di Giuseppe De Luca [1]
«Pazienza, voi ricercatori!
Il Mistero sarà illuminato
dalla sua propria luce”
Karl Kraus
Nel 1980, i due biologi: Humberto Maturana e Francisco Varela, coniarono il termine “Autopoiesi” (dal greco auto=sé stesso e poiesis=creazione) per teorizzare, secondo gli autori, un sistema che si ridefinisce incessantemente sostenendosi e riproducendosi dal proprio interno, attraverso una rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione delle proprie componenti.
Questa teoria è stata condivisa e attuata da alcuni illustri scienziati, che si sono occupati della cosmogenesi e che hanno sostenuto che l’universo permette la creazione di qualcosa dal nulla, purché si rispettino le leggi della natura; conseguentemente non è necessario invocare Dio per mettere in moto l’universo che si forma spontaneamente da sé.
La teoria dell’autopoiesi ha un valore emblematico, in quanto rappresenta, in modo efficace, una delle forme della degenerazione della scienza nello scientismo.
Lo scientismo, nel suo orgoglioso isolamento dalle altre discipline e soprattutto dalla metafisica, ha finito per risolversi, inevitabilmente, in una idolatria della scienza stessa, concepita come unica categoria capace di comprendere, in modo esaustivo, la realtà.
L’autoproduzione si è risolta, talvolta, in un espediente per rimuovere la ricerca e l’esplorazione della genesi, che spesso è avvolta nel mistero che ha generato l’universo.
Una confutazione radicale più autorevole nella tesi implicita dell’autopiesi è stata fatta da Albert Einstein, che, in una delle sue esternazioni, ha detto:
«Lo scienziato si meraviglia di fronte all’armonia delle leggi della natura, in cui si svela un’intelligenza a tal punto superiore che, in confronto ad essa, tutti inostri pensieri umani con tutta la loro genialità possono solo rilevarsi una nullità insignificante.»
Le leggi della natura non possono essere che il parto di una mente ordinatrice, le leggi stesse che regolano l’origine e l’evoluzione dell’universo devono essere necessariamente antecedenti alla sua comparsa, altrimenti si cadrebbe nella tautologia, secondo la quale l’universo esisterebbe prima di esistere.
Inoltre, A.Eintstein non ha mancato di sottolineare:
«Anche se gli assiomi della teoria sono posti dall’uomo, il successo di una tale impresa presuppone un alto grado di ordine nel mondo oggettivo che non era affatto giustificato prevedere a priori. È qui che compare il sentimento del mistero, che cresce sempre più con lo sviluppo della nostra conoscenza; è qui che sta il punto debole dei positivisti e degli atei di professione, che si sentono paghi per la coscienza di avere, con successo, non solo liberato il mondo da Dio, ma perfino di averlo privato dei miracoli. La cosa curiosa, certo, è che dobbiamo accontentarci di riconoscere il miracolo senza poter individuare una via legittima per andare oltre.»
Le stesse considerazioni valgono per lo studio dell’origine della vita.
Secondo Pierluigi Luisi, l’origine della vita è cellulare e solo cellulare.
Ogni cellula è autoreplicante, bisogna capire come è fatta una cellula e la spiegazione del suo automantenimento “autopoietico”.
La cellula ha una complessità incredibile, nessun singolo elemento e nemmeno i “genoma” sono viventi, solo l’interazione mutua dei componenti crea la vita.
Il problema dell’origine della vita è connotato dalla sincronicità degli elementi che la compongono; gli elementi che compongono la cellula si organizzano e danno luogo ad un sistema che presuppone un filtro selettivo, una necessità di scelta che implica la presenza di un criterio razionale quindi di una intelligenza necessariamente superiore.
Tutto ciò richiama la presenza di una informazione codificata, complessa e specializzata.
Ad esempio, il DNA, secondo lo scienziato inglese Stephen Hawking, è un computer perfetto e il computer non può nascere spontaneamente per caso o per leggi di natura, ma presuppone un’intelligenza superiore: l’informazione è necessariamente il prodotto di una “mente”.
Il ricorso alla nozione dell’autopoiesi serve, solo, per degradare la presenza di un disegno superiore, quello che è quantomeno un “mistero”, alla fantasiosa escogitazione di un tardo antropoformismo, che nasce a posteriori.
Dovunque c’è un codice di informazione è presente un disegno intelligente.
