di Giuseppe Zullo, Giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere

Sommario: 1. Premessa. 2. Le finalità della giustizia riparativa e le differenze con la giustizia cd. sanzionatoria. 3. Gli istituti afferenti alla giustizia riparativa nell’attuale esperienza processuale italiana. 3.1. La sospensione del procedimento con messa alla prova e la pacifica riconducibilità al modello di giustizia riparativa. 3.2. L’estinzione del reato per condotte riparatorie. La controversa collocazione nell’ambito della giustizia ristorativa. 3.3. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e la giustizia riparativa: cenni al diritto minorile e al processo innanzi al giudice di pace. 3.4. Ulteriori istituti afferenti alla giustizia riparativa. 4. Le novità introdotte dalla L. 27 settembre 2021, n. 134 (cd. riforma Cartabia). 4.1. Un nuovo assetto logistico e strutturale. 4.2. La cristallizzazione delle nozioni fondamentali. 4.3. L’ampliamento delle possibilità e dei meccanismi di accesso ai programmi di giustizia riparativa. 4.4. Le modifiche agli istituti già esistenti. 5. Conclusioni. L’impatto sistemico delle nuove disposizioni.

1. Premessa.

Manca, ad oggi, nel panorama normativo italiano una compiuta nozione di “giustizia riparativa”.

E’ verosimilmente per questo che la legge 27 settembre 2021, n. 134,  all’art. 1, co. 18, lett. a),  ha delegato il Governo ad “introdurre, nel rispetto delle disposi­zioni della direttiva 2012/29/UE del Parla­mento europeo e del Consiglio, del 25 otto­bre 2012, e dei princìpi sanciti a livello internazionale, una disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, princi­pali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti, nell’interesse della vittima e dell’autore del reato”.

Chiara, nella prospettiva del legislatore delegante, l’intenzione di razionalizzare la materia per il tramite di una disciplina che specifichi il concetto stesso di giustizia riparativa delineandone i contorni, definendone contenuti e modalità applicative, il tutto traendo spunto dalle acquisizioni europee ed internazionali nella prospettiva della maggior tutela possibile dei protagonisti del dualismo processuale, autore e vittima del reato.

Si tratta di un progetto senz’altro ambizioso ma oltremodo utile se rapportato al lento progredire (già in parte concretatosi in alcune recenti riforme del codice di procedura penale, che saranno dappresso illustrate) da una visione “sanzionatoria” del processo ad un sistema di cd. restorative justice, checioè prediliga – quale reazione ordinamentale alla perpetrazione del reato – il ripristino dell’equilibrio individuale, sociale ed economico violato piuttosto che l’irrogazione (seppur non asettica, perché filtrata dal sentire del Giudice) della sanzione. Cambiamento – questo – del resto già da tempo auspicato da autorevoli nomi dello scenario culturale nostrano, tra i quali Gustavo Zagrebelsky che, in un articolo pubblicato da La Repubblica (G. Zagrebelsky, Che cosa si può fare per abolire il carcere, La Repubblica, 23 gennaio 2015), aveva affermato che: “il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico. Qualcosa si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma molto resterebbe da fare”.

Nell’attuazione di tale monito la riforma ha imposto, tracciando la rotta entro la quale il Governo dovrà muoversi nel dare contenuto alla delega, il rispetto delle fonti europee ed internazionali. Il richiamo è, testualmente, alla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012. Si tratta di un corpo normativo che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI), lasciando impregiudicata la facoltà degli Stati membri di ampliare i presìdi da esso previsti al fine di assicurare un livello di tutela più elevato. E proprio la “vittima di reato” è – nella prospettiva dell’accesso ai programmi di giustizia riparativa – il fulcro della riforma, che ne ha per la prima volta “istituzionalizzato” la nozione (fino ad oggi assente nella normazione italiana, limitatasi all’esplicazione del più ristretto concetto di “persona offesa dal reato”) nel senso di ricomprenderne “qualsiasi persona  fisica  che  ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche  che sono state causate direttamente da un reato”; di considerare “vittima  del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della  morte  di  tale persona”; di definire “il familiare come il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, la persona che convive con  la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare  e  in modo stabile e continuo, nonché  i  parenti  in  linea  diretta,  i fratelli e le sorelle e le persone a carico della vittima”.

