Ma la tragedia non è solo la storia individuale  dell’eroe e del suo mito, è anche e soprattutto  una vicenda corale che descrive le pulsioni e i drammi di una società organizzata; e nessuna società può organizzarsi senza la legge, e senza   scegliere a quali valori la legge deve ispirarsi.

Secondo lo storico Yuval Noha Hararai,  autore del libro “Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità” la ragione per la quale l’Homo Sapiens, nonostante la sua debolezza fisica, è sopravvissuto in un ambiente ostile riuscendo anche a  dominarlo, è la   capacità di  cooperare con i suoi simili,  grazie a una forma di comunicazione più evoluta di quella degli altri esseri del mondo animale e anche  -probabilmente-  di quella del suo  ben più nerboruto cugino di Neanderthal.  La cooperazione sociale è considerata la chiave per la  sopravvivenza e la riproduzione,  osservando che  mentre  molti animali  sono capaci di comunicare e cooperare  solo intorno a fatti concreti  della realtà (ad esempio avvisare se c’è un predatore in vista) il Sapiens è l’unico essere vivente capace di comunicare e di trasmettere informazioni su cose che non hanno esistenza materiale, e che costituiscono “miti condivisi”. Questi miti conferiscono una  capacità senza precedenti di cooperare in maniera flessibile in comunità formate da moltissimi individui,  che si legano tra di loro non in virtù di parentela o amicizia ma perché condividono un mito. I miti  rappresentano a loro volta i  valori comuni,  ad esempio i valori religiosi,  il senso di appartenenza alla comunità,  alla famiglia,   la fiducia nelle leggi e nella giustizia.

Le tragedie greche  ci narrano di questi miti e narrandoli hanno dato un linguaggio alle emozioni umane,  traducendo in parola le pulsioni individuali e collettive, nonché  i conflitti familiari e sociali  dei loro protagonisti,   e ne hanno reso possibile l’analisi e quindi la disciplina. Ogni storia,  dopo aver raggiunto l’acme, si avvia verso una soluzione che rappresenta  anche il tentativo di individuare  una  regola che disciplini l’irrazionale agitarsi delle passioni: al delitto segue il castigo,   chi detiene il potere deve rendere conto alla comunità organizzata,  all’interno della famiglia deve riportarsi ordine e rinsaldare i legami. Molti sono  quindi per il giurista  i motivi di attrazione  verso la tragedia greca e i suoi miti ed  infatti della  tragedia greca e dei suoi rapporti con la giustizia hanno scritto illustri giuristi (si veda ad esempio  Giustizia  e mito di  Marta Cartabia e Luciano Violante).

Le tragedie greche si ispirano ai  miti,  più umani che religiosi, talvolta nella loro versione alternativa (Ifigenia in Tauride, Elena)  e  quasi sempre  pongono l’eroe al centro di un conflitto familiare e sociale. Non si tratta di vicende epiche, dove l’eroe deve solo essere se stesso, un valoroso che sfida e sconfigge  gli  avversari, siano essi uomini, dei o eventi naturali, ma un luogo dove egli, pur se ricoperto di gloria, deve fare i conti con il contesto sociale ove vive: la famiglia e  la polis. In questa sfida spesso l’eroe soccombe, ma il coro osserva, registra l’evento e ne tramanda la memoria, e così fanno gli spettatori.

Aristotele, nella Poetica, scrive che la tragedia “mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”.   La tragedia indica quindi un percorso di catarsi, intesa non in senso mistico, ma come razionalizzazione delle passioni: questo è il grande passo compiuto dalla civiltà greca, che tramite le sue produzioni intellettuali, la poesia, il teatro, la filosofia, la legislazione e l’istituzione dei tribunali, costruisce l’uomo moderno, razionale, che   pone sé stesso quale misura di tutte le cose.

Attraverso la tragedia e il mito si aprono contemporaneamente i canali della comunicazione  emotiva e  della comunicazione razionale, si fondono insieme intrattenimento e contenuti; un format che ancora attrae il pubblico, dopo più di 2.500 anni, ma che i comunicatori contemporanei sembrano non essere in grado di replicare. La comunicazione, oggi, tende ad essere polarizzata: da un lato la comunicazione emotiva, di puro intrattenimento e senza contenuti,  disprezzata dagli intellettuali  ma gradita dal grande pubblico; dall’altra la comunicazione esclusivamente razionale, concentrata su contenuti  di spessore culturale e scientifico e che, in linea di massima, annoia irrimediabilmente i pochi che le si avvicinano.   

