1. E’ concretamente possibile oggi contemperare, all’interno degli Istituti, le esigenze di legalità con quelle di inclusione e di ascolto delle persone detenute?

Le disposizioni normative, contenute nella legge sull’Ordinamento Penitenziario e nel relativo Regolamento di attuazione, sono molto avanzate nel contesto europeo e certamente perseguono l’obiettivo di contemperare negli istituti penitenziari le esigenze di sicurezza e quelle di ascolto e di inclusione delle persone ristrette.

Tuttavia, nella realtà dette previsioni in diversi contesti continuano ad essere inattuate o vanificate a causa sia delle gravi scoperture organiche del personale di polizia penitenziaria e degli operatori dell’area pedagogica, sia della conformazione strutturale degli stessi istituti penitenziari, molti dei quali sono vecchi edifici che nei secoli scorsi erano appartenuti ad enti religiosi (poi incamerati dallo Stato unitario) oppure erano stati costruiti secondo i criteri di edilizia carceraria adottati all’epoca, ma oggi chiaramente obsoleti e superati.

Infine, è indubbio che l’attuale gravissima condizione di sovraffollamento degli istituti penitenziari acuisca maggiormente le suddette criticità, rendendo ancor più difficoltoso l’avvio di reali, seri, individualizzati e condivisi percorsi di trattamento intramurario finalizzati all’ascolto, all’inclusione e alla maturazione di una coscienza critica verso prassi e stili di vita devianti. 

  1. Quando le condizioni di decoro e igiene degli ambienti detentivi possono determinare l’aperta violazione dei diritti umani e quali sono le frontiere della tutela giurisdizionale di tali diritti lesi da condizioni degradanti e disumane?

La violazione dei diritti umani può realizzarsi nei casi in cui le persone detenute -ad esempio- vivono in ambienti angusti, malsani per la presenza di muffe sulle pareti, privi di acqua corrente, scarsamente riscaldati, dotati di bagni a vista, interessati da infiltrazioni d’acqua piovana anche nelle parti in cui sono presenti impianti e fili elettrici; non fanno socialità e sono costrette a restare in cella per molte ore della giornata; non possono frequentare corsi di studio né partecipare a laboratori culturali od a corsi di formazione professionale; non dispongono di spazi adeguati per praticare attività sportive o ricreative; ricevono una insufficiente, precaria, inadeguata, carente assistenza da parte degli operatori del Ser.D. e da parte del personale medico ed infermieristico; sono affette da patologie psichiatriche che non sono adeguatamente seguite e curate.

In altre parole, l’assenza del decoro e dell’igiene negli ambienti può concretizzarsi in situazioni variegate e con modalità diverse, che però sono accomunate dal fatto che pregiudicano e ledono i diritti fondamentali della persona detenuta (alla salute, alla vivibilità degli ambienti, allo studio, allo sport, al lavoro, alla cura delle dipendenze, etc.).

La Corte E.D.U. con la famosa sentenza ‘Torreggiani’ (2013) condannò lo Stato italiano per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; infatti, detta Corte, su ricorso di sette persone detenute, accertò e stabilì che le loro condizioni di detenzione -caratterizzate da sovraffollamento comportante una carcerazione disumana e degradante- erano lesive di quel nucleo di diritti fondamentali ed insopprimibili, che ciascuna persona conserva comunque anche se sia in vinculis.

Vi è da dire anche che diversi Stati europei sono stati condannati per le condizioni di sovraffollamento e di invivibilità riscontrate nei rispettivi istituti penitenziari.

In ogni caso la sentenza ‘Torreggiani’ portò il legislatore ad introdurre negli anni 2013 e 2014 -nel corpo della legge n. 354/1975- gli artt. 35-bis e 35-ter con cui ha rafforzato la tutela giurisdizionale dei diritti delle persone ristrette in carcere.

Ma, nonostante l’accoglimento di numerosi ricorsi proposti ai sensi di dette disposizioni, continuano tuttora a permanere le ataviche e gravissime condizioni di sovraffollamento lesive dei diritti fondamentali delle persone detenute.

Per quanto concerne le frontiere della tutela giurisdizionale dei diritti lesi da condizioni carcerarie degradanti e disumane, forse è il caso di ripensare e rafforzare non soltanto l’istituto del cd. ‘procedimento di ottemperanza’ previsto nell’art. 35-bis, commi 5 e ss. legge n. 354 cit., ma anche le funzioni di vigilanza ed il potere di direttiva attribuiti alla magistratura di sorveglianza dal combinato disposto degli artt. 35 e 69 legge n. 354 cit..

Inoltre, si potrebbe aumentare l’importo giornaliero di euro 8,00 previsto a titolo di risarcimento dei danni da carcerazione disumana e degradante.