Ancora più composito e multiforme è il panorama internazionale, richiamato dalla riforma quale cardine sul quale costruire il nuovo sistema, che annovera svariate fonti le quali, nel corso degli anni, hanno contribuito a delineare i maggiori principi informatori della “giustizia riparativa”. Tra esse si annoverano (catalogo tratto dall’articolo “Verso la giustizia riparativa”, in Mediares, Semestrale sulla mediazione, n. 3/2004): la Raccomandazione concernente la partecipazione della società alla politica criminale (Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – Racc. n. R(83)7 del 23/06/1983);  la Convenzione Europea sul risarcimento alla vittima di reati di violenza (Consiglio d’Europa – ETS n. 116 del 24/11/1983); la Raccomandazione concernente la posizione delle vittime nell’ambito del diritto penale e della procedura penale (Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – Racc. n. R(85)11 del 28/06/1985); la Dichiarazione sui Principi fondamentali di giustizia in favore delle vittime della criminalità e delle vittime di abusi di potere (Assemblea generale delle Nazioni Unite – Risoluzione n. 40/34 del 29/11/1985); la Raccomandazione concernente l’assistenza alle vittime e la prevenzione della vittimizzazione (Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – Racc. n. R(87)21 del 17/11/1987); la Risoluzione sugli “Elementi di una responsabile prevenzione della criminalità: standards e norme” (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 1997/33 del 21/07/1997); la Risoluzione sulla “Cooperazione internazionale tesa alla riduzione del sovraffollamento delle prigioni ed alla promozione di pene alternative” (Economic and social Council delle Nazioni Unite n. 1998/23 del 28/07/1998); la Risoluzione sullo Sviluppo ed attuazione di interventi di mediazione e giustizia riparativa nell’ambito della giustizia penale (Economic and social Council delle Nazioni Unite n. 1999/26 del 28/07/1999); la Raccomandazione concernente il sovraffollamento carcerario e l’inflazione della popolazione carceraria (Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – Racc. n. R(99)22 del 30/09/1999); la raccomandazione relativa alla Mediazione in materia penale (Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa n. R(99)19 adottata il 15/09/1999); le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999); la Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia (X Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del crimine e il trattamento dei detenuti – Vienna 10-17 aprile 2000); la Risoluzione sui principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia criminale (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 2000/14 del 27/07/2000); la Risoluzione sulla Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia: nuove sfide nel XXI secolo (Assemblea generale delle Nazioni Unite – n. 55/59 del 04/12/2000); la Risoluzione concernente il seguito da dare al Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione della criminalità e il trattamento dei delinquenti (Assemblea generale delle Nazioni Unite – n. 55/60 del 04/07/2000); la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (2001/220/GAI del 15 marzo 2001) adottata nell’ambito del cosiddetto “Terzo pilastro” dell’Unione europea, sulla scorta delle determinazioni assunte nel vertice di Tampère; la Risoluzione concernente i Piani d’azione per l’attuazione della Dichiarazione di Vienna sulla criminalità e la giustizia: le nuove sfide del XXI secolo (Assemblea generale delle Nazioni Unite – n. 56/261 del 31/01/2002); la Risoluzione sui Principi base circa l’applicazione di programmi di giustizia riparativa nell’ambito penale (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 15/2002).

Volgendo lo sguardo all’attualità, “il ruolo della giustizia riparativa in Europa” è stato il tema della Conferenza dei Ministri della Giustizia organizzata dalla Presidenza italiana del Comitato dei Ministri a Venezia (13-14 dicembre 2021), ove s’è posto l’accento sull’implementazione del dibattito sulla giustizia riparativa in materia penale all’interno del Consiglio d’Europa, il tutto nella prospettiva dell’analisi di dati provenienti da fonti europee e internazionali e tenendo conto delle migliori esperienze pratiche realizzate negli Stati membri.
Un complesso di fonti, dunque, senz’altro composito e poliedrico, di cui il legislatore delegato dovrà necessariamente tener conto nell’elaborazione della nuova disciplina: compito non facile posta la diversità degli approcci giuridici e - soprattutto - culturali alla problematica in questione, il che verosimilmente determinerà, nell’attuazione della delega, un riadattamento di alcuni assunti propri dell’esperienza processuale italiana e, forse, un ripensamento della funzione stessa della giustizia penale.
 
2. Le finalità della giustizia riparativa e le differenze con la giustizia cd. sanzionatoria.

Il modello giuridico e culturale verso cui tende la giustizia riparativa è nel senso di una ridefinizione degli assunti tradizionalmente consolidatisi (in particolare nei Paesi di civil law) in ordine ai concetti di reato e pena.

Come noto, nell’esperienza penale nostrana ad oggi il reato è considerato un fatto umano (rigorosamente tipizzato) consistente nella integrazione (con una condotta attiva od omissiva) degli estremi di una disposizione incriminatrice; pena è la reazione ordinamentale al reato mediante la comminatoria di sanzioni rigorosamente predeterminate per legge. Si tratta di un sistema rigido, costruito su plurimi (e garantisti) principi che, consolidatisi nei secoli, hanno trovato spazio e concretizzazione nel codice penale prima e nella Costituzione poi, caratterizzando fortemente il modello italiano.

L’idea alla base della giustizia riparativa, seguendo la prospettiva di uno dei suoi principali teorizzatori (H. Zehr, The Little Book of Restorative Justice, Intercourse (PA), Good Books 2002), è invece attribuire un nuovo significato ai concetti di reato e pena e, in definitiva, un nuovo senso al loro binomio (“rethink the needs and roles implicit in crimes”) posto che – nella logica del citato autore – la perpetrazione di un reato è da considerare (non tanto come violazione di una norma giuridica alla quale l’ordinamento collega una sanzione, quanto piuttosto) fattore di “squilibrio” di un sistema, di stravolgimento di un ordine, con conseguente coinvolgimento della vittima, del reo e della comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e ripristini il senso di sicurezza collettivo.

Detta logica, del resto, è stata recepita dall’ONU nei Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters formalizzati nel 2000, e ripresa nell’Handbook on Restorative Justice Programmes del 2006, sempre a cura delle Nazioni Unite, secondo cui si può parlare di programmi di “giustizia riparativa” quando si attivi un tipo di processo (cd. restorative process) in cui “la vittima, l’autore di reato e/o qualunque altro individuo colpito da un reato, partecipi attivamente della risoluzione dei problemi scaturiti dal reato stesso, spesso con l’assistenza di un terzo imparziale”.

Si tratta di una definizione sostanzialistica del reato, valutato – piuttosto che sotto il profilo del disvalore giuridico – nella sua componente umana, sociale, economica e collettiva: il crimine è violazione di un assetto valoriale strutturato sul quale poggia l’equilibrio della comunità, è causa di distonia rispetto all’ordine che i consociati hanno creato per regolare i loro convergenti interessi, è strumento di alterazione di un sistema che, per poter riprendere a funzionare, va “riparato”, ripristinato. Prospettiva, all’evidenza, estremamente informale, ove il crimine è letto in una connotazione relazionale, come un conflitto interpersonale e sociale, come violazione delle persone e delle relazioni umane. Dette violazioni creano obblighi, primo fra tutti quello di “raddrizzare i torti” (to put right the wrongs).