La  capacità di considerare l’uomo nella sua interezza sembra perdersi nel desiderio di frazionare, dividere, selezionare e non vedere ovvero cancellare  ciò che appare sgradito.

2.-   Il mito di Aiace

Aiace, protagonista della omonima tragedia di Sofocle, è il  guerriero più   forte,  dopo Achille, dell’armata achea  accampata sotto le mura di Troia,  e rivendica, dopo la morte  del  cugino, il suo ruolo di primo eroe,  chiedendo l’assegnazione delle mitiche armi forgiate da Efesto, il dio fabbro.

Dal suo punto di vista, l’accoglimento della richiesta  è scontato. Per Aiace il  coraggio e il protagonismo in battaglia, l’energia  e la perseveranza   che lo hanno portato ad essere sempre presente-anche quando Achille si è ritirato- ed a brigare per assicurarsi l’epico  duello con Ettore,   pur se non sarebbe stato affar suo, sono  valori primari ed  egli è certo che la sua devozione a questi valori sarà adeguatamente ricompensata.

Il suo personaggio ricorda -e neanche troppo alla lontana- Gondrano,  l’instancabile cavallo della “Fattoria degli animali” di  George Orwell e, esattamente come il cavallo, farà una brutta fine.  Ricorda anche, per certi versi, Paul Bäumer,   il protagonista del romanzo di Erich Maria Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”  che, drogato di chiacchere sull’onore e sull’orgoglio  nazionale da educatori che “tengono le loro convinzioni  nel taschino del panciotto pronti a distribuirne un po’ ora per ora” si arruola volontario per la guerra, come tutti i suoi compagni di scuola, e tutti andranno incontro a una tragica fine. Anche il nostro Aiace, il cui motto è “chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire” ha  in  testa  grandi idee sulla necessità di dimostrare il  valore in battaglia, di essere all’altezza del padre,  della stirpe  e della patria; a parte questi pensieri, poco altro.

Le armi  di Achille sono invece assegnate a Odisseo, l’eroe della intelligenza e della astuzia perché, interrogati i prigionieri troiani, risulterà che il guerriero che più ha danneggiato gli avversari non è il valoroso Aiace ma il callido Odisseo, che non a caso, sarà l’artefice della caduta di Troia, mediante lo stratagemma del cavallo.  Secondo Teucro, fratellastro di Aiace, il  giudizio è stato truccato e – conoscendo Odisseo- neppure questo ci stupirebbe troppo,  ma il giudizio è coerente con il pensiero di Agamennone: la comunità non si affida non ai colossi dalle spalle larghe, ma agli uomini di senno, perché solo costoro sono capaci di governare.

Aiace reagisce nell’unico modo che conosce, la  via della violenza,  e progetta di uccidere Agamennone e Menelao, di catturare Odisseo e di torturarlo fino alla morte. E’ già in armi sulla soglia della tenda degli Atridi   ed ha  alzato il braccio,  quando interviene la dea Atena per sventare l’attacco.

Dal momento che gli dei greci, oltre che falsi e bugiardi,  rissosi, impiccioni e partigiani,  sono anche in possesso di un certo grado di malefico umorismo, la dea non si limita a stordire Aiace o a trasformarlo in un  albero, ma lo rovina complementarmente, togliendogli ogni dignità. Aiace, sotto l’effetto dell’incantesimo,  perde il contatto con la realtà e macella un gregge di buoi, credendo che siano i suoi odiati nemici. Qui la dea, che è anche un tantino vanesia, spera che Odisseo la lodi e la ammiri  per l’atto che rivela tutta la sua potenza; invece,  Odisseo è  al tempo stesso impietosito ed atterrito e non ha timore di manifestarlo,  dicendo “quello che è successo ad Aiace poteva capitare a me”. Odisseo si rivela, oltre che eroe della intelligenza, anche eroe della solidarietà, ruolo che nel corso della tragedia  assumerà ulteriormente  e con maggiore forza quando reclamerà la sepoltura per le spoglie del suo ex avversario, dicendo “anche io un giorno voglio essere sepolto. Così il cinico Odisseo si trasforma, ai nostri occhi di lettori del terzo millennio,  in Ulisse, l’eroe riveduto e corretto dalla cultura latina, ma soprattutto da  Dante: un uomo che ha sete di conoscenza, libertà, ma anche valori radicati e  si  rifiuta di vivere come un bruto,   preferendo seguire “virtute e canoscenza”. 

