Premessa di Mirella Cervadoro

Giorni fa, tramite l’avv. Ambra Giovene, mi sono pervenute alcune profonde riflessioni di Giuseppe De Luca[1], sul gioco (e sul processo), che il Professore ci ha voluto regalare, con l’affetto e la passione di un Maestro.

Il gioco rappresenta una parte complessa dell’evoluzione dell’Homo Sapiens, attraverso cui si è evoluta la specie; è uno strumento attraverso cui si instaurano i legami sociali e amorosi, nonché la base del linguaggio, dei comportamenti e dei significati. E, come diceva, George Bernard Shaw “L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare”.

Nelle sue riflessioni, Giuseppe De Luca parte dal valore del gioco nella vita sociale per arrivare al valore del gioco nel processo penale, secondo i canoni del rito accusatorio. Per rammentarci, infine, il valore della toga quale “uniformità stilizzata, che simbolicamente corregge tutte le intemperanze personali e scolorisce le disuguaglianze individuali dell’uomo sotto l’oscura divisa della funzione”.

I riti, e le toghe, per tutti noi, e per i più giovani in particolare, possono sembrare ridicoli e inutili orpelli. Personalmente, sono sempre stata affezionata alla mia toga e l’ho ritenuta, negli anni di attività professionale, una cara compagna e una protezione, che una volta indossata mi consentiva di essere più acuta nel pensare e più chiara nell’esprimermi.

Dopo aver a lungo meditato sulle parole di De Luca, credo non sia azzardato affermare che la Toga, che non è solo un pezzo di stoffa nero, può essere ancora e a maggior ragione oggi ( in una società, nella quale, usando le parole di Bauman “le situazioni si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure [e] la vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo”), di grande aiuto al giudice nel suo difficile mestiere. In particolare, nell’uso della logica e nel difficile esercizio dell’ascolto, come un altro da sé, cosa che nessun algoritmo e nessuna I.A. potrà mai fare. Preservando così quell’indispensabile “umanità” nell’attività più impegnativa e difficile di tutte: il “giudizio”.

E per ringraziare del privilegio e dell’onore per la Rivista di poter pubblicare l’articolo inviatoci da Giuseppe De Luca, pensando di fare cosa gradita, ecco un breve ma incisivo ritratto dell’attività didattica del Professore all’Università di Bologna (Università rimasta nei suoi ricordi più cari[2]), da “L’insegnamento della Procedura penale nell’Università di Bologna (1861-1988)”, di Renzo Orlandi[3]

«7. Riscoperta dei diritti individuali e visione costituzionale del processo penale (1963-1988)

L’anno 1963 ha un’importanza particolarissima per l’insegnamento della procedura penale nell’ateneo bolognese. Viene per la prima volta chiamato un processualista “puro”. Finisce, si può dire definitivamente, la pratica di affidare la disciplina processuale per incarico al penalista di turno. Dopo un quarto di secolo, diventa effettiva, a Bologna, l’autonomia stabilita ufficialmente nel regio decreto del 1938 citato in precedenza. La scelta cade su Giuseppe De Luca che nel triennio precedente aveva insegnato la procedura penale a Trieste. Sensibile il cambio di passo rispetto all’insegnamento di Silvio Ranieri (che per un quinquennio continuerà a tenere la cattedra di Diritto penale). De Luca (classe 1926) era allievo di Francesco Carnelutti: del Carnelutti già anziano, che – come anticipato – aveva desiderato chiudere la sua mirabolante carriera accademica nella facoltà giuridica romana, insegnando a sua volta Procedura penale (dal 1946 al 1949) sulla cattedra lasciata libera da Filippo Grispigni. De Luca affiancherà il grande giurista friulano in importanti iniziative volte ad animare il dibattito – vivacissimo fra fine anni ’50 e inizio anni ’60 – sulle riforme del processo penale. Poco prima di essere chiamato a Bologna, lo troviamo all’opera – poco più che trentenne – nella organizzazione di un convegno veneziano (settembre 1961) voluto da Carnelutti sulla riforma del processo penale. Da quel convegno – al quale era presente l’allora ministro di grazia e giustizia Guido Gonella – nasce l’idea di istituire una Commissione per la riforma del processo penale, presieduta dallo stesso Carnelutti. Nella commissione Carnelutti chiama al proprio fianco alcuni giovani[4], promettenti penalisti e processualisti: Giovanni Conso, Franco Cordero, Pietro Nuvolone, Giuliano Vassalli e il suo allievo diretto Giuseppe De Luca, con funzioni di segretario. Nell’autunno del 1962 la Commissione (ridottasi alla fine ai soli Carnelutti, Vassalli e Nicola Reale, avvocato generale presso la Corte di cassazione, con De Luca ancora in funzione di segretario) licenzia nel settembre del 1962 una bozza di riforma del codice di rito penale in 227 articoli. Si tratta di un documento di eccezionale importanza per le sorti della procedura penale italiana, perché sull’idea ispiratrice del progetto (separare la fase investigativa da quella dibattimentale per esaltare il contraddittorio nella formazione della prova) si imbastirà la riforma processuale destinata a sfociare nel codice del 1988.

