Sommario: 1. La nozione di sussidiarietà dopo la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 33954 del 2023. – 2. L’ambito di operatività dell’azione di ingiustificato arricchimento nel diritto del lavoro… – 3. …e nella materia della previdenza e dell’assistenza sociale. – 4. Considerazioni finali.

1. La nozione di sussidiarietà dopo la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 33954 del 2023.

Con la recente sentenza n. 33954 del 2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno rielaborato la nozione di sussidiarietà dell’azione di ingiustificato arricchimento[1]. Tale sentenza rappresenta anche lo spunto di riflessione al fine di verificare quale siano i margini di operatività dell’azione in esame nell’ambito dei settori giuslavoristico e previdenziale.

Il dato normativo di riferimento è rappresentato dall’art. 2042 c.c. in base al quale l’azione di ingiustificato arricchimento non è esperibile se il depauperato può proporre una diversa domanda per farsi indennizzare dal pregiudizio subìto.

Le Sezioni Unite, dopo aver ricostruito l’istituto in termini di rimedio restitutorio volto a neutralizzare uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione causale con ambito applicativo generale ed astratto, ma sussidiario, ed avere richiamato le tesi dottrinali e giurisprudenziali relative alla ricostruzione della sussidiarietà, in astratto ed in concreto, evidenziano come il dato letterale dell’art. 2042 c.c. suggerisca una nozione unitaria di sussidiarietà che risulta indifferente alla natura del titolo dell’azione principale (legge, contratto o clausola generale) e pronunciano il seguente principio di diritto: “Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico”.

Si esclude, quindi, l’esperibilità del rimedio ex art. 2041 c.c., qualora la domanda principale non sia stata coltivata o sia ormai preclusa per comportamento colpevole dell’impoverito (es. prescrizione o decadenza).

Diversamente, l’azione in esame deve ritenersi esperibile se vi è carenza ab origine del titolo dell’azione principale, come nel caso di nullità del titolo contrattuale, anche alla luce delle massime espresse dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 22404 del 2018 in punto di ricostruzione del discrimen tra mutatio ed emendatio libelli. In questa eventualità, si ha solo un concorso apparente tra domanda principale e domanda di ingiustificato arricchimento, in quanto manca uno dei requisiti strutturali della prima.

Tra le ipotesi di nullità del contratto che incidono sull’ammissibilità dell’azione prevista dall’art. 2041 c.c. vi è, però, la nullità per contrarietà a norme imperative o di ordine pubblico; ciò al fine di evitare che l’art. 2041 c.c. sia applicato in funzione elusiva di tali disposizioni. Se, infatti, la parte che ha inizialmente fondato la propria pretesa su un contratto nullo per contrarietà a norme imperative o di ordine pubblico potesse esperire la domanda di arricchimento ingiustificato, riuscirebbe a coltivare detta pretesa, pur se vietata, con un titolo differente.

L’art. 2041 c.c., quindi, opera nelle ipotesi di insussistenza dei fatti costitutivi e/o di ricorrenza di fatti impeditivi (carenza ab origine del titolo della domanda principale), ma non nelle seguenti situazioni:

  1. presenza di fatti estintivi della pretesa (l’azione principale preclusa per comportamento imputabile all’impoverito – es. prescrizione e decadenza);
  2. nullità del titolo per contrasto con norme imperative o di ordine pubblico;
  3. rigetto della domanda principale derivato dal mancato assolvimento di qualche onere di difesa (es. onere della prova).

2. L’ambito di operatività dell’azione di ingiustificato arricchimento nel diritto del lavoro…

La ricostruzione dell’art. 2042 c.c. in termini di carenza ab origine di altro rimedio anche in funzione antielusiva delle norme imperative e di ordine pubblico, in caso di illiceità del contratto, costituisce un valido spunto di riflessione per verificare quale sia l’ambito applicativo dell’azione di ingiustificato arricchimento in materia giuslavoristica e previdenziale.

L’ingiustificato arricchimento, invero, appare recessivo rispetto ad un’ampia serie di istituti speciali del diritto del lavoro.

La natura sussidiaria dell’azione in esame ne esclude l’operatività di fronte agli specifici rimedi previsti per la nullità del licenziamento o per le ipotesi patologiche regolate dal d.lgs. n. 81 del 2015.

Quando il contratto di lavoro è nullo o annullabile per cause diverse dall’illiceità dell’oggetto o della causa, invece, subito viene in rilievo l’art. 2126 c.c. ed è possibile delineare un ridotto spazio di operatività dell’azione ex art. 2041 c.c., se non ricorrono i presupposti dell’art. 2126 c.c. citato e non vi ostino altri principi giuslavoristici.