Ulisse, perché da questo momento  è più naturale chiamarlo così,  ci rivela  il senso profondo della solidarietà umana, che non è buonismo e non è ingenua   fiducia  nell’amore universale, ma rendersi conto, tramite l’intelligenza, la capacità di ragionare sul futuro e di progettare strategie a lungo termine, che gli uomini sono indissolubilmente legati tra di loro da interessi comuni e che difendere l’interesse del debole quando si  si è forti, significa difendere il proprio stesso  interesse, in previsione  della possibile o probabile, o ancora certa,  futura propria debolezza.

Tornando alla trama della tragedia, Aiace, rinsavito dopo il fattaccio,  soffre per la pubblica umiliazione e, nonostante le suppliche della sua schiava-concubina, Tecmessa,  si suicida. Si suicida perché non ha altra via d’uscita: ha perso la propria dignità si è esposto a ridicolo, non ha saputo essere all’altezza del padre, il mitico Telamone compagno d’avventure di Eracle, e infine, verrebbe  probabilmente giustiziato o messo al bando perché si è reso colpevole di tentato regicidio e quindi di alto tradimento.

Si suicida anche perché si sente vittima di una ingiustizia,  dato che  le regole semplici ma chiare del suo mondo, le quali dicono che il valore  guerriero  rende grati i superiori e benevolenti gli dei, sono state stravolte.

Questo è un passaggio straordinariamente attuale della tragedia, che ci riporta alla mente la necessità di far percepire la giustizia -all’intera collettività ma soprattutto a chi subisce un processo-  come un sistema lineare e  trasparente che non opera inaccettabili discriminazioni tra potenti e deboli,  e la pena -ove inflitta- come un percorso verso  una rinnovata inclusione sociale e non come una capitis  deminutio maxima che toglie all’uomo la sua dignità.  Aiace può accettare la privazione della vita, ed infatti se la toglie da sé, ma non può accettare la privazione della dignità;  se la pena diventa una privazione della dignità, non deve sorprendere che  chi la subisce cerchi una via di fuga nel suicidio,   come accade ancora oggi nelle carceri italiane.

Si dice, generalmente,  che Aiace è l’uomo del mondo antico e Ulisse l’uomo del moderno, ma non è  del tutto vero.

Aiace è l’uomo che incarna i valori della società fondata sui rapporti  di forza e quindi sui rapporti necessariamente asimmetrici, dove non c’è cooperazione ma solo subordinazione gerarchica. Aiace è subordinato a  suo padre  e ad Agamennone, Tecmessa e Teucro sono subordinati ad Aiace e tutti quanti sono subordinati alle divinità che decidono a capriccio del loro destino.

Ulisse invece è l’uomo della società fondata sul pensiero razionale, sulla intelligenza, sulla strategia a lungo termine, sul perseguimento della utilitas. Quella utilitas che era essenziale per i nostri  antenati romani: quando si suicidavano per non essere processati e giustiziati lo facevano per salvare la dignitas, ma anche per salvare il patrimonio – che diversamente sarebbe stato confiscato – e trasmetterlo agli eredi.

Ulisse è l’uomo dei rapporti solidali, perché consapevole che se oggi è vincitore, domani potrebbe essere vinto e si propone di affermare e  fare rispettare  regole  che un domani potrebbero essere applicate anche a suo beneficio. Prima ancora di Jon Elster e di Gustavo Zagrebelsky, Ulisse aveva intuito che  quando si è sobri, occorre darsi delle regole per il momento in cui saremo ubriachi.