Quanto all’attività scientifica la produzione di Giuseppe De Luca annovera studi pregevoli. La monografia giovanile in materia cautelare completata da due significative voci redatte per la neonata Enciclopedia del diritto. Di notevole spessore la monografia più matura su “I limiti soggettivi della cosa giudicata penale” (Milano, Giuffrè, 1963), con la quale l’autore anticipa di un decennio la giurisprudenza della Corte costituzionale che, in nome del diritto di difesa (art, 24 comma 2 Cost.), ridimensiona considerevolmente l’effetto vincolante del giudicato penale in altri giudizi (penali ed extra-penali). Il diritto individuale dell’imputato prevale sulla mistica del giudicato: un rovesciamento del rapporto fra cittadino e Stato, colto (tale rapporto) in uno degli aspetti simbolicamente più pregnanti, quello dell’insuperabile autorità delle decisioni giudiziarie.

De Luca lascerà l’ateneo bolognese nel 1974 per trasferirsi all’Università di Roma-La Sapienza».

Concludo questa breve presentazione, ricordando che il 2 giugno 2024 il professor Giuseppe De Luca ha compiuto 98 anni.

Al Professore giungano pertanto con affettuosa riconoscenza gli auguri più sinceri di Buon Compleanno, miei personali, di Ambra Giovene e di Antonio Balsamo, anche a nome di tutti i componenti della rivista Diritto, Giustizia e Costituzione. Al coro di auguri, si unisce Renzo Orlandi anche simbolicamente in “rappresentanza” dell’Università di Bologna, dove il Professore ha insegnato dal 1963 al 1974


[1]  Il Professore da qualche anno ha qualche problema di vista e non ha potuto revisionare il testo; per questo si è scusato anche per la lunghezza con la signorilità e i modi garbati che gli appartengono, precisando che è molto più difficile esprimersi quando non si può di persona provvedere alla revisione e correzione. Ho lasciato il testo così come l’ho ricevuto, perché – nonostante la mancata revisione – appare di una straordinaria chiarezza e profondità di pensiero.

[2] A Bologna il Professore ha lasciato un segno profondo del Suo insegnamento. Ricordo bene che dell’esperienza felsinea, negli anni romani, raccontava poi con profondo affetto e forse un poco di “rimpianto”.

[3] Cfr. R.Orlandi, “L’insegnamento della Procedura penale nell’Università di Bologna (1861-1988)” in Giuseppe de Vergottini e Alessandra Zanobetti (a cura di), La vocazione di formare giuristi Maestri e insegnamenti della Facoltà giuridica bolognese, Bologna, 2024, p.153.

[4] Nessuno di loro aveva superato la soglia dei cinquant’anni, mentre Carnelutti era già ultraottantenne.