Nella fattispecie dell’art. 2126 c.c., così come con l’azione di ingiustificato arricchimento, si assiste ad un trasferimento di utilitas basato su titolo nullo, ma la ratio legis si ispira non all’esigenza di certezza del diritto, bensì al principio del favor praestatoris in quanto, nonostante la nullità del titolo, il legislatore riconosce al lavoratore in questione lo stesso trattamento riservato a quello con contratto valido, limitatamente al periodo di svolgimento de facto della prestazione lavorativa.

L’art. 2126 c.c. presenta tre requisiti di applicazione:

  1. quello temporale (interessa il periodo di svolgimento del rapporto);
  2. quello strutturale (presuppone che il titolo nullo sia comunque qualificabile come rapporto di lavoro);
  3. quello assiologico (la nullità non deve derivare da illiceità dell’oggetto o della causa).

Il limite assiologico risulta comune anche all’art. 2041 c.c., nonché all’irripetibilità per contrarietà al buon costume ex art. 2035 c.c.

Si pensi alla domanda di differenze retributive per mansioni superiori svolte dal personale sanitario in carenza del relativo titolo abilitativo (cfr. Cass. n. 8690 del 2014). In questo caso, sussiste una nullità per illiceità dell’oggetto, in quanto lo svolgimento di quella determinata mansione senza la relativa abilitazione sanitaria viola norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela della generalità dei cittadini e non della parte datoriale.

Diversa, invece, è la fattispecie del lavoro svolto senza l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti, ove si è consolidato l’orientamento favorevole all’applicazione dell’art. 2126 c.c. perché la Corte di Cassazione[2] ha escluso la nullità per illiceità della causa o dell’oggetto.

Le stesse considerazioni riguardano il lavoro subordinato del lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno, atteso che “l’illegittimità del contratto per la violazione di norme imperative (art. 22 T.U. immigrazione) poste a tutela del prestatore di lavoro (art. 2126 c.c.), sempre che la prestazione lavorativa sia lecita, non esclude l’obbligazione retributiva e contributiva a carico del datore di lavoro, in coerenza con la razionalità complessiva del sistema che vedrebbe altrimenti alterate le regole del mercato e della concorrenza ove si consentisse a chi viola la legge sull’immigrazione di fruire di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle cui è soggetto il datore di lavoro che rispetti la disciplina in tema di immigrazione” (Cass. n. 15096 del 2018).

In presenza di un contratto di lavoro nullo o annullabile che non abbia oggetto o causa illeciti, quindi, l’operatività dell’art. 2041 c.c. è possibile solo se non ricorre uno dei due requisiti sub a (temporale) e sub b (strutturale) suindicati.

Si consideri, ad esempio, l’ipotesi, difficilmente ipotizzabile, in cui lo spostamento patrimoniale non sia riferibile alla fase di attuazione del rapporto di lavoro nullo (requisito temporale) oppure all’eventualità nella quale il rapporto tra le parti non possa essere qualificato come lavoro subordinato (requisito strutturale).

La Suprema Corte (Cass. n. 25045 del 2020) ha, poi, ritenuto esperibile l’azione ex art. 2041 c.c. in caso di attività professionale svolta senza corrispettivo dal socio in favore della società di capitali. In particolare, ha precisato che, ai fini della liquidazione del quantum debeatur, occorre tenere conto sia dell’incremento patrimoniale per la società derivante dalla mancata spesa (arricchimento) sia del depauperamento del socio stesso, detraendo, però, il concreto beneficio economico da lui percepito a titolo di maggiori utili.

Proprio l’elemento strutturale attinente alla qualificazione del rapporto come rapporto di lavoro, invece, consente di applicare l’art. 2126 c.c. e non l’art. 2041 c.c. alla domanda di riconoscimento del trattamento retributivo previsto per i pubblici dipendenti ai lavoratori socialmente utili in occasione di scostamento dal relativo progetto; ciò perché tale scostamento implica la qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato per il periodo di svolgimento della prestazione (cfr. ex multis Cass. n. 5608 del 2023).

La conformità al progetto, invece, esclude l’operatività dell’art. 2126 c.c., ma non sembra lasciare margini a quella dell’art. 2041 c.c., in quanto la fattispecie sarebbe integralmente sussumibile nelle disposizioni che disciplinano gli L.S.U.

La Suprema Corte (cfr. Cass. n. 30438 del 2023[3]), inoltre, ha recentemente ribadito l’applicazione dell’art. 2126 c.c. e non dell’art. 2041 c.c. alle prestazioni aggiuntive ed al lavoro straordinario svolto dal pubblico dipendente con qualifica non dirigenziale.