Ulisse è un uomo aperto  al dialogo, al confronto, alla ricerca dei valori comuni e in definitiva alla cooperazione, mentre Aiace è un uomo semplice che  crede in ciò che gli hanno detto i suoi educatori con le  convinzioni  nel taschino del panciotto; accetta acriticamente la supremazia di suo padre e del suo re e impone la sua  superiorità alla  compagna, al fratello più piccolo e ai suoi soldati.

3.- Le relazioni familiari asimmetriche

La differenza tra Aiace e Ulisse si avverte ove si osservino i due eroi nella loro dimensione privata, nelle loro relazioni familiari.

Aiace  ha una compagna, Tecmessa,  una giovane di buona famiglia, da lui catturata come schiava (“preda guerriera, da letto” dice il coro), dopo avere distrutto e saccheggiato la sua città. Il rapporto tra Aiace e Tecmessa è fortemente asimmetrico, pur se  quest’ultima  dal ruolo di schiava è stata progressivamente elevata al rango di concubina, madre di un figlio che Aiace riconosce come proprio erede ed al quale  trasmette lo scudo, con tutto ciò che simboleggia.  Tecmessa è anche una donna abile ed intelligente, protegge il figlio  nascondendolo, per evitare che Aiace nel suo momento di follia possa fargli male, ed in questo sorprende favorevolmente lo stesso Aiace. Ciononostante, il rapporto tra Aiace e Tecmessa resta   improntato ad una sola regola, riassunta nelle  poche parole che Aiace le dice quando la donna  prova ad esprimere la sua opinione: “stai zitta”  e  poi  ancora  “ti elogerò se eseguirai il mio comando”. Tecmessa non  reagisce e non può reagire, perché dipende in tutto e per tutto dal suo uomo.  La donna ha perso la sua famiglia, la sua casa, la sua patria e la sua libertà e di questo non osa neppure rimproverare  Aiace,   tanto che attribuisce la sua tragedia personale  alla volontà degli dei, che, avvalendosi del “braccio” di Aiace, hanno distrutto la sua città; ella dice che dal momento in cui ha condiviso il letto di Aiace ha iniziato a vivere per lui, ad amare il suo mondo, ma in realtà non ha altro mondo da amare. E’ una donna  priva di risorse economiche e sociali,  la  cui sopravvivenza,   dignità,  ruolo  sociale, dipendono   in tutto dall’uomo con cui vive. Non può fuggire, non può sottrarsi, non può opporsi alla volontà di Aiace e nemmeno esprimere una opinione: deve stare zitta e obbedire in tutto ai suoi voleri.  Se veramente Aiace fosse il rappresentante di una società i cui modelli sono ormai relegati al mondo antico,  oggi non ci sarebbero più donne sottomesse, donne cui l’uomo dice di stare zitta, donne  prive risorse economiche proprie che non possono sottrarsi ad un rapporto  asimmetrico, donne che non possono sottrarsi alle violenze perché sono state isolate dalla famiglia d’origine e dal contesto sociale.

Osserviamo ora un’altra coppia che non  si vede  nella tragedia di Sofocle  ma di cui  è ben conosciuta la storia: Ulisse e Penelope. Mentre il rapporto tra Aiace e Tecmessa è asimmetrico, il rapporto tra Ulisse e Penelope è simmetrico:  se Tecmessa non può e non potrà mai diventare forte come  Aiace,  Penelope riesce ad essere scaltra ed avveduta come il suo sposo  ed escogita lo stratagemma della tela che tesse di giorno e disfa di notte per tenere a bada, con una promessa,  i pretendenti al trono  di Itaca che, tramite il matrimonio con la regina, vogliono legittimarsi.  Penelope crede fortemente nel ritorno di Ulisse, crede nel suo ruolo di regina  custode del regno e  condivide con Ulisse segreti che le permetteranno di riconoscere il  marito, pur quando tornerà dopo vent’anni sotto le spoglie di un vecchio mendicante.

Aiace e Tecmessa non cooperano per un fine comune,  ciascuno dei due  cerca di salvare solo  il proprio ruolo, non riescono a condividere miti, idee e valori -nonostante siano fisicamente vicini- e corrono così verso la rovina. Ulisse e Penelope,  pari nella intelligenza e nel pensiero razionale, hanno a cuore lo stesso fine,  credono negli stessi miti e così riescono a cooperare, anche a distanza, e cooperando salvano la famiglia, la casa e  il regno.

