di Marcello De Chiara, Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli
1. In materia di violazioni penali della normativa sul reddito di cittadinanza (di seguito LRDC)[1], a livello di giurisprudenza di merito, si registrano significative divergenze a proposito del reato contestabile nel caso in cui il beneficio sia riconosciuto in assenza delle condizioni di leggi: a fronte di una norma incriminatrice concepita con il dichiarato fine di sanzionare le condotte del privato, che, allo scopo di ottenere il beneficio, fornisca false informazioni oppure ometta informazioni dovute (art. 7, co. 1, LRDC), si sta, infatti, diffondendo un orientamento, secondo cui sarebbe, altresì, ravvisabile il reato di cui all’art. 640 bis, c.p., in luogo o in aggiunta di quello a ciò propriamente destinato, tale soluzione offrendo l’innegabile vantaggio di consentire il recupero delle somme indebitamente percepite attraverso l’efficace strumento del sequestro per equivalente, la cui disciplina è richiamata solo dall’art. 640 quater, c.p., ma non anche dalla normativa sul reddito di cittadinanza.
2. La configurabilità del reato di cui all’art. 640 bis, c.p., tanto se più se in concorso con il reato previsto dall’art. 7, co. 1, LRDC, pone, però, alcuni profili di criticità che in questa sede ci si ripropone di focalizzare.
2.1. Un primo rilievo di carattere generale trae origine dall’orientamento interpretativo, invero ormai minoritario[2], secondo cui i sussidi pubblici aventi finalità assistenziale, tra i quali certamente deve annoverarsi anche il reddito di cittadinanza, non rientrerebbero nella categoria delle erogazioni pubbliche di cui all’art. 640 bis, c.p. (ripresa in termini pressoché identici nella formulazione dell’art. 316 ter, c.p.), la quale, essendo stata normativamente definita attraverso una terminologia mutuata dai testi legislativi disciplinanti le misure di sostegno alle attività produttive (“contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”) sarebbe comprensiva dei soli contributi qualificati da tale specifica finalità, rispetto ai quali l’introduzione di un più aspro trattamento sanzionatorio rispetto al regime ordinario della truffa in danno di enti pubblici troverebbe piuù adeguata giustificazione nella necessità di tutelare il vincolo di destinazione insito in tale genere di attribuzioni, non presente viceversa nelle sovvenzioni di altra diversa natura, le quali avendo una finalità assistenziale ed essendo dunque destinate ad assicurare i mezzi di sussistenza, sono normalmente a fondo perduto. Ne deriverebbe che, in caso di indebita percezione di un beneficio di natura assistenziale, esclusa la possibilità di ravvisare un’erogazione pubblica nel particolare senso sopra indicato, il concorso potrebbe al più ravvisarsi con la truffa in danno di ente pubblico (prevista dall’art. 640, co. 2, n. 1, c.p.), il cui ambito di operatività in caso contrario e cioè aderendo ad un’interpretazione omnicomprensiva di erogazione pubblica sarebbe destinato ad assottigliarsi, per non dire a scomparire del tutto a vantaggio dell’art. 640 bis, c.p. (o eventualmente dell’art. 316 ter, c.p.). Sullo fondo della diatriba, il tema ancora una volta è quello di come in ambito penale debbano interpretarsi le nozioni giuridiche provenienti da altri settori dell’ordinamento e se quindi alle parole “contributi, finanziamenti, mutui agevolati” debba attribuirsi l’accezione originaria loro propria oppure un significato nuovo, che sia maggiormente funzionale alle particolari esigenze della tutela penale dei beni giuridici.
Riguardo al tema che si considera, la posizione assunta dalla Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, è però che la terminologia descrittiva dell’oggetto materiale delle fattispecie previste dagli artt. 640 bis c.p. e 316 ter c.p. non possiede un significato tecnico, ammesso che un significato del genere possa realmente desumersi dalla legislazione di sostegno alle imprese, caratterizzantesi per la particolare vastità ed assenza di coerenti definizioni, dovendosi piuttosto considerare da un lato che allorquando il legislatore penale ha voluto circoscrivere l’oggetto dell’incriminazione ad una particolare tipologia di contributi pubblici ha ulteriormente specificato l’ambito degli stessi attraverso il riferimento all’esistenza di una particolare destinazione di essi, sicché, ad esempio, nessun dubita che il reato di malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis, c.p.) sia applicabile soltanto alle misure a sostegno delle attività produttive, le quali, come detto, a differenza dei sussidi di natura assistenziale, si caratterizzano per essere vincolate nella loro destinazione[3]; dall’altro lato si è osservato che la soglia di rilevanza penale prevista nell’art. 316, co. 2, ter, c.p. (in base alla quale quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore ad euro 3.999,96, il fatto è punito alla stregua di illeciti amministrativo) sembra implicitamente contraddire l’assunto secondo cui tale norma (e dunque anche l’art. 640 bis, c.p. ad essa accumunabile per il medesimo oggetto materiale)si applicherebbe soltanto ai contributi di natura economica, i quali normalmente implicano attribuzioni di importi ben maggiori. Deve, dunque, escludersi che la linea di demarcazione tra le due fattispecie sia apprezzabile in rapporto all’oggetto materiale delle rispettive condotte, posto che anche di recente è stato ribadito che il reddito di cittadinanza rientra a pieno titolo nel novero delle “erogazioni pubbliche” (di recente cfr. Cass. 20.01.2021, nr. 2402), sicché le risposte all’interrogativo che qui ci si pone debbono essere necessariamente cercate sul piano della condotta o su quello dell’evento.