Gioco (e Processo)
di Giuseppe De Luca

Tra i fenomeni che trovano maggiore espressione nella cultura moderna il gioco è forse il più trascurato dagli studiosi di scienze sociali.
Anche se si presenta con grande frequenza nella vita quotidiana, esso non occupa un posto di rilievo nelle attenzioni dei sociologi e dei giuristi, quasi che venga considerato un elemento marginale o degradato della fenomenologia sociale: quasi che l’occuparsi di gioco sia esso stesso un gioco, ossia qualcosa di futile, di irrilevante, di trascurabile per la storia giuridica e sociologica.
Non è vera, perciò, l’osservazione che il gioco non rientra nella dimensione della serietà, anzi potrebbe trattarsi della più seria ed essenziale delle nostre attività.
La superficialità del gioco potrebbe ben rappresentare un auto inganno con il quale noi ne riduciamo illusoriamente l’importanza.
L’istituzione gioco è solo l’aspetto più esteriore e più evidente di un fenomeno che coinvolge a più livelli la realtà sociale.
L’istituzione gioco è l’espressione di un bisogno di semplificazione della complessità della vita quotidiana, di rappresentazione di una società nella quale prevale il bisogno di certezza della norma, l’eguaglianza degli elettori, una giustizia obiettiva nella distribuzione delle ricompense e delle gratificazioni e la possibilità di espressione di atteggiamenti (spirito d’avventura e rischio) che sono connaturati all’uomo e che spesso non hanno possibilità di manifestarsi nei sentieri della vita quotidiana, Il gioco, come vedremo, è la forma stessa della socialità e un elemento essenziale di tutti i processi sociali.
Questa osservazione sollecita una serie di interrogativi che attendono risposta.
Che cosa si nasconde dietro un fenomeno vecchio quanto l’uomo, che incontriamo ripetutamente nella vita quotidiana e che si riproduce come rischio, come sfida, come antagonismo, come ebbrezza?
C’è differenza tra “il grande gioco della via” di cui parlava Nietzche e il gioco dei bambini all’angolo della strada? Viviamo in una società di gioco?
Che cosa sta a significare la grande diffusione dei giochi, dal quiz alle lotterie, che si verifica nella società contemporanea, ovvero in una società razionalizzata che tende a fissare gli individui negli schemi della sua cultura, regolandone fin nei più minuti dettagli il comportamento?
Si parla di gioco dell’amore per rappresentare quei momenti e l’intreccio complesso e misterioso dell’incontro sessuale in sé contraddittori, che costituiscono l’attrazione reciproca.
Si parla di gioco per chi vuole sfidare la sorte, sfidare l’altro, rappresentare una situazione, impegnando, anche in un contesto ritualmente e artificialmente costruito, tutta la tensione di cui la propria personalità è capace.
Proviamo allora a riflettere su questo concetto di gioco e proviamo ad applicarlo come possibile categoria giuridica per capire il nuovo processo.
Il concetto di gioco infatti sembra, a mio avviso, il più adatto a specificare dall’interno l’idea di processo, in quanto il gioco presuppone regole e aspettative, prefigurazioni, possibilità, alternative, contraddizioni e tensioni, ogni gioco è un processo. Ma è anche vero che ogni processo, in quanto contiene connotazioni ludiche e rituali, è a sua volta un gioco.
Chi partecipa al processo, infatti, è inserito necessariamente in un gioco di ruoli, cioè in un cerimoniale, per svolgere la sua funzione. Una volta che abbia partecipato all’accordo preventivo, deve accettare anche le regole cerimoniali, che fanno parte delle regole del gioco.
Chi ha partecipato all’accordo preventivo deve accettare anche la decisione finale, qualunque sia il contenuto e le motivazioni personali di ciascuno.
Il cerimoniale è una sorta di valvola di sicurezza che assorbe critiche, obiezioni e risentimenti. Perché l’esito del processo sia accettato da tutti è necessario sviluppare strategie, cerimoniale e regole del gioco, dirette a coinvolgere – attraverso il gioco dei ruoli – tutti i partecipanti (parti e giudice).
Un primo stimolo al coinvolgimento che il cerimoniale impone è costituito dalla coerenza nella rappresentazione di sé stessi: chi si presenta come terzo (ad esempio il giudice) non può apparire, neppure fuori dal processo, come parte.
Questa attesa sociale, che è implicita nell’attenzione rituale e nelle aspettative cerimoniali degli spettatori, vale a dire l’aspettativa che si resti coerenti a sé stessi e quindi al proprio ruolo, esercita una rilevante pressione sulle parti sul giudice: il comportamento deve essere necessariamente conforme al ruolo. Ciò significa che l’attore sociale è obbligato a una continuità di autorappresentazione.