Un’altra relazione familiare asimmetrica è quella tra Aiace e il suo fratellastro, Teucro.

Teucro è figlio del padre di Aiace ma non della stessa madre e non è nato da nozze legittime. La madre di Teucro, e  lo rivela il nome del personaggio, è una principessa troiana, Esione, anch’ella preda di guerra, “da letto”, che Eracle  aveva  assegnato al compagno di avventure Telamone, padre di  Aiace. Ovviamente Teucro  è schierato con l’esercito greco o meglio con l’esercito del fratellastro -lui sì  figlio legittimo del re- e combatte contro i troiani, nonostante  i vincoli di sangue anche con  loro; ma è una parentela che non conta nulla, perché viene dalla linea materna  e in quel mondo conta solo la discendenza paterna.

Teucro non è pari ad  Aiace, ed infatti nonostante  sia fratello del condottiero è solo un arciere e non un guerriero portatore di scudo: gode della fiducia di Aiace che a lui affida la compagna ed il figlio,   ed è un valoroso che rivendica con grande coraggio il diritto di sepoltura  per le spoglie del fratello, tanto da mettere paura a Menelao, ma non può superare il gap che lo divide da chi possiede pienamente lo status civitatis e lo status filiationis

Teucro, giunto sul luogo della tragedia troppo tardi per impedire il suicidio di Aiace, vuole  almeno  assicurargli l’onore di un degno funerale, cui si oppone Menelao, perché   considera criminale che uno qualunque, uno dei tanti, decida di abolire l’obbedienza ai sommi capi. Teucro lo affronta con coraggio, ricordandogli tutti i benefici di cui hanno goduto i greci grazie alla partecipazione di  Aiace alla guerra,  e Menelao,  incapace di ribattere a questi argomenti, decide di farsi obbedire  con la forza e corre a chiamare il fratello  Agamennone, capo indiscusso della spedizione.  Quest’ultimo   non  apre alcun dialogo con Teucro,   limitandosi a ricordagli che è figlio illegittimo, nato schiavo,  ed è straniero, e quindi quando parla non viene compreso. Gli dice “vedi di convocare un altro, un cittadino, che interpreti davanti a noi i tuoi motivi, io non comprendo la lingua dei barbari”.  Invece, quando parlerà Ulisse,  cittadino greco, figlio legittimo e  capo militare,  utilizzando gli stessi argomenti di Teucro, Agamennone consentirà alla sepoltura.

Anche in questo caso non possiamo dire di  avere relegato questi modelli comportamentali alla società arcaica.

Fino  all’anno 2012 anche il nostro ordinamento civile conosceva  ed applicava differenti regole ai figli nati nel matrimonio, detti legittimi, e figli nati fuori dal matrimonio, detti illegittimi o naturali.  Ancora oggi e nonostante la riforma della filiazione,  esistono legami familiari limping: ad esempio,   il cammino verso  lo status  filiationis  di quei bambini che nascono   tramite ricorso a pratiche  che in Italia sono illecite, come la maternità surrogata, non è governato da una regola certa, ma affidato alla  soluzione   giurisprudenziale  del ricorso alla adozione in casi particolari, se ed in quanto il genitore di intenzione voglia adottare il bambino e sia ritenuto  a ciò idoneo. Nessuna soluzione ha proposto il legislatore per garantire che siano assolti, in ogni caso,  gli obblighi parentali   da parte del committente che non ha legame biologico con il bambino che ha fatto nascere, e ciò nonostante il monito della Corte Costituzionale,  la quale ha osservato che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata  spetta alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore (Corte Cost.  n. 33 del 03/2021 n. 33).  E  ciò sebbene anche le sezioni unite della Corte di Cassazione abbiano rilevato che “chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente” ( Cass. sez. un.  n. 38162 del 30/12/2022)

E non è tutto: ancora oggi accade che il maggiore o minore potere economico, sociale  e familiare   consenta  a taluni di far valere i propri  argomenti davanti alla  giustizia e lo impedisca di fatto ad altri, pur portatori degli stessi argomenti; e soprattutto accade che gli stranieri non vengano compresi non solo perché parlano un’altra lingua, ma anche e soprattutto perché le loro vicende  si inquadrano in un altro contesto sociale e culturale, in cui maturano e si sviluppano i loro modelli  di comportamento, che fatichiamo a comprendere. 