Va in ogni caso precisato, onde evitare una degenerazione “moraleggiante” dell’istituto, che lo stesso – nella prospettiva dei suoi teorizzatori – non è strumento di pacificazione sociale, posto che non tende a favorire la riconciliazione o il perdono (conseguenze solo eventuali del percorso ristorativo). Trattasi infatti di profili afferenti alla dimensione umana e privata dei rapporti tra l’offensore e la vittima, esulando da quella vocazione sociale e collettiva collegata all’idea – per come sopra propugnata – di riequilibrio sociale.

La giustizia riparativa, peraltro, non è necessariamente congiunta a percorsi di mediazione: il filtro di un “arbitro” (da intendere quale organo di monitoraggio del percorso ristorativo) chiamato a favorire il ristabilirsi dell’ordine violato non è sempre la soluzione maggiormente adatta agli scopi dell’istituto al quale – ancora – sono estranee (seppur auspicabili) finalità special preventive, dunque tendenti ad arginare condotte recidivanti.

Non si tratta, per dirla con il citato Zehr, di una “panacea” per tutti i mali della collettività. Ma è senz’altro una risorsa importante, che anela a superare confini dell’attuale giustizia penale.

3. Gli istituti afferenti alla giustizia riparativa nell’esperienza processuale italiana.

La prospettiva ristorativa, per come sopra descritta, ha stentato – quantomeno fino ad oggi – a trovare cittadinanza nell’ordinamento italiano, rigidamente ancorato ad una predeterminazione legale dei concetti di reato e pena e poco incline ad una “deformalizzazione” della giustizia penale nel senso sopra propugnato.

Ciò nonostante, è possibile ravvisare – cosi addentrandosi più approfonditamente nel tema oggetto del presente studio – la presenza di alcuni strumenti che, inseriti (invero in modo disorganico, tanto che la riforma ne ha imposto una razionalizzazione) nel codice penale, in quello di procedura penale e nella legislazione complementare, hanno sfumato la rigidità del vecchio sistema, preconizzando quel percorso di rinnovamento che (nell’intenzione del legislatore delegante) troverà concretizzazione e compimento con l’attuazione della riforma.   

 
3.1. La sospensione del procedimento con messa alla prova e la pacifica riconducibilità al modello di giustizia riparativa.
 
Volendo dunque cimentarsi in una ricognizione degli istituti che, ad oggi, maggiormente si avvicinano ad un’idea “riparativa” di giustizia, non può non partirsi dalla figura della sospensione del procedimento con messa alla prova, introdotta con legge 28 aprile 2014, n. 67 e disciplinata sia sotto il profilo sostanziale (in particolare artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater c.p.) che sotto quello processuale (con l’introduzione degli artt. 464-bis e seguenti c.p.p. nonché dell’art. 567-bis,che indica le modalità di valutazione del periodo di prova). Trattasi di una forma di “monitoraggio”giudiziale, innovativo nel solo settore dei maggiorenni (l’esperienza minorile già conosceva uno strumento analogo), consistente in un temporaneo arresto, su richiesta dell’imputato, del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado per reati di minore allarme sociale. Previa sospensione del procedimento, l'imputato viene affidato all'ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) per lo svolgimento di un programma di trattamento (redatto dall’UEPE ed avallato dal giudice) che prevede come attività, obbligatoria e gratuita, l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività che può essere svolto presso istituzioni pubbliche, enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Fondamentali, a tal fine, le convenzioni stipulate con detti enti, utili a facilitare lo svolgimento del periodo di prova. In queste convenzioni - ex art. 2 co. 4 del Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di pubblica utilità ai fini della messa alla prova dell'imputato - sono specificate le mansioni  cui  i  soggetti che prestano lavoro  di  pubblica  utilità  possono  essere  adibiti in relazione  ad una o più delle seguenti tipologie di attività: prestazioni di lavoro per finalità sociali e  socio-sanitarie nei  confronti  di  persone  alcoldipendenti  e  tossicodipendenti, diversamente abili, malati, anziani, minori, stranieri; prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla  popolazione in caso di calamità naturali; prestazioni di lavoro per la fruibilità e la tutela del patrimonio ambientale, ivi compresa la  collaborazione ad opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del  patrimonio  boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo, di  protezione  della  flora  e della  fauna  con particolare riguardo alle aree protette, incluse le attività connesse al randagismo degli animali; prestazioni di lavoro per la fruibilità e la tutela del patrimonio culturale e  archivistico,  inclusa la custodia di biblioteche, musei, gallerie o pinacoteche; prestazioni di lavoro nella  manutenzione e fruizione di immobili e servizi pubblici, inclusi ospedali e case di cura, o di beni del demanio e del patrimonio pubblico, compresi giardini, ville e parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia; prestazioni di lavoro inerenti a specifiche competenze o professionalità del soggetto. 

Tratto peculiare dell’istituto (che lo avvicina fortemente al meccanismo riparativo voluto dalla riforma) è altresì la previsione per cui l’imputato svolga, oltre alla prestazione di attività non retribuita presso gli enti predetti, altresì attività riparative volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, tenga condotte finalizzate al risarcimento del danno cagionato e, ove possibile, attività di mediazione con la vittima del reato.

L’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato.

Non v’è chi non veda, come detto, una prima e chiara manifestazione di un modello di giustizia slegato dalla rigida applicazione del binomio reato-pena: si tratta di un modulo innovativo incentrato sulla necessità che l’imputato rimedi agli effetti del danno cagionato ristorando sia la vittima – mediante apposite condotte risarcitorie – sia, in generale, la collettività tramite la profusione di impegno sociale in plurimi settori di interesse, il tutto in una logica riparativa che tende a trarre il massimo beneficio sociale dall’inserimento del reo in appositi programmi di recupero.