La Corte di Cassazione, al contrario, ha ritenuto applicabile l’art. 2041 c.c., in via sussidiaria, rispetto alla normativa di settore, in ordine ai vantaggi conseguiti dal datore per l’utilizzo delle invenzioni non brevettate realizzate dal lavoratore[4].

Proprio il settore del pubblico impiego privatizzato presenta anche altri esempi ove i limiti di operatività dell’art. 2041 c.c. e dell’art. 2126 c.c. non derivano dalla struttura degli istituti in esame, ma si desumono dai principi generali del diritto del lavoro.

Mentre, infatti, l’art. 2126 c.c. garantisce la retribuibilità del surplus orario svolto al personale non dirigenziale, il principio di onnicomprensività della retribuzione del personale dirigenziale osta all’accoglimento delle domande exart. 2041 c.c. connesse allo svolgimento di lavoro straordinario (Cass. n. 22853 del 2023[5]) od ai servizi di guardia notturna ed alla gestione dell’elisuperficie (Cass. n. 18140 del 2022).

3. …e nella materia della previdenza e dell’assistenza sociale.

Nel settore della previdenza e dell’assistenza, invece, il discorso risulta ancora più articolato.

In questo ambito non può trovare applicazione l’art. 2126 c.c., in ragione della carenza del relativo requisito strutturale, non essendo i rapporti previdenziali ed assistenziali riconducibili al modello di quello di lavoro.

Per tali ragioni, occorre verificare l’operatività dell’art. 2041 c.c. in base al settore considerato e ai principi che lo regolano.

Per quanto riguarda la materia degli indebiti sia previdenziali sia assistenziali, il rimedio in esame appare recessivo rispetto alla disciplina speciale.

Deve sicuramente negarsi l’esperibilità dell’azione di cui all’art. 2041 c.c. in caso di rigetto, per qualsiasi ragione, della pretesa restitutoria dell’I.N.P.S. (solvens/impoverito). In particolare, la prescrizione dell’indebito rientra nell’ipotesi di esclusione per fatto imputabile all’impoverito indicata dalle stesse Sezioni Unite, mentre le fattispeciedi irripetibilità si collegano al profilo della sussistenza di circostanze che paralizzano la detta pretesa restitutoria. Se il solvens potesse esperire vittoriosamente l’azione exart. 2041 c.c. per recuperare un importo dichiarato irripetibile, aggirerebbe le disposizioni che siffatta irripetibilità hanno sancito.

Vi sono, poi, ulteriori situazioni ove, pur non essendovi norme speciali, l’art. 2041 c.c. non è applicabile per difetto di uno dei suoi requisiti strutturali.

Non sussiste, infatti, il requisito del depauperamento patrimoniale nel contenzioso proposto dal privato per ottenere l’erogazione di una determinata prestazione.

In diverse circostanze ancora, deve ritenersi operante la nozione di sussidiarietà elaborata dalla Suprema Corte, come nell’eventualità di estinzione della domanda principale.

Si pensi, ad esempio, ai termini decadenziali di cui all’art. 24 d.lgs. n. 46 del 1999 nell’ambito delle opposizioni a cartelle esattoriali o ad avvisi di addebito. L’accertamento della richiesta di restituzione dei crediti cristallizzati in un avviso di addebito non opposto risulta precluso dal decorso del termine decadenziale per la proposizione dell’opposizione (avveramento di fatto estintivo).

Limiti di operatività all’azione di arricchimento ingiustificato discendono, infine, da altri principi di settore.

Si consideri il riconoscimento degli sgravi contributivi, in quanto il rigetto della relativa domanda per insussistenza dei requisiti previsti dalla legge o per carenza di prova determina la riespansione della norma generale che impone il pagamento dei contributi in misura piena e non ridotta.

Allo stesso modo, secondo la Suprema Corte (cfr. ex multis Cass. n. 27968 del 2023), non è esperibile l’azione di ingiustificato arricchimento da parte del privato nell’ipotesi di inutilizzabilità dei contributi versati per conseguire una prestazione pensionistica od assistenziale perché vi osta la struttura solidaristica dei sistemi previdenziali.

Analoghe considerazioni riguardano il pagamento di contributi I.N.A.I.L. superiori a quelli dovuti (cfr. Cass. n. 21562 del 2019). Anche in questo caso non è esercitabile l’azione di ingiustificato arricchimento; ciò in ragione della natura di dichiarazione di scienza della denuncia dei lavori di cui all’art. 12 d.P.R. n. 1124 del 1965, che rende di per sé legittima, salvo il potere di controllo dell’istituto assicuratore, l’imposizione contributiva ad essa corrispondente. Per tali ragioni, in presenza di dichiarazione erronea, il datore deve procedere, con le medesime modalità, alla presentazione della rettifica con altra denuncia.