Ma la vita è più di una concentrazione di regolarità geometriche casuali, è qualcosa di totalmente diverso, tutto basato su informazione codificata, complessa e specializzata: il meccanismo del DNA di trascrizione, traduzione, replicazione è basato su un codice di programmazione di un computer.
Sappiamo che dovunque c’è informazione codificata, dotata di senso e scopo, la sorgente è intelligente al 100% delle volte, e il DNA ricade totalmente all’interno di questo quadro concettuale.
I tentativi di Luhmann, di applicare alle dinamiche sociali il principio dell’autopoiesi, sono stati ritenuti, da gran parte della dottrina, non condivisibili.
In effetti, Luhmann si muove in un contesto culturale, caratterizzato dalla teoria dominante della razionalizzazione di Max Weber.
Secondo Habermas, la teoria di Max Weber parte da due presupposti: l’autonomizzazione della scienza giuridica e la neutralizzazione della sfera etica, in particolare, l’indipendenza dalla teologia e dalla retorica umanistica.
In altri termini, egli afferma, riportando il pensiero di Weber:
«Agisce in maniera razionale, rispetto allo scopo, colui che orienta il suo agire al fine, ai mezzi, e alle conseguenze concomitanti, il perseguimento dei propri interessi in modo razionale, rispetto allo scopo strategicamente orientato al successo, in un sfera eticamente neutralizzata.»
Il punto cruciale della suddetta teoria è l’equiparazione del procedimento che sostituisce già di per sé una forma di legittimazione sostitutiva.
Purtroppo, accade che talvolta il mezzo finisce per diventare esso stesso fine o fine a sé stesso, si autonomizza l’elemento mediatore che assume il carattere di fine e perde il suo senso o scopo originario.
Destino non infrequente dei radicalismi estremi che portano, inevitabilmente, ad una forma di irrigidimento mentale, che anziché risolvere elude i problemi.
Allo stesso modo il problema della razionalizzazione del sapere giuridico tende a rovesciarsi nell’irrazionale autocrazia.
La legalità è un mezzo e quindi un derivato della legittimazione. Se l’elemento derivato (la legalità) prende il sopravvento su quello originario (la legittimazione), questa inversione concettuale si risolve in una palese anomalia istituzionale e può portare all’autocrazia, al decisionismo di Carl Shmitt.
Infatti, inevitabilmente, nell’accettazione della teoria decisionistica, si finisce per accettare questo risultato:
«La positivizzazione del diritto significa che può acquisire validità giuridica legittima per qualunque sia il contenuto e proprio con una decisione che conferisce validità al diritto, ma che gliela può anche togliere.»
Il diritto positivo, in conclusione, è caratterizzato da questa irrilevanza contenutistica; in particolare, la mera conformità della condotta al modello legale prescinde dal contenuto del modello stesso.
La conseguenza di questa impostazione è che lo stesso procedimento, che si identifica con la legittimazione, ha una vaga assonanza con il principio dell’autopoiesi.
Il risultato di questa impostazione è il ripudio non solo del criterio di legittimazione intesa come categoria autonoma, ma disancorata anche dai contesti antichi della tradizione, tra cui il rifiuto del diritto naturale.
In conclusione, l’inversione concettuale, secondo la quale è la legalità che sostituisce la legittimazione, comporta come conseguenza l’irrilevanza delle norme razionali del giusto agire, e apre l’adito al decisionismo.
Il diritto positivo, in conclusione, vige in forza della decisione.
La conseguenza di questa prospettiva è che nella grandi società complesse il procedimento si forma come modo autonomo e quasi autoproduttivo, prescindendo dalla legittimazione che è surrogata dalla legalità.
E pertanto il derivato può sostituire l’originale, come è già accaduto storicamente, e può spingere l’autocrazia e persino l’imposizione del “Führerprinzip”, che ha usurpato l’esistenza e la funzione della legittimazione.
Il ricorso di Luhmann all’autopiesi finisce quindi per eludere il concetto di legittimazione, così come, nel campo della cosmologia, è soppresso l’accertamento dell’esistenza di Dio e del mistero.
[1] Il testo è stato dettato e quindi scritto con l’ausilio di Rosalia Mariano, preziosa collaboratrice del Professore, che ha provveduto alla trascrizione e trasmissione dei Suoi pensieri e considerazioni.