3.2. L’estinzione del reato per condotte riparatorie. La controversa collocazione nell’ambito della giustizia ristorativa.

Spesso accostato alla giustizia riparativa, l’istituto previsto dal recente art. 162 ter c.p. – introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 – contempla l’estinzione del reato per condotte riparatorie.

In dettaglio, la menzionata disposizione stabilisce, al primo periodo del primo comma, che “Il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato”.

La norma – oltre ad avere un’indubbia connotazione deflattiva, in linea con la delega allora conferita al Governo (art. 1 comma 16 L. n. 103/17) per l’estensione della procedibilità a querela – dovrebbe, almeno secondo le intenzioni del legislatore, assecondare una logica riparativa sub specie di impulso alla mediazione penale, intesa quale rapporto tra offensore ed offeso proiettato verso una risoluzione extragiudiziale della vicenda che li vede coinvolti: nel caso detto “dialogo” abbia buon esito, il Tribunale si limiterà a prenderne atto dichiarando l’estinzione del reato. L’idea, quindi, è in definitiva offrire all’imputato e alla parte lesa uno strumento di confronto utile ad addivenire ad una soluzione concordata della controversia tramite volontaria assunzione di responsabilità del giudicabile e previo consenso della persona offesa.

La tesi per cui l’istituto de quo sia uno strumento “ristorativo” è corroborata dai verbali riepilogativi della discussione del progetto alla Camera – seduta del 22.5.2017 – ovesi legge: “le condotte riparatorie mirano ad un effetto deflattivo (come altri provvedimenti già approvati in questa Legislatura, quali messa alla prova e l’archiviazione per tenuità dell’offesa) e favoriscono la mediazione penale, vale a dire un colloquio proficuo tra parti private (imputato, offeso), sotto lo sguardo dello Stato che svolge una funzione di mero arbitro qualora, per reati di scarso allarme sociale e procedibili a querela, sia intervenuto il risarcimento integrale”.

Tanto premesso, non va sottaciuto come – a dispetto della rubrica assegnata dal legislatore alla disposizione in esame – vi siano voci contrarie alla classificazione dell’istituto quale strumento di giustizia riparativa, sul presupposto dell’eccessiva marginalizzazione del ruolo della vittima (protagonista, invece, nella filosofia ristorativa).

Il riferimento è alla peculiarità, contemplata nel secondo periodo del primo comma dell’art. 162 ter c.p., per cui: “Il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del codice civile, formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo”.

Detta previsione, s’è detto, ha creato un’incongruenza oggettiva (G. Vagli, Brevi considerazioni sul nuovo articolo 162-ter c.p. (estinzione del reato per condotte riparatorie), Giurisprudenza Penale Web, 2017, 10) consentendo l’estinzione del reato attraverso un procedimento che non tiene in alcun modo conto della volontà di chi ha subito il sopruso; ci si chiede, quindi, che senso abbia la conservazione del diritto a querela per una serie di reati che possono estinguersi attraverso un mero indennizzo ritenuto congruo dal giudice penale anche in caso di dissenso della vittima. Le esigenze espresse da quest’ultima, in casi del genere, saranno si acquisite dall’organo giudicante, ma non risulteranno vincolanti nel merito, ponendosi unicamente come momento di realizzazione del contraddittorio nell’accertamento dei presupposti riparatori dell’estinzione.

In modo ancor più ardito è stato osservato (F. Caporotundo, L’estinzione del reato per condotte riparatorie: luci ed ombre dell’art. 162-ter c.p., in Archivio Penale, Fascicolo n. 1 – Gennaio – Aprile 2018 web) come, posto che l’art. 162 ter c.p. può applicarsi soltanto ai reati procedibili a querela soggetta a remissione e posto che la remissione della querela è causa estintiva del reato che trova applicazione, solitamente, qualora imputato e persona offesa raggiungano un accordo economico al di fuori del processo, le uniche circostanze in cui sarebbe concretamente applicabile l’art. 162 ter c.p. sono quelle in cui la persona offesa non intenda accettare l’offerta dell’imputato, ma il giudice, ritenendola comunque congrua, superi la volontà contraria della persona offesa.

Alla luce di questa ricostruzione è stato osservato che la disciplina prevista dall’art. 162 ter c.p., lungi dal costituire una forma di mediazione o riconciliazione, ha il solo scopo di permettere, tramite la realizzazione di alcune condotte ritenute dal giudice riparatorie, il superamento del dissenso della persona offesa non intenzionata a rimettere la querela.

In altri termini, quello disciplinato dall’art. 162 ter c.p. rischia di apparire come un puro e semplice pagamento che estingue il reato; netta è la differenza rispetto agli strumenti di restorative justice, che mirano alla ricomposizione tramite le attività riparatorie della frattura causata dal reato ed alla riconciliazione attraverso un percorso di mediazione e comprensione del torto commesso.

3.3. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e la giustizia riparativa: cenni al diritto minorile e al processo innanzi al giudice di pace.

Può ormai dirsi abbastanza pacifico che l’art. 131 bis c.p., introdotto dal d. lgs. n. 28/2015, costituisca, dal punto di vista dogmatico, una causa di non punibilità in senso strettocui ricorrere in riferimento a condotte che, sebbene astrattamente integranti fattispecie di reato, esprimano di un grado di offensività particolarmente lieve. Detta norma, indubbiamente ispirata a principi di offensività, sussidiarietà e proporzionalità, rappresenta un chiaro strumento di deflazione dei carichi giudiziari.

L’istituto non è una novità nel panorama legislativo italiano.