Infine, si potrebbero stabilire criteri più certi per definire una carcerazione disumana e degradante; infatti, in questi dieci anni di applicazione dell’istituto di cui all’art. 35-ter legge n. 354 cit., si sono formati diversi orientamenti giurisprudenziali su alcune rilevantissime questioni concernenti -ad esempio- sia il calcolo della superficie netta pro capite al fine di stabilire se una carcerazione sia o meno disumana o degradante, sia l’individuazione e la valenza dei cc.dd. ‘fattori compensativi’ idonei ad escludere la sussistenza di una carcerazione disumana e degradante nel caso in cui la persona detenuta abbia fruito di superficie netta pro capite tra i 3 e 4 mq.

  1. E’ oggi effettivamente garantita negli istituti penitenziari la possibilità per le persone detenute di mantenere -in chiave risocializzante- i contatti con i propri riferimenti esterni in qualunque modalità e con qualsiasi strumento di comunicazione essi si avvalgano? In tale ottica, come va valutato lo schema di D.L. -recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri- sull’ampliamento delle telefonate mensili per le persone detenute?

I contatti delle persone in vinculis con il mondo esterno e soprattutto con i propri congiunti sono essenziali in una prospettiva risocializzante e rieducativa ai sensi dell’art. 27, comma 3 Costituzione.

Infatti, non dimentichiamo che la pena detentiva a tempo è sempre una ‘parentesi’ più o meno lunga, che si apre e prima o poi si chiude nella vita della persona condannata; anche la pena dell’ergastolo può portare la persona condannata ad avviare -dopo un determinato periodo di detenzione intramuraria stabilito dalla legge- percorsi risocializzanti in esternato quali, ad esempio, i permessi premio, il lavoro all’esterno, la detenzione domiciliare ex art. 47-quinquies legge n. 354 cit., la semilibertà, la liberazione condizionale.

In quest’ottica, il mantenimento dei contatti con l’esterno è una necessità vitale per la persona condannata, in quanto le consente di preparare quella ‘rete di supporto’, su cui potrà contare nel momento in cui sarà scarcerato per fine pena oppure inizierà a fruire di benefici in esternato; infatti, non poche persone detenute, in vista del fine pena, sono ‘preda’ della cd. ‘sindrome da scarcerazione’ e, perciò, vivono in maniera traumatica il passaggio dal carcere alla vita libera a causa proprio dell’assenza di supporti esterni sul piano familiare, abitativo, lavorativo, economico e sociale.

Ecco perché è necessario mantenere e, anzi, ampliare le possibilità di avviare e coltivare contatti con la realtà esterna al carcere.

E’ chiaro, però, che ogni contatto con l’esterno può costituire veicolo di rischi e pericoli anche molto gravi soprattutto nei casi in cui la persona detenuta è gravata da condanne per reati associativi ovvero provenga da consolidati contesti criminali ‘familistici’ di spessore e socialmente molto devastanti; in queste evenienze, occorre sì lasciare in qualche modo ‘aperta’ la porta della speranza del cambiamento, ma è altresì necessario predisporre un adeguato ed efficace reticolo di misure di controllo idonee a verificare la serietà delle ‘buone intenzioni’ manifestate o semplicemente asserite.

  1. Come definirebbe il trattamento intramurario praticato negli istituti penitenziari per le persone detenute?

Il trattamento intramurario può essere definito come un percorso di riflessione, che la persona condannata -se lo voglia- intraprende ‘con’ (cfr. art. 27, comma 1 Regolamento di esecuzione) tutti i soggetti istituzionali e gli operatori volontari legittimati a porre in essere interventi di accompagnamento negli istituti penitenziari; il riferimento è alla magistratura, al direttore dell’istituto, al garante delle persone detenute, alla polizia penitenziaria, al cappellano, agli operatori dell’area pedagogica, al personale medico ed infermieristico, al personale del Ser.D., alle associazioni di volontariato, ai docenti ed in genere a tutti coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari a titolo professionale e non.

In particolare, il trattamento intramurario richiama l’immagine della ‘ruota’ di una bicicletta, al cui centro è posta la persona detenuta ed i cui raggi sono rappresentati da tutti i suddetti soggetti istituzionali e volontari, i quali per un verso sono uniti tra loro dal cerchio esterno che identifica il dialogo serrato, lo scambio reciproco di informazioni, le azioni che essi sono sinergicamente chiamati a porre in essere; per altro verso, finalizzano tutti gli interventi di rispettiva competenza verso un unico obiettivo e, segnatamente, verso la ‘rieducazione’ della persona detenuta posta al centro della ruota stessa.