Il cerimoniale è dunque un’importante mezzo per coinvolgere i protagonisti del gioco e costringerli, attraverso un congegno di spinte psicologiche, a rispettare le regole.
Abbiamo già acquisito due dati caratteristici del gioco.
I giochi – quindi anche il gioco istituzione tra cui il processo – devono essere limitati nel tempo, nello spazio e nel numero, cioè devono avere limitazioni interne. Accordarsi su limitazioni interne equivale a stabilire le regole del gioco.
Quel che le regole stabiliscono è una verità di limitazioni imposte ai giocatori: ogni giocatore per esempio deve partire da dietro la linea bianca. Con il nuovo codice, il pubblico ministero deve partire prima della difesa, etc.
Le regole si limitano a restringere la libertà di giocatori consentendo però – e qui sta il paradosso affascinante del gioco – una considerevole libertà di scelta entro queste restrizioni.
Se queste restrizioni non vengono osservate, il risultato finale del gioco ne risulta direttamente minacciato.
Le regole di un gioco sono i termini contrattuali in base ai quali i giocatori possono trovarsi d’accordo su chi è il vincitore.
Se le regole di un gioco sono esclusive di quel gioco, è evidente che le regole non possono cambiare nel corso del gioco, altrimenti si giocherebbe un gioco diverso.
Tutte le limitazioni del modo di giocare sono autolimitazioni.
Una volta che il gioco abbia inizio, ogni parte deve essere assunta con grande serietà: un giocatore deve vedere in sé stesso il giudice, oppure il pubblico ministero, oppure l’avvocato.
Nell’esercizio appropriato di tali ruoli, noi crediamo fermamente di essere le persone che tali ruoli ritraggono. Di più: noi rendiamo quei ruoli credibili agli altri.
È nella natura della recitazione, disse Shaw, che noi non vediamo questa donna come Ofelia, ma Ofelia come questa donna.
Quando l’attrice recita parole e sentimenti appartengono non all’attrice bensì al ruolo.
Di fatto, una delle richieste della sua professione è proprio che essa mantenga la propria persona distinta dal ruolo.
Giudice, avvocati e pubblici ministeri, devono mantenere le proprie personalità distinte dai ruoli.
Quel che essi sentono come persona (le variabili soggettive a livello inconscio, le indignazioni personali di ciascuno, i rancori sociali contro intere categorie, la commistione tra significati privati e significati giudiziari dell’interpretazione di una vicenda, i pregiudizi) non ha niente, non deve aver niente a che vedere con il ruolo che impersona: non deve entrare nella sua interpretazione del ruolo, cioè della parte che gli viene assegnata.
Ciò vale per tutti i ruoli, e noi pubblico siamo complici di questa scissione, di questa duplicazione tra persona e ruolo e, perché no, complici di questo auto mascheramento: nel gioco, l’immedesimazione con il ruolo è tale che talvolta ci chiediamo se siamo veramente disposti a gettare il velo e riconoscere apertamente che abbiamo scelto liberamente di porci davanti al mondo indossando una maschera.
La serietà è sempre connessa ai ruoli: è più probabile che prendiamo sul serio un giudice, o un agente di polizia, se lo vediamo con la toga [o con la divisa] che non se lo vediamo mentre sta indossando o non ancora indossato la toga.
La serietà ha sempre a che fare con un copione stabilito, con un ordine di cose che è stato messo a punto in precedenza.
In quanto un gioco mira a una conclusione e in quanto i suoi ruoli sono scritti ed eseguiti per un pubblico, designeremo questo modo di giocare come teatrale: nel gioco si obbedisce alle regole, le regole costituiscono un copione.
Un copione è composto rispettando le regole, ma non si identifica con le regole; il copione, la prefigurazione di come si svolgeranno le azioni dei giocatori, non può essere messo per iscritto in anticipo: il verbale di udienza è la registrazione scritta degli scambi verbali dei giocatori, ma il verbale non si può preparare in anticipo, perché non si sa quello che succederà.
In ogni gioco, nel senso autentico della parola, il copione viene composto nel corso del gioco. Durante il gioco, lo svolgimento di ogni gioco è drammatico, perché il risultato finale è ancora sconosciuto. Che il risultato non sia noto è ciò che ne fa un vero gioco. Il carattere spettacolare o teatrale del gioco emerge a posteriori ed è una conseguenza del fatto che c’è un risultato finale, quindi lo scioglimento di un enigma.