Già l’art. 27 del codice processuale penale minorile, D.P.R. n. 22.09.1988 n. 448, contempla, nel processo a carico di imputati minorenni, la non punibilità qualora la tenuità e l’occasionalità della condotta rendano il fatto penalmente irrilevante e l’ulteriore corso del procedimento penale lesivo per le esigenze educative del minore. In tali casi, il giudizio di tenuità richiede che il fatto sia valutato globalmente, considerando la natura del reato, la pena edittale, l’allarme sociale provocato, la capacità a delinquere, le ragioni che hanno spinto il minore a compiere il reato e le modalità con le quali esso è stato eseguito. L’occasionalità indica, invece, la mancanza di reiterazione di condotte penalmente rilevanti mentre il pregiudizio per le esigenze educative del minore comporta una prognosi negativa in ordine alla prosecuzione del processo, improntato, più che alla repressione, al recupero della devianza del minore.

Nel processo penale innanzi al giudice di pace, poi, l’art. 34 d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, prevede l’improcedibilità per la particolare tenuità del fatto quando l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, la sua occasionalità ed il grado di colpevolezza, anche tenuto conto dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, non giustificano l’esercizio dell’azione penale. Anche in tale ipotesi è necessaria una valutazione congiunta degli indici normativamente indicati: esiguità del danno o del pericolo; grado di colpevolezza; occasionalità del fatto concretamente commesso, non potendo essere tale valutazione limitata alla fattispecie astratta di reato.

Ora, non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che l’attuale art. 131 bis c.p. non abbia alcuna vocazione riparativa, almeno secondo le intenzioni del legislatore, rispondendo l’istituto ad obiettivi sostanzialmente deflattivi e mancando riferimenti all’interesse della persona offesa, alla quale non è riconosciuto alcun potere di veto. Va comunque detto che voci minoritarie hanno tentato di inquadrare profili ristorativi anche nell’istituto de quo, facendo leva sia sul nuovo art. 411 c.p.p. (secondo cui la persona offesa, così come l’indagato, va obbligatoriamente avvisata, potendo opporsi entro 10 giorni esplicitando a pena di inammissibilità le ragioni del dissenso) sia sui criteri utili a misurare la tenuità dell’offesa, in particolare su quello della condotta contemporanea o susseguente al reato, che potrebbe permettere di valutare favorevolmente una prestazione riparatoria o comunque lo sforzo riconciliativo dell’autore del reato nei confronti della vittima.

Maggiori aperture vi sono invece state in riferimento all’istituto delineato dal predetto art. 34 d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, a volte accostato alla giustizia riparativa nella misura in cui riconosce alla vittima del reato un ruolo non marginale, potendo quest’ultima paralizzare o almeno ostacolare, con la propria opposizione, la dichiarazione di improcedibilità, pur in presenza di tutti gli altri presupposti di esiguità. A differenza dunque di quanto accade, ad esempio, nel processo minorile – incentrato sull’interesse del minore sottoposto a procedimento, per la parallela ipotesi delineata dall’art. 27 D.P.R. n. 22.09.1988 – nel sistema di pace, in sede giudiziale, l’offeso può opporsi all’applicazione della clausola, mentre in fase di indagini può essere portatore di un interesse alla prosecuzione del procedimento, che il giudice deve delibare puntualmente e che può ostacolare l’operatività dell’istituto. Nella valutazione dei presupposti dell’art. 34, dunque, uno spazio non trascurabile è riservato alla tutela degli interessi e delle determinazioni contrarie della vittima, la sussistenza dei quali può “inibire l’operatività del meccanismo pur se gli indici principali di esiguità risultino, comunque, integrati” (E. Mattevi, Una giustizia più riparativa, Mediazione e riparazione in materia penale, Volume 14 di Collana della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, Editoriale scientifica, 2017).

Soffermandosi ancora per un attimo sulla disciplina della giustizia di pace, nello stesso Capo V del Titolo I il menzionato decreto contempla un ulteriore strumento esemplificativo, per alcuni, di una logica ristorativa: l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie. L’art. 35 del predetto corpo normativo prevede infatti, al comma 1, che “Il giudice di pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal  reato,  mediante le restituzioni o il risarcimento,  e  di  aver  eliminato  le  conseguenze  dannose o pericolose del reato”.

A fronte di chi ha invocato un chiaro riferimento a logiche ristorative guardando al coinvolgimento della parte lesa nella valutazione della condotta riparatoria, s’è in senso contrario osservato (e qui possono in parte richiamarsi le considerazioni operate per l’istituto di cui all’art. 162 ter c.p.) che – in realtà – la norma di cui all’art. 35 non prevede alcun potere di veto della persona offesa, che deve solo essere sentita, mentre è conservata all’autorità giurisdizionale la discrezionalità nella scelta ultima sulla pronuncia che estingue il reato. Proprio per tale ragione, nonché in forza del richiamo ad un giudizio di idoneità delle condotte a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, tipiche della pena e ulteriori rispetto alla tutela della vittima privata, l’art. 35 potrebbe, addirittura, apparire in contrasto con una giustizia conciliativa, intesa come “modalità di composizione non punitiva dei conflitti “aperti” dal reato. Ciò nonostante, v’è stato anche chiha ritenuto come detto contrasto fosse superabile con una lettura sostanzialistica e teleologicamente orientata dell’istituto, nel senso della necessità di capire adeguatamente la prospettiva cui s’è ispirato il legislatore nella formulazione della norma: quella della valorizzazione, in luogo della pena, esclusa dall’estinzione del reato, delle “condotte post-delittuose di riconciliazione con la vittima” (dove il colpevole è soggetto attivo, paga il suo debito con la giustizia, non subendo la pena, ma attivandosi a favore dell’offeso). Partendo da tale considerazione, s’è sostenuto che la riparazione di cui si discute, in questo particolare contesto, pare mantenere costantemente un carattere riconciliativo, nel senso che quello che l’autore del fatto deve cercare, in fondo, è sempre una ricomposizione con la vittima/persona offesa, attraverso un insieme di condotte positive. Per mezzo dell’istituto “si restituisce valore alla figura dell’offeso”, non attraverso il riconoscimento di un suo potere di iniziativa, ma attraverso la valutazione del soddisfacimento del suo interesse (E. Mattevi, Una giustizia più riparativa, Mediazione e riparazione in materia penale, cit.).

