Una delle innovazioni apportate al sistema processuale dalla c.d. “Riforma Cartabia” oggetto di maggiore dibattito da parte della comunità scientifica e tra gli “addetti ai lavori” è rappresentato dalla sostituzione del criterio destinato a regolare i presupposti dell’archiviazione della notizia di reato e dell’adozione della sentenza di non luogo a procedere.
Come noto, l’originaria formulazione dell’art. 425 c.p.p. imponeva al G.U.P. di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti dell’imputato se, tra le altre cose, risultava “evidente che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato (…)”. Tale regola si differenziava da quella indicata dall’art. 125 disp. att. c.p.p., applicabile alle richieste d’archiviazione del Pubblico che presupponeva invece: “(…) l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.
Si trattava, in altri termini, di un giudizio latamente di merito quanto alla fase dell’udienza preliminare[1] e dichiaratamente processuale quanto all’archiviazione che, nondimeno, presentava aspetti di evidente comunanza, trattandosi di due “insiemi concentrici”[2]: nell’insieme dell’«evidente innocenza» potevano rientrare anche quei procedimenti che, pur presentando elementi a carico dell’indagato/imputato, si connotavo per la sussistenza ictu oculi di prevalenti elementi probatori a discarico, tali da rendere l’accusa insostenibile in giudizio.
Le maglie del giudizio del G.U.P., inizialmente assai serrate, venivano via via allargate, prima dalla L. n. 105 del 1993 attraverso la soppressione del requisito dell’«evidenza» contenuto nell’art. 425, co. 1, c.p.p., poi con la L. n. 479 del 1999[3] tramite l’inserimento, all’interno dell’art. 425, co. 3, c.p.p., della medesima regola già prevista dall’art. 125 disp. att. c.p.p. per la richiesta d’archiviazione.
Tali modifiche, secondo prevalente interpretazione, non alteravano però la natura della sentenza di proscioglimento che, in ogni caso, rimaneva di carattere prevalentemente processuale[4], dal momento che era finalizzata a vagliare: “(…) la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda”[5].
Si trattava di caratteristiche che rispondevano a precise logiche di politica processual-penalistica che, se da un lato vedevano nel favor actionis un valore da preservare, dall’altro attribuivano al giudice della cognizione la piena valutazione circa il merito dell’accusa[6].
Nel complesso, il sistema così da ultimo concepito e applicato per oltre tre decadi non si è sottratto ad aspre critiche da parte della dottrina (e spesso anche del ceto forense) incentrate sulla scarsa capacità di “filtraggio” dell’udienza preliminare, asseritamente comprovata da rilevazioni statistiche che dimostravano il numero minoritario delle sentenze di proscioglimento rispetto ai rinvii a giudizio[7].
La soluzione proposta dalla riforma, che va ad innestarsi nel quadro “efficientistico” delle misure di nuovo conio, si articola nelle seguenti previsioni:
(a) Riformulazione dell’art. 408, co. 1, c.p.p., da: “(…) il pubblico ministero, se la notizia di reato è infondata, presenta al giudice richiesta di archiviazione” a: “Quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di
applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, il pubblico ministero presenta al
giudice richiesta di archiviazione”.
(b) Riformulazione dell’art. 425, co. 3, c.p.p., da: “Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a
procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non
idonei a sostenere l’accusa in giudizio” a: “Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”, norma che è stata trasposta anche nella nuova “udienza predibattimentale” di cui all’art. 544-ter, co. 1, c.p.p.;
(c) Abrogazione dell’art. 125 disp. att. c.p.p.
A quanto parrebbe ad una prima lettura, con il nuovo sistema viene unificato del tutto (anche lessicalmente) il metro di giudizio dell’archiviazione e della sentenza di non luogo a procedere, sostanzialmente “riavvolgendo le lancette” a quella che era addirittura la primigenia formulazione dell’art. 115 disp. att. c.p.p. che, nel progetto iniziale del “nuovo” codice disponeva che “il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene che gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sarebbero sufficienti al fine della condanna degli imputati”.
Tralasciando, per ragioni di spazio, le critiche che già allora furono mosse a tale proposta (poi scartata), ci si limita in questa sede ad interrogarsi sulla reale portata di questa innovazione.
È evidente che il giudizio rimane di tipo prognostico (la “ragionevole previsione di condanna”) e si incentra sull’intero contenuto del fascicolo delle indagini e dell’udienza preliminare (“gli elementi acquisiti”), così tracciando un collegamento biunivoco ed immediato tra la fase delle indagini e quella decisoria.
A fronte di tali modifiche, pur nel permanere di ambiguità lessicali[8], verrebbe allora da dire che l’oggetto della prognosi riveste adesso certamente una duplice natura, sia di merito che processuale.
Di merito in quanto non può esservi alcuna condanna senza l’accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio” del fatto contestato[9], sicché la “ragionevole previsione di condanna” include necessariamente il vaglio positivo della colpevolezza.
Processuale dal momento che vi possono essere ragioni ostative ad una futura pronuncia di condanna anche quando gli “elementi acquisiti” sosterrebbero adeguatamente un accertamento della colpevolezza allo stato degli atti (ad es. l’incombenza della prescrizione).
L’innovazione maggiore rispetto al sistema previgente, si ritiene, riguarda l’estensione della valutazione in punto di merito: se il risultato del giudizio prognostico attiene alla colpevolezza dell’imputato significa implicitamente che, a partire dagli “elementi acquisiti”, il giudice dovrà figurarsi i possibili esiti delle prove dichiarative che potranno essere assunte nella fase dibattimentale, con buona pace dall’art. 111 co. 4, Cost.