Il gioco è drammatico, ma solo provvisoriamente, durante il suo svolgimento. Non appena il gioco è concluso, possiamo ricostruirlo al rallentatore e vedere come la sequenza delle mosse, anche se eseguite liberamente dai competitori, non avrebbe potuto dare un risultato finale diverso.
Il fatto che un gioco sia drammatico solo provvisoriamente, significa che è intenzione di ogni giocatore eliminare il dramma rendendo inevitabile e quindi imprevedibile il risultato preferito.
È desiderio di tutti i giocatori essere maestri nel loro gioco, essere così abili che nulla possa sorprenderli, così perfettamente addestrati da poter prevedere in anticipo ogni mossa del gioco. Quello che accade nello scopone scientifico quando, ponendo attenzione allo scarto, il maestro conosce tutte le carte che sono rimaste in mano all’avversario.
Un vero maestro gioca come se il gioco appartenesse già al passato, secondo un copione, ogni particolare del quale sia già noto prima dell’inizio del gioco, l’àlea e quindi la sorpresa è un elemento cruciale nella maggior parte dei giochi.
Se non siamo addestrati a far fronte a ciascuna delle possibili mosse di un oppositore, abbiamo certamente maggiori probabilità di perdere.
Al contrario, avremo maggiori probabilità di vincere se riusciamo a sorprendere il nostro avversario.
La sorpresa dei giochi è il trionfo del passato sul futuro.
Il maestro, che sa già quali mosse si debbano fare, ha un vantaggio decisivo sul giocatore non addestrato, che non sa ancora quali mosse si faranno.
Poiché i giocatori di un gioco sono addestrati a impedire al futuro di modificare il passato, devono celare le loro mosse future. L’avversario impreparato deve essere colto impreparato.
I giocatori devono apparire qualcosa di diverso da ciò che sono.
Tutto, nel loro aspetto, deve mascherare la loro vera realtà.
Tutte le mosse di un giocatore devono essere ingannevoli, finte, azioni diversive, bluff come a poker, misteri.
Da che cosa nasce questa intensa predisposizione o vocazione al gioco?
Noi viviamo in una società della “solitudine violata”, come ha dimostrato Kafka.
Si presentano così nel gioco due elementi antagonisti, anzi contraddittori ma compresenti: la necessità della regola e la necessità del comportamento eccentrico dell’attore sociale.
Ordine e individualità, costrizione e libertà sono racchiusi paradossalmente nel concetto di gioco. Il gioco vive di costrizione e muore di libertà.
Il gioco esige l’ordine (senza ordine non è possibile una forma corretta di conoscenza): il processo è un’ordinato alternarsi di più persone, che si succedono sulla ribalta come gli attori di un dramma, in quanto l’uomo non riesce a vincere l’insicurezza.
Il gioco inteso come àlea, anzichè come agòn, è un gioco che si fonda su una decisione che non dipende dal giocatore e sul quale egli non può minimamente far presa, giochi nei quali si tratta di vincere non tanto un avversario, quanto il destino (dadi, roulette, lotterie) e quindi è meno gioco dell’agòne.
Al contrario, se il gioco è troppo minuziosamente regolato e non si lasciano spazi di indeterminazione al giocatore, nel senso che tutto è già prefigurato in un copione prestabilito, per una ragione opposta e complementare, al pari dell’àlea, è meno gioco.
Nella misura in cui, per il reticolo di regole, l’azione del giocatore diventa prevedibile e quindi sicura, essa perde di valore e di attenzione.
L’individuo ha bisogno di ricaricarsi in continuazione, di ricreare attenzione e tensione nei suoi campi di azione, di ricostruire l’insicurezza nella sicurezza.
Se aumenta, per l’eccesso di regole, la sicurezza del risultato dell’azione, si accresce la monotonia della ripetizione meccanica e perde valore la gratificazione ottenuta.
Così l’attore va alla ricerca di nuovi fini in certo modo insicuri, i quali però, ricreando tensioni e concentrazioni della personalità, rialzano notevolmente il valore della gratificazione.
Il margine di gioco si pone dunque tra due poli estremi: tra la sicurezza dell’azione che annulla e toglie tensione all’individuo e l’insicurezza e il rischio capaci, se si supera ogni limite, di trasformare il gioco competitivo in àlea.
Perciò la regola è un complemento inseparabile del gioco, però si esige nel contempo un margine di incertezza, cioè uno spazio di gioco.
La regola tende a catturare e a fissare l’individualità e questo è indispensabile al gioco.
Per altro verso il gioco rappresenta, con i suoi spazi di indeterminazione, la libertà dell’individuo, il recupero della realtà e quindi anche la sfida e la ricerca.