3.4. Ulteriori istituti afferenti alla giustizia riparativa.

Nel panorama normativo italiano (codicistico e complementare) vi sono ulteriori istituti che esprimono una logica riconducibile all’idea riparativa di giustizia per come sopra delineata.

Può partirsi, senza alcuna pretesa di esaustività, dalla previsione di cui all’art. 163 co. 4 c.p. (introdotta dall’art. 1 della l. 1.6.2004, n. 145), a mente della quale: “Qualora la pena inflitta non sia superiore ad un anno e sia stato riparato interamente il danno, prima che sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni, nonché qualora il colpevole, entro lo stesso termine e fuori del caso previsto nel quarto comma dell’articolo 56, si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili, il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena, determinata nel caso di pena pecuniaria ragguagliandola a norma dell’articolo 135, rimanga sospesa per il termine di un anno”; si pensi, ancora, alla previsione di cui all’art. 176 co. 4 c.p., per cui: “la concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle” o a quanto previsto dall’art. 179 co. 6 n. 2 c.p., secondo cui la riabilitazione non può essere concessa quando il condannato: “non abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle”;può proseguirsi, poi, con l’illustrazione della disposizione (limitativa dell’accesso all’istituto del cd. patteggiamento) di cui all’art. 444 co. 1 ter c.p.p. (introdotto dall’art. 6, comma 1, L. 27 maggio 2015, n. 69, a decorrere dal 14 giugno 2015), per cui: “Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale, l’ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato”.

In riferimento a singoli reati, viene in rilievola causa di estinzione della fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale di cui all’art. 341-bis co. 3 c.p., per cui: “ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto”; si pensi, poi, alla causa di estinzione del delitto di insolvenza fraudolenta di cui all’art. 641 c.p., secondo la quale “l’adempimento dell’obbligazione avvenuto prima della condanna estingue il reato”; ancora, nel settore tributario, viene in rilievo la causa di estinzione del reato ex art. 13 d. lgs. 10.03.2000, n. 74, veicolata dal pagamento del debito verso l’erario: “I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso”. La disposizione prosegue, al secondo comma, prevedendo che “I reati di cui agli articoli 2, 3, 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”.

4. Le novità introdotte dalla L. 27 settembre 2021, n. 134 (cd. riforma Cartabia).

La disciplina attuale, per come sopra brevemente illustrata, lascia emergere un quadro disorganico e scomposto, costellato da vari istituti che – sebbene afferenti ad un’idea riparativa di giustizia – sono tra loro del tutto diversi quanto a collocazione, presupposti e modalità applicative, cosi da apparire privi di qualsiasi collegamento funzionale o strutturale o comunque di una logica unitaria nella quale inscriversi.    

La delega conferita al Governo dalla L. 27 settembre 2021, n. 134 palesa – prendendo atto dell’assenza di una disciplina unitaria – la volontà legislativa di razionalizzare l’intero settore della giustizia riparativa, nell’evidente prospettiva di riordinare – in una visione globale e cumulativa – gli istituti già esistenti (ampliandone in alcuni casi l’ambito operativo) e di introdurne di nuovi cosi da rendere il sistema rispondente a criteri di completezza, efficienza e funzionalità.

4.1. Un nuovo assetto logistico e strutturale.

La riforma mira, in buona sostanza, ad istituzionalizzare un impianto che tenda ad “individuare i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni dei servizi per la giustizia riparativa”.

Per realizzare l’obiettivo appena enunciato fondamentale sarà – in primo luogo – la predisposizione di un apparato strutturale, funzionale ed organizzativo che sia quanto più possibile adeguato a contenere e gestire l’ingente impiego di risorse umane e strumentali poste dal legislatore a presidio della corretta attuazione del progetto. Detto apparato dovrà essere composto da organismi dotati di specifiche e mirate competenze: deve trattarsi, in particolare, di “strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia”; fondamentale, in proposito, “che sia assicurata la presenza di almeno una delle predette strutture pubbliche in ciascun distretto di corte d’appello e che, per lo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, le stesse possano avvalersi delle competenze di me­diatori esperti accreditati presso il Ministero della giustizia, garantendo in ogni caso la si­curezza e l’affidabilità dei servizi nonché la tutela delle parti e la protezione delle vit­time del reato da intimidazioni, ritorsioni e fenomeni di vittimizzazione ripetuta e se­condaria” (art. 1 co. 18 lett. g).

Il nuovo sistema, come visto, valorizza (quale longa manus delle predette strutture) la figura del mediatore, da intendere quale esperto in programmi di giustizia riparativa, la cui formazione è essenziale e va disciplinata “tenendo conto delle esigenze delle vit­time del reato e degli autori del reato e delle capacità di gestione degli effetti del conflitto e del reato nonché del possesso di cono­scenze basilari sul sistema penale”; trattasi dunque di soggetti chiamati ad offrire, stante l’importanza dell’incarico rivestito, competenza e professionalità, tanto che i decreti delegati sono tenuti a “prevedere i requisiti e i criteri per l’esercizio dell’atti­vità professionale di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa e le moda­lità di accreditamento presso il Ministero della giustizia, garantendo le ca­ratteristiche di imparzialità, indipendenza ed equiprossimità del ruolo” (art. 1 co. 18 lett. f).