Nei  giudizi di protezione internazionale, il diritto di richiedenti asilo  di essere ascoltati dal giudice spesso si scontra con le difficoltà  di reperire un traduttore nelle lingue  parlate dai poveri della terra, di coloro che vengono da paesi che non hanno rilievo economico  o politico. Così mentre da un lato si diffonde sempre di più la conoscenza delle lingue dei potenti (l’inglese, ma anche l’arabo, il cinese), pochi sanno -ad esempio- della esistenza della lingua yoruba, pur parlata da 45 milioni di persone.

Inoltre, ed anche a prescindere dalla lingua parlata,  è difficile comprendere chi viene da un altro paese senza l’apporto di una competente mediazione culturale e senza un approccio scevro da pregiudizi, che metta da parte l’autoreferenzialità di  Agamennone  (non ti capisco, quindi quello che dici non cambia il mio giudizio) e  assuma la  vicinitas di Ulisse, che   cerca, e trova, i comuni tratti della umanità.

Quando si  esaminano i racconti dei richiedenti asilo, il giudizio di verosimiglianza o plausibilità, ovvero lo stesso giudizio di ragionevolezza, non si può operare comparando il racconto del richiedente con ciò che è  ragionevole per il giudice o un cittadino europeo medio, o con ciò che normalmente accade in un paese europeo, dovendo farsi piuttosto riferimento alla plausibilità dei fatti pertinenti asseriti nel contesto delle condizioni esistenti nel suo paese di origine, compresi genere, età, istruzione e cultura.  Anche la regola dell’id quod plerumque accidit,  così spesso utilizzata dai giuristi,  ha una sua dimensione spaziale e temporale. Ciò che è vero o verosimile in un dato luogo e in dato tempo,  in quanto evenienza statisticamente più ricorrente, può non esserlo in altro luogo ed in altro tempo, perché in quei contesti altri sono gli eventi più consueti.

Occorre  allora che il giudice della protezione internazionale  nell’accertamento della veridicità dei racconti  e nel rendere una prognosi sul rischio che  i richiedenti correrebbero ove rimandati nel paese di origine, si spogli della sua cultura di uomo occidentale ed europeo e comprenda i contesti e i modelli culturali in cui le vicende narrate si inseriscono. Ad esempio, il rifiuto del matrimonio, per un europeo è solo una scelta privata, in cui lo Stato e la comunità non hanno diritto di interferire. In alcuni paesi non europei, invece,  il rifiuto di matrimonio può essere considerato un atto di opposizione politica, oppure un atto antisociale  e quindi espone al rischio di discriminazioni e punizioni. Lo stesso potrebbe dirsi per il modo di abbigliarsi, scelta che nei paesi europei è assolutamente libera.  Invece, in  alcuni paesi non  troppo lontani  dal nostro, una donna che non indossi il velo rischia il pestaggio, l’arresto, la tortura.

Le voce di chi è straniero, diverso e anche debole, ha spesso bisogno di qualcuno che si faccia non solo traduttore, ma anche portatore dei contenuti e che ne sappia spiegare il significato profondo, così come è necessario, a sua volta,  che lo straniero si renda conto di  come è strutturato il nuovo contesto sociale in cui chiede di inserirsi, le sue regole,  le libertà e i divieti.

Sono sfide complesse, se è vero, come è vero, che  hanno attraversato i secoli; ma,  alla fine, la vittoria di Ulisse, della voce della ragione,  ci rassicura sulla capacità dell’essere umano di vedere l’altro  essere umano e riconoscerlo come tale. Perché,  per concludere con le stesse parole di Sofocle,   gli uomini comprendono  se vedono, ma nessuno indovina il futuro, e che esito avrà.

[1] Testo riveduto e corretto dell’intervento tenuto  al convegno organizzato da CAMMINO (Camera Nazionale Avvocati per le persone, per i minorenni e per le famiglie) “Camminando tra mito e attualità-passione, follia, suicidio” Siracusa 7 giugno 2024

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