2.2. La disciplina penale sul reddito di cittadinanza, recependo un modello di tipizzazione già sperimentato nell’art. 316 ter c.p. ed in altre precedenti fattispecie, sanziona condotte che corrispondono ad alcuni fondamentali archetipi dell’agire fraudolento: nella formulazione dell’art. 7, co. 1, LRDC, sono, infatti, previste due condotte commissive (il “rendere false dichiarazioni” e l’“utilizzare documenti falsi) ed una omissiva (“l’omettere informazioni dovute”) che appaiono rispettivamente riconducibili ai paradigmi del “mendacio” e del “silenzio”.
Diversamente da altre incriminazioni che tutelano l’erogazione di analoghi contributi pubblici[4], la tutela penale del reddito di cittadinanza è stata, però, assicurata attraverso una fattispecie di pericolo, in cui l’indebita percezione del beneficio non costituisce l’evento del reato, ma piuttosto il fine perseguito dall’agente.
È evidente allora che la questione dei rapporti con la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche sia in qualche modo correlata a quella di carattere più generale su cosa debba intendersi per “artifizi e raggiri” e del se in tale dibattuta categoria rientrino anche le fattispecie del mendacio e della reticenza in sé considerate, non accompagnate cioè da ulteriori espedienti ingannatori. Volendo operare una generalizzazione per scopi puramente espositivi, sono in astratto possibili due opposte prospettive: a) la presentazione di una dichiarazione attestante fatti non veri (così come la mancata comunicazione di informazioni rilevanti) costituiscono artifizi e raggiri senza la necessità di altro, sicché il reato previsto dall’art. 7, co. 1, LRDC, integrando un’ipotesi qualificata di truffa, si trova in rapporto di specialità rispetto alla truffa di cui all’art. 640 bis, c.p., in ragione della particolare tipologia del contributo avuto di mira; b) le condotte previste dall’art. 7, co. 1, LRDC non sono qualificabili alla stregua di artifizi e raggiri, ma descrivono tipologie di frode connotate da un minor grado di insidiosità, con la conseguenza che il reato di cui all’art. 7, co. 1, LRDC, ponendosi in una posizione di sussidiarietà rispetto alla truffa aggravata dal conseguimento di erogazioni pubbliche, trova applicazione solo nei casi in cui non sia configurabile la fattispecie connotata da maggiore offensività.
A fronte di tale duplice opzione, non può ignorarsi che dalla copiosa giurisprudenza che ha affrontato il problema dei rapporti tra l’art. 640 bis, c.p. e l’art. 316 ter, c.p. emergono almeno due dati che assumono in questa sede un rilievo oltremodo qualificante, considerato che il reato previsto in materia di reddito di cittadinanza è integrato da condotte perfettamente sovrapponibili a quelle tipizzate nell’art. 316 ter, c.p.
In primo luogo, nella giurisprudenza è ben presente la consapevolezza che l’obiettivo di rafforzare la tutela penale delle risorse pubbliche insito nell’introduzione di siffatte incriminazioni aggiuntive può essere concretamente perseguito solo attraverso un allargamento dell’area del penalmente rilevante, in modo da farvi rientrare anche condotte decettive che non sarebbero punibili in base alle norme in materia di truffa già esistenti. La finalità di evitare una situazione in cui possa rimanere impunito l’ottenimento del beneficio attraverso condotte meramente mendaci o reticenti imprime alla fattispecie prevista dall’art. 7, co. 1, LRDC una vocazione chiaramente sussidiaria rispetto alla truffa, così come analoga funzione è stata a suo tempo già riconosciuta al reato di cui all’art. 316 ter, c.p. e prima ancora ai precedenti normativi in materia di frodi comunitarie (sul punto illuminanti appaiono le parole adoperate da Corte Costituzionale 10.02.1994, n. 25, nonché da Cass. S.U. 24.01.1996, n. 2780, imputato Panigoni). La natura sussidiaria della fattispecie in materia di reddito di cittadinanza è del resto resa manifesta dall’uso della clausola di riserva in base alla quale il reato in questione è configurabile “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, perché ove si ritenesse che il rapporto tra le due fattispecie fosse riconducibile allo schema della specialità (piuttosto che a quello della sussidiarietà) e che quindi non residuino fatti astrattamente punibili alla stregua dell’art. 7, co. 1, LRDC, che non siano al tempo stesso inquadrabili anche nella fattispecie di cui all’art. 640 bis, c.p., la fattispecie in materia di reddito di cittadinanza, per effetto di tale clausola, perderebbe ogni possibile concreta applicazione, ottenendosi così un effetto contrario a quello dichiaratamente perseguito.