E’ chiaro, però, che la centralità della persona detenuta comporta che il trattamento intramurario non va imposto, ma più semplicemente spiegato e proposto dai suddetti soggetti e operatori penitenziari, i quali sono chiamati a porsi a fianco (non al di sopra) del reo; sarà, poi, costui a decidere se aderirvi o meno, seguirlo e svilupparlo secondo i tempi dettati dalla sua coscienza e dalle fasi di maturazione delle sue scelte verso la risocializzazione e la rivisitazione critica delle sue condotte devianti.

Infine, si evidenzia che la risocializzazione e la rivisitazione critica costituiscono il binomio inscindibile che -insieme al consenso del reo- caratterizza e sostanzia la finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27, comma 3 Cost..

  1. Ritiene che, all’interno degli istituti penitenziari, siano adeguatamente considerate le peculiarità di ciascuna persona ristretta in funzione del concreto avvio di percorsi rieducativi il più possibile individualizzati?

Il trattamento è come un abito personalissimo che -con il consenso della persona in vinculis- viene cucito su misura.

Purtroppo le croniche scoperture organiche del personale dell’area pedagogica, le carenze logistiche e strutturali di molti istituti penitenziari, l’insufficienza delle risorse anche finanziarie -destinate alle attività trattamentali delle persone ristrette- tarpano spesso le ali a percorsi risocializzanti individuali.

  1. Le R.E.M.S. nell’attuale assetto sono o no in grado, secondo lei, di svolgere le proprie funzioni e, soprattutto, di adottare terapie strettamente personali nei confronti della persona ospitata, tenendo conto della sua pericolosità sociale e del reato commesso?

Dipende dalla condizione operativa delle singole REMS e dalle Regioni in cui esse operano; infatti, si è in presenza di un situazione che definirei a ‘macchia di leopardo’, in quanto a fronte di Strutture virtuose si riscontrano altre segnate da carenze e problematiche più o meno gravi.

Molto dipende non soltanto dal sostrato motivazionale e dalla professionalità di chi opera all’interno delle REMS, ma anche dalla sensibilità politica e del grado di attenzione, che gli organismi regionali competenti hanno maturato e riservano ai servizi erogati.

  1. Qual è il suo parere sul tema di scottante attualità concernente la legittimità della detenzione in Istituto penitenziario di persone, nei cui confronti il giudice abbia applicato la misura di sicurezza, provvisoria o definitiva, in attesa di reperire un posto libero nella R.E.M.S. territorialmente competente? (cfr. da ultimo il caso Federico Brunetti c/ Italia).

La domanda focalizza una problematica gravissima, che per un verso evidenzia la palese insufficienza dei posti disponibili nelle REMS, per altro verso pongono il problema della legittimità (o illiceità) di una detenzione sine titulo.

La questione delle cc.dd. ‘liste di attesa’, per quelle persone che -per la mancanza di posti disponibili in REMS- sono nel frattempo ‘parcheggiate’ in un istituto penitenziario, porta a verificare se la detenzione sia in contrasto con diversi diritti costituzionalmente riconosciuti e tutelati: quello dell’art. 13 sull’inviolabilità della libertà personale; quello dell’art. 32 sul diritto alla salute ed alle cure; quello di legalità e tassatività che presiede la previsione e l’esecuzione delle pene detentive e delle misure di sicurezza.

I competenti organismi statali e regionali sono chiamati a dare risposte risolutive alla problematica.

  1. Come può configurarsi e sostanziarsi un ottimale rapporto tra Garante delle persone detenute e Magistratura di Sorveglianza?

Il Garante e la Magistratura di Sorveglianza, pur nella diversità delle funzioni, sono chiamati entrambi ad essere -come già evidenziato- due raggi della stessa ruota di bicicletta ovvero ad operare nel dialogo serrato e nel confronto reciproco nell’unica direzione della risocializzazione e rieducazione della persona detenuta, che è al centro della ruota stessa, secondo la finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27, comma 3 Cost..

  1. Atteso il considerevole numero di atti di autolesionismo e suicidi negli istituti penitenziari, ritiene sufficienti i servizi di assistenza psichiatrica attualmente operanti per le persone ristrette?

Assolutamente no.

Devo evidenziare, però, che in alcuni contesti mancano risorse finanziarie sufficienti per allestire servizi efficaci e adeguati; invece, in altre realtà le risorse finanziarie ci sono, ma vanno a vuoto i bandi indetti per coprire i posti del personale medico e infermieristico specializzato.

Inoltre, in alcuni istituti mancano protocolli operativi oppure, se ci sono, vanno aggiornati; infine, in diverse realtà si riscontrano prassi carenti sotto il profilo del raccordo tra servizi intramurari ed organismi specialistici territoriali.