È una struttura e una configurazione ricca di contraddizioni che comprende le regole del gioco e la capacità di giocare con le regole.
Il gioco è libertà e invenzione, fantasia e disciplina insieme.
Oggi, ad esempio, si predica la trasparenza; nel linguaggio politico e giornalistico questa parola significa svelare: svelare la vita degli individui allo sguardo pubblico. La casa di vetro: un’antica utopia e al tempo stesso uno degli aspetti più inquietanti della vita moderna.
La regola imperativa della buona creanza del processo inquisitorio è la seguente: più gli affari dello Stato sono opachi, più devono essere trasparenti quelli degli individui.
L’inquisizione, come la burocrazia, è anonima, segreta, in codice, inintellegibile, mentre il privato è obbligato a svelare la sua salute, le sue finanze, la sua situazione familiare, e, se così ha deciso il verdetto dei mass media, non troverà il rispetto più nell’amore, nella malattia o nella morte, un solo istante di intimità.
Il desiderio di violare l’intimità altrui è una forma ancestrale di aggressività che oggigiorno è istituzionalizzata (la burocrazia con le sue schede, la stampa con i suoi reporter), moralmente giustificata (il diritto all’informazione e il dovere di verità sono due dogmi infrangibili) e politicizzata con quella bella parola “trasparenza”.
Le anime liriche che amano predicare la trasparenza della vita privata non si rendono conto del meccanismo perverso che mettono in moto.
Anche la storia di Josef K, ne “Il processo” di Kafka, ha inizio con la violazione dell’intimità: due signori sconosciuti vengono ad arrestarlo nel suo letto.
Ma se così è, perché l’uomo entra così frequentemente nel mondo fittizio del gioco e aspira al processo, cioè a un modello conoscitivo basato sul gioco inteso come competizione, agòne, cioè come gara?
C’è un elemento che spinge gli uomini al gioco. Questa è la possibilità di produrre un mondo fittizio, nel quale può essere consentito all’attore di appropriarsi di una realtà altrimenti avversa o distante o ostile.
L’aspirazione al gioco è una ribellione alla costruzione della realtà, in cui la personalità dell’individuo, a causa della crescente penetrazione dello Stato nei chiusi recinti della sua vita privata, è racchiusa entro schemi rigidi e quasi pietrificata nel mondo del gioco limitato nello spazio e nel tempo e fissato dalle regole, il singolo si libera dalle soffocanti costrizioni e lancia la sua sfida al destino, all’altro, all’immagine, a sé stesso.
Abbiamo quattro tipi di gioco: l’agòn, l’alea, la nimési e la vertigine.
Il processo rientra nella prima categoria, appropriarsi della realtà entrando in un mondo fittizio. Qui sta il paradosso. Ciò avvicina il gioco all’arte o al teatro, come vedremo. Questo spiega la parentela all’apparenza quasi misteriosa tra il gioco e l’arte, denunciata dal linguaggio, in francese “jouer”, come in tedesco “spielen”, si dice tanto a chi gioca quanto a chi suona la sinfonia o recita una poesia.
Una società che estende la sua regolamentazione, fino nei più riservati settori del privato, sottrae certamente margini di gioco all’attore sociale.
Lo stato di frustrazione e l’estraneazione che ne conseguono si riversano nel gioco come tentativo di riappropriazione di una realtà diventata sempre più estranea.
Nel gioco allora si trasferiscono e si trasfondono quegli ideali che non trovano espressione nella macchina ripetitiva della vita regolamentata.
Il gioco è quindi paradossalmente la rappresentazione della vita di relazione che ha perso gran parte dei suoi margini di gioco.
Un tipo di gioco è all’origine di qualunque relazione sociale.
La socievolezza che non ha scopo, né contenuto, né esito che oltrepassino il semplice momento dello stare insieme ha quindi un carattere essenzialmente ludico proprio perché crea artificialmente un gruppo di uguali e ricerca esperienze comuni in funzione di un agire e sentire comuni.
La socievolezza è un gioco in cui ci si comporta come se tutti fossero uguali e meritassero una considerazione particolare. E, per quanto essa sia falsa, non lo è certo più di manifestazioni, come il gioco e l’arte, che prendono spesso congedo dalla realtà.
L’individuo ha dunque un bisogno psicologico, oltre che esistenziale, del gioco: derivato da esperienze infantili e non solo elemento motore della socialità, una forma di riappropriazione della realtà, è anche l’incentivo all’innovazione, alla contrapposizione, alla tradizione e quindi l’opposto della fissità della regola della pietrificazione della personalità, negli schemi rigidi della cultura, della ripetitività e sistematicità dell’ordine.