L’altro dato da considerare è che, in materia di truffa, la giurisprudenza, pur ribadendo, in linea di principio, la necessità degli artifici o raggiri, ha progressivamente ridimensionato il ruolo della condotta, orientandosi verso una riconfigurazione della fattispecie in senso causale, ove ciò che conta non è tanto l’accertamento di una condotta definibile in termini di “artifici e raggiri”, quanto, piuttosto, la sua idoneità a produrre il concreto verificarsi dell’errore (Cass. 08.06.2006, n. 23623). La svalutazione della portata precettiva degli artifici e raggiri, in una prospettiva tesa a privilegiare una concezione causalmente orientata della fattispecie, ha determinato un progressivo ampiamento del campo di applicazione della truffa al punto che per la giurisprudenza può considerarsi un dato ormai pacifico che anche la menzogna ed il silenzio rientrino nella nozione degli artifizi e raggiri, sebbene, in base alla prevalente dottrina, tali condotte siano sprovviste dei necessari requisiti[5].
3. Escluso, dunque, che la sussidiarietà della fattispecie prevista dall’art. 7, co. 1, LRDC sia apprezzabile sul piano della condotta, posto che, come appena evidenziato, anche la menzogna o il silenzio possono integrare il segmento degli artifizi e raggiri, deve evidenziarsi che un autonomo spazio applicativo rispetto al reato di truffa potrebbe apprezzarsi in negativo per la mancanza dell’evento dell’induzione in errore dell’amministrazione erogante.
Il riconoscimento delle pubbliche erogazioni, infatti, non sempre presuppone l’effettivo accertamento delle relative condizioni ad opera della competente amministrazione, essendo viceversa previsto dalle rispettive discipline settoriali che esso possa avvenire, almeno in via provvisoria, anche sulla base della mera dichiarazione del soggetto interessato, demandando eventualmente ad una fase successiva l’espletamento dei necessari controlli. In tali casi, quindi, l’erogazione del beneficio non è conseguenza di una falsa rappresentazione circa la sussistenza dei necessari presupposti, in quanto ciò che la competente amministrazione si rappresenta è esclusivamente la presentazione dell’istanza ad opera del soggetto in astratto legittimato e dunque un fatto che è indiscutibilmente reale (Cass. S.U. 19.04.2007, n. 16568).
Il procedimento di concessione del reddito di cittadinanza è disciplinato dall’art. 5, co. 3, LRDC, il quale prevede che il beneficio sia riconosciuto “ove ricorrano le condizioni”, il che sembra implicitamente significare che il suo riconoscimento sia sempre subordinato alla effettiva verifica dei presupposti di legge; coerentemente con ciò, è previsto un termine di cinque giorni dalla comunicazione della domanda da parte di Poste Italiane, cui è affidato il compito di riceverla, entro cui l’INPS verifica il possesso dei requisiti sulla base delle informazioni disponibili nei propri archivi ed in quelli delle amministrazioni titolari dei dati rilevanti: in particolare acquisisce dall’Anagrafe tributaria, dal Pubblico registrato automobilistico e dalle altre amministrazioni le informazioni necessarie ai fini della concessione del RDC. La medesima disciplina prevede, tuttavia, quale ipotesi residuale che “in ogni caso il riconoscimento da parte dell’INPS avviene entro la fine del mese successivo alla trasmissione della domanda dell’istituto”, introducendo quindi una forma di definizione automatica del relativo procedimento, riecheggiante l’istituto del silenzio assenso; evidentemente è stato ritenuto prevalente l’interesse del soggetto potenzialmente non abbiente rispetto alla esigenza istruttoria di verificare la sussistenza dei relativi presupposti, la quale implicando necessariamente l’intervento di più amministrazioni, anche non statuali, può richiedere tempi non compatibili con l’obiettivo di dare tempestiva risposta al problema della povertà.
La conseguenza di tali scelte normative è che in materia di reddito di cittadinanza non esiste un provvedimento dell’INPS nel quale si dia atto dell’esito dell’accertamento avente ad oggetto le relative condizioni di legge, in quanto l’amministrazione si limita piuttosto a comunicare direttamente l’avvenuto riconoscimento mediante un SMS nel quale è indicato l’ufficio delle Poste Italiane presso cui può essere ritirata la carta RCD.