4.2. La cristallizzazione delle nozioni fondamentali.

Il modo migliore per garantire il buon esito dell’assetto programmatico appena evidenziato è, nella prospettiva del legislatore delegante, fugare qualsiasi dubbio definitorio relativo all’esatta individuazione dei protagonisti dei programmi di giustizia riparativa, specificando altresì l’oggettiva consistenza degli stessi unitamente alle finalità cui essi sono preordinati.

Per questa ragione, come anticipato in premessa, il legislatore ha delegato il Governo, all’art. 1, co. 18, lett. a), all’introduzione di un’organica disciplina in tema di giustizia riparativa con espresso incarico a specificarne, in primo luogo, la definizione.

Per la prima volta nel panorama normativo italiano è stata offerta la nozione di vittima di reato, intesa nel senso sopra specificato. Vittima che, beninteso, dovrà essere adeguatamente informata in ordine alla tenuta dei programmi di giustizia riparativa, cosi da poter esprimere un consenso quanto più possibile libero e consapevole: a tal uopo, la novella impone “la completa, tempestiva ed effettiva informazione della vittima del reato e dell’autore del reato, nonché, nel caso di minorenni, degli esercenti la responsabilità genitoriale, circa i servizi di giustizia riparativa disponibili; il diritto all’assistenza linguistica delle persone alloglotte; la rispondenza dei programmi di giustizia riparativa all’interesse della vittima del reato, dell’autore del reato e della comunità; la ritrattabilità del consenso in ogni momento; la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso delle parti o che la divulgazione sia indispensabile per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e salvo che le dichiarazioni integrino di per sé reato, nonché la loro inutilizzabilità nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena” (art. 1 co. 18 lett. d).

4.3. L’ampliamento delle possibilità e dei meccanismi di accesso ai programmi di giustizia riparativa, anche sub specie di modifica degli istituti preesistenti.

Una delle novità maggiormente significative contenute nella riforma riguarda il senz’altro considerevole ampliamento delle opportunità utili ad accedere ai meccanismi riparativi.

L’idea è, in primo luogo, non limitare più l’ammissione agli strumenti ristorativi alla fase degli atti preliminari e introduttivi al dibattimento vero e proprio, ma “prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente”; si tende poi a superare qualsiasi barriera relativa alla tipologia di reato per cui si procede, consentendosi l’accesso ai menzionati strumenti “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di re­ato o alla sua gravità, sulla base del con­senso libero e informato della vittima del re­ato e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso definiti ai sensi della let­tera a)” (art. 1 co. 18 lett. c).

L’incentivo all’accesso a detti programmi è offerto dal legislatore delegante sia riconoscendo appositi benefici nel caso di esito positivo degli stessi sia negando conseguenze pregiudizievoli nell’ipotesi in cui essi non pervengano al risultato: in tal senso si prevede che “che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa es­sere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena; che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa o il suo fallimento non producano effetti negativi a carico della vit­tima del reato o dell’autore del reato nel procedimento penale o in sede esecutiva” (art. 1 co.18 lett. e).

4.4. Le modifiche agli istituti già esistenti.

Oltre a disegnare l’innovativo sistema sopra delineato, la riforma s’è mossa anche nel senso di apportare modifiche ad alcuni degli istituti prima menzionati (individuati da chi scrive come proiezioni della logica riparativa) con il chiaro obiettivo di ampliarvi le possibilità di accesso.

Con particolare riferimento alla sospensione del processo con messa alla prova, attualmente limitata ai soli reati puniti con pena pecuniaria ovvero con pena detentiva non superiore ai quattro anni, sola o congiunta a quella pecuniaria, il Governo è chiamato (art. 1 co. 22 lett. a) ad estenderne l’ambito di applicabilità “oltre ai casi previsti dall’articolo 550, comma 2, del codice di procedura penale, a ulteriori specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto”.

È stato, inoltre, previsto (lett. b) che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova possa essere proposta anche dal Pubblico Ministero, che diventa in tal modo, analogamente all’imputato, promotore dell’istanza rieducativa e – dunque – veicolo della prospettiva riparativa nella quale si inscrive l’istituto.

Significativa modifica, poi, in una chiara logica di avvicinamento al modello riparativo di giustizia, è stata indirizzata all’art. 131 bis c.p.: l’art.1 co. 21 lett. b), infatti, dà rilievo per la prima volta – quale strumento utile ai fini della valutazione della particolare tenuità dell’offesa – alla condotta successiva al reato, cosi affiancando un profilo ristorativo alla funzione deflattiva fino ad oggi riconosciuta in via esclusiva all’istituto. Funzione, quella deflattiva, che – nonostante l’“intrusione” del modello riparativo – è stata potenziata, posto che la riforma prevede – come limite all’applicabilità della disciplina di cui all’art. 131 bis c.p. – “in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria”. In sede di attuazione dovranno essere individuati ulteriori casi in cui, ai sensi del co. 2 dell’art. 131 bis c.p., l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità. Una espressa indicazione legislativa esclude poi che l’estensione dell’ambito di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. interessi i reati riconducibili alla Convenzione di Istanbul, in tema di violenza contro le donne.

Ulteriore incentivo a condotte riparatorie è dato dalla delega al Governo (art. 1 co. 23) a “prevedere una causa di estinzione delle contravvenzioni destinata a operare nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall’organo accertatore e, alternativamente, del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa; prevedere la possibilità della prestazione di lavoro di pubblica utilità in alternativa al pagamento della somma di danaro”.