Ma nello stesso tempo il gioco ha bisogno della regola e dell’ordine,senza il quale il gioco non sarebbe gioco, ma soltanto conflitto.
Si rappresentano così nel gioco due elementi antagonisti, anzi contraddittori (ma compresenti); la necessità della regola e la necessità del comportamento eccentrico dell’attore sociale.
Nella misura in cui un gioco è genuino, occorre che l’equilibrio delle posizioni sia assicurato da un gioco di forze, cioè di pesi e di contrappesi.
Un giocatore che venga sovrastato da un avversario apparentemente superiore può sfociare alla fine in un’esplosione insospettata di attività e assicurarsi la vittoria.
Se però si ha, come nel vecchio codice, una potenza sufficiente per vincere prima che il gioco abbia inizio, ciò che segue non è affatto un gioco.
Io posso essere potente solo non giocando, dimostrando che il gioco è finito prima di cominciare. Il processo è un gioco per vincere.
Sotto questa angolazione, appare netta e profonda la distinzione tra tecnica inquisitoria e tecnica accusatoria.
La tecnica inquisitoria è pura analisi, rivolta a far rivivere il passato.
La tecnica accusatoria è puro formalismo agonistico: nel pleading anglosassone il processo è un gioco di passi d’arme scandito da regole fisse e da una certa indifferenza del sistema risultato, cioè all’accertamento della verità.
Il modo di vincere è più importante della vittoria, più importante della posta in gioco. La caccia vale più della preda.
Qui assume un profondo significato il monito severo di Pascal: gli uomini non ricercano le cose, ma la ricerca delle cose.
Nel processo come gioco prevalgono forme stilizzate e sublimate di rapporti conflittuali tra l’attore e il convenuto, tra il pubblico ministero e l’imputato.
Il gioco – e quindi il processo come gioco – è una forma astratta e sublimata di conflitto, è l’aspetto ludico del processo che esorcizza il conflitto, la partita di forza, la guerra tra le parti.
Il processo si configura come una situazione fluida e mutevole e, pur essendo sottoposta a regole, come qualsiasi gioco, lascia agli attori larghi spazi di indeterminazione. Essa è fonte di aspettative, alternative, possibilità e oneri, destinata a plasmarsi secondo il vario susseguirsi degli atti processuali, ciascuno dei quali dà al processo nuovi indirizzi e apre alle parti nuove aspettative.
Spesso il processo si avvicina a quel tipo di gioco che abbiamo definito àlea.
Come ogni gioco, il processo è un’attività incerta. Il dubbio sulla sua conclusione spesso persiste sino alla fine. Quando, in una partita a carte, l’esito non è più dubbio, non si gioca più, si buttano le carte.
La forma probandi qui finisce per identificarsi con le regole della discussione dialettica, che sono nello stesso tempo regole logiche e regole della giusta condotta. Nel dialogo l’uguaglianza tra le parti e tra il cittadino e il giudice è una garanzia ineludibile dell’ordine isonomico, che si basa sulla comunicazione intersoggettiva e sul principio della divisione della conoscenza, quindi sullo scambio uguale nel vero, attraverso il movimento di contraria informazione.
Le regole probatorie del nuovo processo, basate sull’uguaglianza tra le parti, hanno una funzione compensativa rispetto alle varie ineguaglianze che si verificavano nel processo regolato dal vecchio codice e che costituiscono violazioni dei principi della giustizia naturale.
Ad esempio, nei problemàta appartenenti alla tradizione aristotelica gli antichi si posero il problema perché l’imputato ha la destra! Qui si realizza una “ratio compensandi” delle asimmetrie e delle disuguaglianze tra accusa e difesa.
Il principio della divisione della conoscenza, privato della uguaglianza delle armi, della frammentazione del potere di controllo e procedimento basato sulla tecnica dei pesi e contrappesi, accentua l’aspetto ludico del processo come gioco che svolge, sul piano psicologico, un’influenza moderatrice sui soggetti prevenuti i quali sono portati a forgiare a plasmare e talvolta manipolare i fatti in modo coerente al loro pregiudizio.
Alcune prove, non conformi alle prescrizioni legislative, pur essendo state raccolte, non possono essere utilizzate dal giudice nella formazione del suo convincimento. Ciò porta ad una prima constatazione: quanto vale nel mondo esterno non vale senz’altro nel procedimento ma deve esservi introdotto attraverso certi filtri.