L’erogazione del beneficio può essere pertanto compatibile non solo con il positivo espletamento delle verifiche in ordine alla sussistenza dei necessari presupposti, ma anche con una situazione affatto diversa, che, anzi, è probabilmente di più frequente verificazione, nella quale, cioè, l’INPS si limita ad abbinare i dati anagrafici del richiedente alla correlata attestazione ISEE e ad ulteriori informazioni in suo possesso in relazione ad eventuali prestazioni già erogate in favore del medesimo nucleo familiare e pur non avendo acquisito le informazioni necessarie in possesso di altre amministrazioni (si pensi ad esempio al requisito della mancanza di condanne per determinati reati il cui accertamento presuppone un “dialogo” con il Ministero della Giustizia attualmente non ancora disciplinato o alle informazioni in tema di cittadinanza e residenza che debbono essere chieste ai comuni), proceda comunque all’erogazione del beneficio in attuazione alla disposizione sopra citata.
In quest’ultimo caso, l’erogazione del beneficio non è dunque determinata da un’errata rappresentazione della realtà derivante dalla falsa dichiarazione del soggetto aspirante, in quanto il beneficio è riconosciuto indipendentemente dall’accertamento della veridicità dei fatti attestati e comunque senza un provvedimento che dia atto della loro sussistenza. La conseguenza di ciò è che non essendo ravvisabile alcun errore da parte della competente amministrazione non è nemmeno ravvisabile il reato di cui all’art. 640 bis, c.p., sicché la possibilità di punire la condotta del richiedente diretta ad ottenere indebitamente il beneficio è garantita dall’esistenza della nuova fattispecie, la cui funzione sussidiaria è perciò pienamente apprezzabile in relazione alla necessaria mancanza di tale requisito.
L’inquadramento giuridico del singolo caso non può pertanto prescindere da una verifica in concreto delle modalità attraverso cui il reddito di cittadinanza è stato riconosciuto, nel senso che a fronte di un’istanza attestante fatti non veri, la linea di demarcazione tra il reato di cui all’art. 7, co. 1, LRDC e quello previsto dall’art. 640 bis, c.p. è data da ciò: che se l’istanza è stata previamente valutata dalla competente amministrazione è ravvisabile la truffa, mentre, in caso contrario, laddove cioè il riconoscimento del beneficio sia stato automatico e non proceduto da alcun accertamento istruttorio è ravvisabile la speciale fattispecie prevista dalla normativa settoriale[6].
La contestazione di entrambi i reati, pure riscontratasi in alcuni procedimenti, sembra invece porsi in aperto contrasto con la clausola di riserva relativamente indeterminata, la cui funzione tipica è proprio quella di individuare la norma prevalente, sicché laddove, in ipotesi, si ravvisassero gli estremi del concorso formale di reati dovrebbe trovare applicazione unicamente il reato più grave che è quello dall’art. 640 bis, c.p., il quale a seguito delle modifiche introdotte con l. 17.10.2017, n. 161, è oggi punito con la reclusione da due a sette anni[7].
[1] Vedasi art. 7, d.l. 28.01.2019, n. 4 convertito con modificazioni nella l. 28.03.2019, nr. 26.
[2] Anche a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite (Cass. S.U. 27.04.2007, n. 16568), si registra una decisione che discostandosi consapevolmente da tale autorevole pronunciamento ha aderito all’orientamento in commento (Cass. 22.11.2008, n. 12100).
[3] Il riferimento è a Cass. S.U. 19.04.2007, n. 16568.
[4] Un esempio di esse è il reato previsto dall’art. 2, l. 23.12.1986 n. 898, in materia di erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di garanzia e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale.
[5] Costituiscono affermazioni ormai ricorrenti in giurisprudenza per un verso che anche la sola menzogna possa integrare l’elemento costitutivo del reato di truffa, essa “integrando una tipica forma di raggiro” (Cass. 02.09.2010, n. 42719) e per l’altro che “il silenzio, maliziosamente serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l’elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo” (Cass. 18.06.2015, nr. 28791). In senso contrario Digesto, voce Truffa, Giuliano MARINI.
[6] La tesi secondo cui non è configurabile il reato di cui all’art. 640 bis c.p. nel caso di automatico riconoscimento del reddito di cittadinanza è stata accolta nell’ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli del 31.01.2022 nell’ambito del procedimento penale nr. 30213/2021.
[7] Tale conclusione non richiede nemmeno che si prenda posizione sull’annosa ed irrisolta questione del se le clausole di riserva siano applicabili solo a fattispecie poste a tutela del medesimo bene giuridico (sul punto, come è noto, si registrano posizioni ancora divergenti), essendo evidente che le norme che qui interessano mirino entrambe a tutelare le risorse pubbliche destinate ad erogazioni pubbliche.