La “chiave di volta” del nuovo sistema parrebbe allora il riferimento alla “ragionevolezza” che deve connotare la previsione di condanna e che, in ultima analisi, può rappresentare lo spartiacque tra ciò che deve essere mandato a giudizio e ciò che, invece, non può proseguire oltre le indagini o l’udienza preliminare.
L’aggettivo “ragionevole”, riferito alla previsione di condanna, deve intendersi quale sinonimo di “probabilità razionale” della stessa, dovendo il giudice quindi fondare il proprio giudizio su argomenti logici e/o massime d’esperienza che, se mancanti, impongono l’adozione di un provvedimento conclusivo del procedimento.
Forse qualche esempio contribuirà a chiarire il senso di questa impostazione.
Si pensi al caso del procedimento per reato procedibile d’ufficio, nel quale la persona offesa, dopo aver reso ampie dichiarazioni a carico dell’indagato, ritratti completamente le prime accuse prima della chiusura delle indagini.
Fino ad ora, specie se vi era un qualche riscontro, non sarebbe stata sbagliata la scelta di consentire l’instaurazione del giudizio dibattimentale, dove la persona offesa sarebbe stata messa a confronto con le proprie dichiarazioni, chiedendole conto in pubblica udienza della successiva ritrattazione.
Oggi tale scelta andrebbe maggiormente soppesata: non è razionale il comportamento della persona offesa che ritratta le accuse, ma non sarebbe neppure razionale e quindi prevedibile dal giudice (in mancanza di ulteriori elementi conoscitivi), che quest’ultima le mutasse per una seconda volta in sede dibattimentale, ritornando alla prima versione dei fatti o magari fornendone una terza.
Si pensi poi al diverso caso del procedimento pendente in fase di opposizione alla richiesta di archiviazione nel quale l’opponente, con l’intento di contraddire il contenuto di SIT favorevoli all’indagato, indichi i nominativi di prossimi congiunti a conoscenza dei fatti.
Anche in questo caso, secondo la nuova normativa, il verosimile epilogo dovrebbe essere quello dell’archiviazione (forse anche de plano) dal momento che, secondo una consolidata massima d’esperienza, è razionalmente prevedibile che i prossimi congiunti sostengano le tesi difensive dell’interessato per cui sarebbe poco probabile che una eventuale sentenza di condanna si basasse esclusivamente su tali elementi.
Si pensi, infine, all’ipotesi del procedimento fondato esclusivamente, o prevalentemente, sulle spontanee dichiarazioni a contenuto auto-accusatorio rese nell’immediatezza dei fatti dall’indagato alla P.G. (e quindi non utilizzabili ex art. 513 co. 1 c.p.p.), oppure dal coindagato su fatti che potrebbero comportare anche la sua responsabilità (caso tipico l’emittente di fatture per operazioni inesistenti).
Nel vecchio regime non sarebbe stata avulsa dal sistema la celebrazione del giudizio dibattimentale, essendovi la possibilità di una ripetizione delle dichiarazioni anche in quella sede.
Provocatoriamente, lo si riconosce, si sostiene tuttavia che, nella vigenza della nuova disciplina, l’epilogo dovrebbe essere diverso, non apparendo razionale la previsione di una pronuncia di condanna: è ovvio che qualsiasi difensore, una volta assunto l’incarico, inviterebbe il proprio assistito ad astenersi dal ripetere tali dichiarazioni in sede dibattimentale, così garantendosi una sicura sentenza assolutoria.
In tutti i casi menzionati, conclusivamente, spetterebbe al giudice pronosticare quale sarebbe l’esito dell’assunzione dibattimentale delle prove, figurandosene l’esito, in applicazione di criteri espressivi del principio di ragionevolezza/razionalità. Si tratta indubbiamente di un giudizio di cui non è sempre agevole individuare nettamente i contorni e che, potenzialmente, rischia di portare all’anticipata conclusione, sull’altare della massima efficienza possibile, anche procedimenti che invece meriterebbero un più approfondito vaglio.
[1] O, per meglio dire, “ibrido”, rimanendo preclusa al giudice “(…) una valutazione approfondita del fatto o dei risultati delle indagini”, dovendosi piuttosto arrestare alla valutazione processuale circa la sussistenza obiettiva di una delle cause di proscioglimento indicate dall’art. 425, co. 1, c.p.p. (v. per es. Cass. pen. n. 1445 del 3/12/1992, Rv. 195954 – 01).
[2] V. Corte cost. n. 88 del 1991: “(…) non può non riconoscersi un certo accostamento – anche se in prospettive diverse – tra insostenibilità dell’accusa ed evidenza dell’innocenza. Tanto più se si considera che quest’ultima situazione non va identificata con la totale assenza di elementi a carico: lo si desume dall’art. 434, che consente la revoca della sentenza di non luogo a procedere se il rinvio a giudizio può essere determinato da nuove fonti di prova, da valutarsi «unitamente a quelle già acquisite»”
[3] C.d. “Legge Carotti”.
[4] V. per es. Corte cost. n. 71 del 1996.
[5] Così Cass. pen. S.U. n. 39915 del 2002.
[6] Corte cost. n. 88 del 1991
[7] Alle volte senza però avvedersi che un’eccessiva percentuale di sentenze di non luogo a procedere sarebbe anch’essa indicativa di una, ancor più grave, disfunzione del procedimento penale, presupponendo un esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico ministero, quantomeno, in termini molto poco accorti.
[8] Quasi a tradire una sorta di “timore” nel trasformare expressis verbis il vaglio del G.U.P. e del G.I.P./Pubblico ministero in valutazione anche pienamente di merito.
[9] V. art. 533, co. 1, c.p.p.