Nel giudizio di Dio o nell’ordalia primitiva, il processo è puro gioco cioè àlea.
L’alea nasce con la superstizione: il giocatore accorda un valore significante a ogni sorte di fenomeni, incontri o prodigi che in misura possano prefigurare la sua buona o cattiva sorte, fino all’estremo opposto basato sul principio della libera valutazione della prova (in cui il processo perde ogni carattere ludico, in quanto lascia al giudice la più assoluta libertà di raccogliere, elaborare e utilizzare la prova in solitudine). Si assiste, nel nuovo codice, ad una progressiva restrizione delle maglie dei filtri che regolano il flusso e quindi delle informazioni nel processo.
Con il suo stesso porsi, la regola probatoria crea una finzione. Il gioco è un’attività accompagnata dalla consapevolezza specifica di una diversa realtà nei confronti della vita normale e sotto questo aspetto presenta un’originalità veramente irriducibile.
Il processo si avvicina al gioco quando il legislatore, comminando i divieti probatori, non solo limita il campo dei fatti da conoscere, ma disciplina il processo di conoscenza.
Ciò che mi preme constatare è come la disciplina giuridica della prova, alterando la sua costruzione puramente logica, non consente che si consideri la ricerca della verità materiale come l’unico scopo del processo medesimo.
Ciò avviene per un intento di maggiore sicurezza della ricerca e soprattutto per immunizzare il giudice contro le tentazioni dell’arbitrio. Ma questo intento basato sull’ ovvia contestazione che il processo è un fatto di civiltà e di cultura e come tale soggiace ai limiti imposti dal comune riconoscimento di alcuni valori, non toglie che, considerato di fronte al caso singolo, l’accresciuto sistema dei limiti alla ricerca giudiziale reagisca profondamente sullo stesso risultato della ricerca.
Il concetto di questa reazione viene compendiato comunemente nell’antitesi significativa della verità formale alla verità materiale. Il risultato della ricerca giuridicamente limitata o disciplinata non è più la verità materiale o, come si direbbe con un’efficace truismo, la verità vera. ma in alcuni casi una verità convenzionale che si battezza per verità formale, in quanto ad essa conduce una ricerca regolata delle forme o una verità giuridica, in quanto essa è ricercata non solo mediante leggi logiche, ma anche ma mediante leggi giuridiche e per effetto di queste leggi giuridiche si sostituisce alla verità materiale.
Ciò avvicina il processo a un gioco di competizione regolata dove, più che il risultato (la verità), conta la condotta nel dialogo.
Max Ascoli vide una volta nel processo penale una specie di sacra rappresentazione, in cui il delitto è ricostruito in effige, il popolo partecipa in questa ricostruzione, la sua non è solo morbosa curiosità ma sentimentale partecipazione allo svolgimento di un dramma, che rappresenta il simbolo oscuro della sorte umana, di questo nostro processo kafkiano, che termina inesorabilmente con la condanna a morte.
Huizinga nell’ “Homo ludens”, parlando dei giudici inglesi che mettono la parrucca, con una profonda intuizione, intravede in questo aspetto coreografico apparentemente futile un significato simbolico.
L’uomo esce dalla vita solita, la parentela tra gioco e divertimento appare manifesta (divertimento viene da “dìs-vertere”), mostra la parentela misteriosa tra gioco, divertimento e processo.
Il giudice indossando la parrucca si identifica con l’ufficio e dà la dimostrazione che per essere credibili deve uscire dallo “sci-meme”, trascendere e reprimere i pregiudizi e fornire la prova simbolica nella sua imparzialità quindi, non dalla vita solita ma da sé stesso, esce il “giudice” per superare la sua parzialità.
Questi concetti sono espressi in modo mirabile da Calamandrei nel libro “Elogio dei giudici. Scritto da un avvocato”: «amo la toga non per le mercerie dorate che la adornano, né per le larghe maniche che danno solennità al gesto, ma per la sua uniformità stilizzata, che simbolicamente corregge tutte le intemperanze personali e scolorisce le disuguaglianze individuali dell’uomo sotto l’oscura divisa della funzione. Anche la parrucca degli avvocati inglesi, che può parere ridicolo anacronismo, ha questo stesso scopo, di affermare l’ufficio sull’uomo: nascondere il professionista che può anche essere calvo e canuto, sotto la professione che ha sempre la stessa età e lo stesso decoro».

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