In ogni caso, ritengo che la cura della salute mentale delle persone detenute sia una delle criticità da risolvere in via prioritaria.

  1. A suo giudizio, è positivo o no il bilancio -sotto il profilo qualitativo e quantitativo- sullo scambio di informazioni circa la salute dei ristretti tra AA.SS.LL. e Garante delle persone detenute?

Non saprei, perché non ho contezza delle prassi adottate e degli interventi effettuati dal Garante in materia.

  1. Fino a che punto l’attuale sistema delle misure alternative è in grado di garantire un percorso di positivo reinserimento piuttosto che una mera riduzione di afflittività della espiazione in regime carcerario?

Premetto che la Magistratura di Sorveglianza, allorquando concede una misura alternativa, non ha la ‘palla magica’ nella quale leggere l’evoluzione comportamentale della persona condannata ovvero prevedere se il beneficio ricevuto contribuisca effettivamente a reinserirla nel suo contesto familiare e socio-lavorativo ed a far germogliare nella sua coscienza la riflessione critica in ordine ai reati perpetrati, al fine di distaccarsi da ambienti e stili di vita devianti, criminosi e criminogeni.

Tuttavia, rilevo che statisticamente il tasso di recidiva -per la persona condannata che accede ad una misura alternativa- è più basso rispetto a quello di chi espia in regime carcerario l’intera pena inflittagli con la sentenza di condanna.

Devo, infine, evidenziare che la possibilità di accedere alla giustizia riparativa (introdotta dalla ‘Riforma Cartabia’), sin dal primo contatto con l’autorità giudiziaria e persino nella fase dell’esecuzione della pena anche in misura alternativa al carcere, costituisca per il reo una potente ed efficace occasione per rielaborare criticamente la vicenda criminosa che lo ha visto protagonista, nonché per avviare un serio e autentico percorso risocializzante, purché l’autore del reato lo voglia nell’intimo della sua coscienza.

  1. Qual è -in termini qualitativi e quantitativi- il suo giudizio sullo svolgimento di attività culturali, sportive e ricreative all’interno degli Istituti?

Nella mia quasi ventennale esperienza di magistrato di sorveglianza ho potuto constatare che la persona condannata in espiazione della pena in regime carcerario, allorquando partecipi ad iniziative culturali e/o svolga attività ricreative e sportive, sembra raggiungere una condizione personale di maggior benessere ed equilibrio ed essere più predisposto a saper coltivare e curare le relazioni personali.

Diversi anni fa fui invitato a tenere in un convegno una relazione sul tema ‘Maternità e carcere’; gli organizzatori mi chiesero se nel corso del convegno fosse possibile far intervenire una persona detenuta, che potesse fornire una testimonianza di vita sul rapporto con i propri figli rimasti a casa.

Riuscii ad avere la disponibilità di una persona detenuta, che stava scontando una lunga pena ed aveva due figli con cui aveva contatti regolari e colloqui periodici anche telefonici.

Quella persona detenuta rese una testimonianza molto toccante, che fu apprezzata con un lungo e caloroso applauso da parte dei convegnisti, fra i quali c’erano anche magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine.

Quella persona detenuta divenne nell’istituto penitenziario un esempio positivo per tutte le altre persone recluse.

Un altro episodio, fra i tanti che affiorano nella mia memoria, devo raccontare.

Un nutrito gruppo di persone detenute mi presentò un reclamo ex art. 35-bis legge n. 354 cit. teso alla realizzazione di due campetti di calcetto, di cui era del tutto sprovvisto l’Istituto penitenziario in cui erano ristretti.

Incardinai il procedimento, che istruii e definii con un provvedimento con cui ordinai alla Direzione dell’Istituto di realizzare due campetti di calcetto entro un certo termine; la Direzione nel termine fissato realizzò i due campetti.

Dopo circa dieci anni partecipai ad una rappresentazione teatrale, che un gruppo di persone detenute tenne in un altro istituto penitenziario; al termine della rappresentazione, mi avvicinai al gruppo degli attori detenuti, per stringere a ciascuno la mano e ringraziarli per l’eccellente iniziativa organizzata e portata a termine.

Uno degli attori, mentre gli stringevo la mano, mi disse che era uno dei firmatari del suddetto reclamo con cui era stata chiesta la realizzazione dei campetti di calcetto; ebbi con lui un colloquio, che durò diversi minuti, nel corso del quale mi ringraziò ripetutamente per il provvedimento che avevo adottato anni prima, evidenziandomi che -grazie a quei campetti- era riuscito a mantenere una freschezza fisica e soprattutto mentale, che gli aveva consentito di sopportare meglio il lungo periodo di carcerazione, cui era ancora sottoposto.

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