In sede di attuazione della delega dovranno essere individuate le contravvenzioni per le quali consentire l’accesso alla causa di estinzione del reato. Dovrà trattarsi di “contravvenzioni suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie. La disciplina non potrà applicarsi, tuttavia, qualora tali contravvenzioni concorrano con delitti”.

La delega prevede, a tal uopo, la sospensione del procedimento penale dal momento dell’iscrizione della notizia di reato fino al momento in cui il pubblico ministero riceve comunicazione dell’adempimento o dell’inadempimento delle prescrizioni di cui sopra.

5. Conclusioni. L’impatto sistemico delle nuove disposizioni.

A conclusione del presente lavoro può dirsi che il nuovo sistema è senza dubbio proiettato verso una sistemazione organica e strutturata di quello che sarà il nuovo apparato di giustizia riparativa. Le illustrate disposizioni, come visto, introducono un assetto ordinato di istituti, strutture e mezzi tali da concretizzare un modello diverso – e forse più performante – rispetto a quello prettamente sanzionatorio oggi in essere. La portata e la consistenza degli interventi predetti appaiono ancora più manifesti se solo si considera che per l’attuazione del modello di giustizia riparativa il legislatore ha previsto (art. 1, co. 19) un’autorizzazione di spesa di oltre quattro milioni di euro, il che testimonia la convinzione in ordine alla consistenza strategica della riforma, nella logica del miglioramento della qualità e dell’efficienza della giustizia penale.

Alla base del nuovo sistema vi sono chiare influenze europee ed internazionali, che spingono verso un prototipo di giustizia meno formale e maggiormente concentrato sul ripristino, in chiave sociale, delle conseguenze derivanti dal reato.

Non v’è dubbio che tale opzione ideologica sia stata affiancata dall’altrettanto sentita – per il legislatore delegante – esigenza di deflazione del contezioso penale, in linea con quel complessivo progetto di riorganizzazione della giustizia nella prospettiva di elevarne il tasso di efficienza e di ridurne i tempi, cosi attuando gli obiettivi del P.N.R.R., ossia la riduzione dei tempi del processo entro i prossimi cinque anni, nella misura del 25% nel settore penale e del 40% in quello civile.

Non mancano, ovviamente, profili di criticità nell’attuazione del nuovo impianto.

E’ stato ad esempio sostenuto (F. Fiorentin, Punizione o riparazione? La giustizia riparativa nella fase esecutiva della pena: luci e ombre nella prospettiva della riforma “Cartabia”, in Diritto Penale e Uomo, fascicolo 10/2021) come, posto che la stessa ampiezza dell’ambito di operatività della giustizia riparativa – nella prospettiva della riforma – non dovrebbe soffrire alcuna preclusione con riguardo alla tipologia e gravità dei reati commessi, è prevedibile che vi saranno, in concreto, notevoli difficoltà applicative con riguardo a particolari delitti (quali, in primo luogo, quelli di mafia e criminalità organizzata). In tali ambiti, infatti, appare particolarmente elevata la probabilità che si materializzino rischi di vittimizzazione reiterata quanto di vittimizzazione secondaria e, in tale ottica, si dovrà preliminarmente valutare attentamente l’ammissione del reo a percorsi di giustizia riparativa. In particolare per i responsabili di reati connessi al fenomeno mafioso si pone, inoltre, la questione dell’ammissibilità stessa ai percorsi riparativi laddove si voglia seguire il dettato prescrittivo della Direttiva 2012/29 che – tra le altre condizioni – prevede all’art. 12, lett. c) che l’autore del reato abbia «riconosciuto i fatti essenziali del caso», essendo evidente come tale precondizione ponga delle problematiche per i condannati che non abbiano collaborato positivamente con la giustizia, a meno che non si intenda la prescrizione europea come un onere di riconoscimento dei reati commessi dai contorni assai circoscritti. Al proposito, in sede attuativa sarà, quindi, necessario disciplinare attentamente il contenuto dei percorsi di giustizia riparativa in rapporto sia alle ipotesi di collaborazione “impossibile” o “inesigibile” sia, soprattutto, modulare in termini tecnicamente precisi i rapporti tra i progetti riparativi che è consentito attivare nel corso dell’esecuzione della pena e gli elementi che possono essere posti a sostegno della richiesta di benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia, in seguito alla nota sentenza costituzionale n. 253/2019.

Più in generale, interessante sarà valutare nel tempo l’approccio della Magistratura italiana al nuovo sistema: nella sua concreta attuazione molto incideranno le peculiarità dei singoli territori, i carichi di lavoro dei diversi Tribunali, la tipologia di reati maggiormente frequente in un certo contesto geografico, amministrativo e sociale. Sul punto, è stato giustamente osservato (G. Spangher, Tra politica e giustizia: la riforma Cartabia, Penale Diritto e Procedura, 05 Ottobre 2021) come si tratti di una riforma complessa, che richiederà una attenta valutazione da parte degli operatori della giustizia e che dovrà misurarsi sulla frastagliata geografia giudiziaria del nostro Paese, nella differenziazione dei carichi di lavoro nei diversi uffici giudiziari e nella diversità dei fenomeni criminali tra le corti d’appello, nonché sui comportamenti processuali delle parti.

Fondamentale, soprattutto, sarà la capacità dei giudici nostrani di adeguarsi quanto prima alla riforma che, nel delineare la nuova prospettiva riparativa, chiaramente modifica l’attuale assetto della giustizia penale, all’evidenza imperniato su un modello socio culturale sanzionatorio: la flessibilità di chi esercita la giurisdizione e l’apertura verso il fronte europeo nel quale si inscrive il nuovo modello molto incideranno sulla buona e corretta attuazione del sistema ristorativo. 

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