4. Considerazioni finali.

Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale suindicato, è possibile ritenere come la portata applicativa dell’azione di generale arricchimento risulti davvero limitata nei settori del diritto del lavoro e della previdenza sociale non solo in ragione dell’esistenza di disposizioni espresse come l’art. 2126 c.c. ma anche in quanto un’interpretazione sistematica degli artt. 2041 e 2042 c.c. serve ad evitare rischi di elusione degli specifici principi che regolano tali settori.


[1] Per una ricostruzione generale dell’istituto cfr. bianca m., L’azione generale di arricchimento, in Diritto Civile, Vol. V, La responsabilità.

[2] Cfr. ex multis Cass. n. 10158 del 2017.

[3] Per la quale: “In pratica, nel settore del pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per il lavoro straordinario, spetta al lavoratore, che abbia posto in essere una prestazione rientrante nel normale rapporto di lavoro, anche ove la richiesta autorizzazione sia illegittima o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., interpretato alla luce del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 40 e dell’art. 97 Cost. prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario, se autorizzato nei termini sopra menzionati, con conseguente applicabilità dell’art. 2126 c.c. Il diritto a vedersi retribuita la prestazione resa, se rientrante nell’ordinario rapporto di lavoro ed autorizzata, trova tutela anche nella recente sentenza n. 8 del 2023 della Corte costituzionale, che individua nell’art. 2126 c.c. la disposizione che giustifica la pretesa a conseguire il corrispettivo per la prestazione fornita di fatto, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta. In quest’ottica, l’art. 2126 c.c. va letto alla luce degli artt. 35 e 36 Cost., in modo da rimuovere ogni ostacolo al pagamento di prestazioni comunque rese con il consenso del datore di lavoro, anche pubblico, seppure in contrasto con previsioni della contrattazione collettiva, con le regole autorizzatorie per esso previste o con i vincoli di spesa. Questa regola vale, chiaramente, per le prestazioni la cui esecuzione, come nel presente caso, non sia nulla per illiceità dell’oggetto o della causa. Siffatta conclusione trova conferma nella più recente giurisprudenza della S.C., la quale ha affermato che, in tema di pubblico impiego privatizzato, il riconoscimento del diritto a prestazioni c.d. aggiuntive – ai sensi del D.L. n. 402 del 2001, art. 1 conv., con modif., dalla L. n. 1 del 2002, richiamato ratione temporis dalla contrattazione collettiva del comparto sanità – è subordinato al ricorrere dei presupposti dell’autorizzazione regionale, della presenza in capo ai lavoratori di requisiti soggettivi e della determinazione tariffaria; tuttavia, pur in mancanza dei menzionati presupposti, l’attività lavorativa oltre il debito orario comporta il diritto al compenso per lavoro straordinario nella misura prevista dalla contrattazione collettiva, purché sussista il consenso datoriale che, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c., a nulla rilevando il superamento dei limiti e delle regole riguardanti la spesa pubblica che determina, però, la responsabilità dei funzionari verso la pubblica amministrazione (Cass., Sez. L, n. 18063 del 23 giugno 2023). Nello stesso senso si è espressa l’ordinanza della Sez. L, n. 25696 del 4 settembre 2023, per la quale, in tema di pubblico impiego privatizzato, l’affidamento di incarichi di progettazione, direzione lavori e simili, a lavoratori dipendenti della stazione appaltante in mancanza di stanziamenti previsti per la realizzazione dell’opera cui gli incarichi si riferiscono, se impedisce il sorgere del diritto al compenso incentivante ai sensi della L. n. 109 del 1994, art. 18 (nel testo all’epoca vigente), tuttavia non fa venire meno il diritto del lavoratore alla retribuzione aggiuntiva per lo svolgimento di attività oltre il debito orario di tali prestazioni di lavoro, corrispondente – in mancanza di altri parametri – alla misura propria del lavoro straordinario secondo la contrattazione collettiva tempo per tempo vigente, in quanto il consenso datoriale, comunque espresso, è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2108 c.c.”.

[4] Cass. n. 12089 del 2004: “Lo speciale compenso, previsto dall’art. 23 r.d. n. 1127 del 1939, in favore del lavoratore dipendente che abbia realizzato un’invenzione nello svolgimento del rapporto di lavoro, non spetta nel caso in cui la suddetta invenzione, pur essendo brevettabile, non sia stata brevettata. Il diritto di sfruttamento patrimoniale delle opere dell’ingegno realizzate dal lavoratore subordinato nello svolgimento del rapporto di lavoro spetta a titolo originario al datore di lavoro, a meno che il lavoratore non deduca e dimostri che, in base ad accordi collettivi o individuali, quel diritto è stato trasferito al datore a titolo oneroso. L’azione generale di arricchimento ingiustificato può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale possa essere fondato un diritto di credito; ne consegue che è inammissibile la domanda, formulata ex art. 2041 c.c., da parte del lavoratore dipendente il quale si dolga del fatto che il datore di lavoro abbia indebitamente sfruttato una sua opera dell’ingegno, in quanto tale domanda può essere alternativamente fondata o sull’inadempimento del contratto di edizione, ove sussistente, ovvero sull’inadempimento del contratto di lavoro”.

[5] Per la quale: “5. In via preliminare va ribadito quanto affermato da Sez. U., n. 9146 del 2009, Rv. 607467 – 01. In tema di dirigenza sanitaria, l’art. 65 del c.n.l. 5 dicembre 1996, area dirigenza medica e veterinaria, nel prevedere la corresponsione di una retribuzione di risultato compensativa anche dell’eventuale superamento dell’orario lavorativo per il raggiungimento dell’obiettivo assegnato, esclude, in generale, il diritto del dirigente, incaricato della direzione di struttura, ad essere compensato per lavoro straordinario, senza che, dunque, sia possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri ed immancabili dell’incarico affidatogli. Del pari va ribadito, quanto già affermato da Sez. L, n. 8261 del 2017, rv. 643587-01. Il principio di onnicomprensività della retribuzione, affermato del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 24, comma 3, e art. 27, comma 1, nonché art. 60, comma 3, del c.c.n.l. comparto dirigenza sanitaria dell’8 giugno 2000, opera inderogabilmente in tutti i casi in cui l’attività svolta sia riconducibile a funzioni e poteri connessi all’ufficio ricoperto ed a mansioni cui il dirigente è obbligato rientrando nei normali compiti di servizio, salvi i soli incarichi retribuiti a titolo professionale dall’Amministrazione sulla base di una norma espressa che gliene attribuisca il potere, sempre che ciò non costituisca comunque espletamento di compiti di istituto; ne consegue che l’incarico di componente delle commissioni invalidi civili, in quanto conferito al dirigente in ragione del ruolo rivestito, non comporta alcun diritto a compensi aggiuntivi .Nello stesso senso, con riguardo ai medici dipendenti delle Asl, Sez. L. n. 28150 del 2018, rv. 651517 – 01, ha ulteriormente ribadito che i dipendenti delle unità sanitarie locali, componenti delle commissioni invalidi civili, non hanno diritto a compensi aggiuntivi, dal momento che l’attività svolta non esula dal rapporto di impiego, la cui disciplina esclude che il datore possa riconoscere emolumenti ulteriori non previsti dalla disciplina contrattuale. Muovendo, insomma, dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 24, comma 3, deve nuovamente rimarcarsi che il trattamento fondamentale ed accessorio dei dirigenti è omnicomprensivo e li remunera di tutti i compiti e funzioni svolti, nonché per qualsiasi incarico conferito in ragione dell’ufficio o comunque conferito dall’Amministrazione. I richiamati principi, seppure affermati in relazione alla dirigenza medica del S.S.N., orientano nell’interpretazione delle analoghe disposizioni dettate per altri comparti. Le clausole contrattuali che riconoscono compensi aggiuntivi per determinate prestazioni hanno quindi portata eccezionale (e sono conseguentemente di stretta interpretazione) e ciò in ragione del rilievo che – come anticipato – gli incarichi istituzionali conferiti o svolti per designazione dal datore di lavoro rientrano nell’ambito della retribuzione dei dirigenti che, come più volte anticipato, è onnicomprensiva. È evidente, alla luce di quanto si è innanzi esposto, allora, che l’art. 65 cit., non è altro che espressione di un principio già immanente nel sistema, non è una disposizione speciale, esprimendo piuttosto un cardine in materia di retribuzione dei dirigenti, nella specie sanitari: il riconoscimento di retribuzioni ulteriori richiede previsioni espresse e derogatorie del principio di onnicomprensività. Né il principio poc’anzi ricordato soffre eccezioni quanto al superamento del normale orario di servizio previsto dal c.c.n.l., nella specie fissato, lo si ribadisce, nella misura di 38 ore settimanali. Del resto, nel pubblico impiego contrattualizzato, la regolazione dei compensi non può che discendere dall’applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, e art. 24, comma 1”.

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