La sentenza in oggetto offre all’interprete molteplici spunti interessanti di riflessione: a) sotto il profilo della valutazione dell’intollerabilità della convivenza, rilevante ai fini della pronuncia di addebito della separazione; b) sul rilievo officioso dei presupposti per la nomina del curatore speciale del minore, in caso di adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale; c) sulle misure che il Giudice deve adottare in caso di allegazione di violenza.
Con riferimento al primo profilo, la Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di separazione giudiziale dei coniugi, l’accertamento delle condotte rilevanti ai fini della pronuncia di addebito non deve ritenersi precluso dall’allegazione di criticità e disaccordi esistenti prima del matrimonio o sin dall’inizio della convivenza coniugale, poiché la connotazione di conflittualità del rapporto è diversa dalla situazione di vera e propria intollerabilità della convivenza, la quale, se cagionata da violazione di obblighi matrimoniali da parte di uno dei coniugi verificatasi nel corso del matrimonio, può determinare l’addebito della separazione. Segnatamente, nel caso di specie, i Giudici di merito avevano ritenuto sostanzialmente irrilevanti le condotte violente serbate dal marito nei confronti della moglie, poste a fondamento della richiesta di addebito avanzata dalla medesima, evidenziando che la stessa aveva rappresentato, negli atti introduttivi del giudizio, che sin dall’inizio il matrimonio era stato caratterizzato da disaccordi tra i coniugi, con conseguente venir meno del nesso eziologico tra la violenza subita, quand’anche provata, e la situazione di intollerabilità della convivenza su cui si fondava l’addebito. La Suprema Corte muove dalla premessa che nell’indagine sulle cause dell’intollerabilità della convivenza, occorre aver riguardo ad una valutazione complessiva delle condotte dei coniugi, al fine di verificare l’effettiva incidenza causale di ciascuna di esse sull’addebito (Cass. 14162/01 citata), precisando tuttavia, che in caso di condotte violente, queste ultime costituiscono una violazione talmente grave dei doveri coniugali, che la prova delle stesse esonera il Giudice dal dovere di comparazione col comportamento del coniuge vittima di violenza, trattandosi di atti che, per la loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei (Cass. 31351/22; Cass. 3925/18 citate). Sulla scorta di tali principi, non può quindi ritenersi l’irrilevanza di condotte violente, intervenute nel corso del rapporto coniugale, ai fini della pronuncia di addebito e, più in generale, dell’indagine sull’intollerabilità della convivenza, quand’anche sia stata allegata la sussistenza di disaccordi che abbiano contrassegnato ab origine il rapporto matrimoniale, che ben può essere tollerata e compatibile con l’affectio coniugalis, specie nell’ipotesi in cui si fornisca un’allegazione generica in ordine a tali contrasti. Altra cosa è invece l’allegazione di violenza, certamente incompatibile con l’affectio coniugalis e con i doveri di solidarietà e rispetto tra i coniugi, su cui si fonda la communio omnis vitae, che contraddistingue il rapporto matrimoniale. Nel caso in esame, peraltro, la parte aveva allegato che le condotte violente erano sopraggiunte nel corso del matrimonio, per cui dai disaccordi e/o difficoltà relazionali iniziali, si era passati alle condotte aggressive, che certamente dovevano essere indagate e su cui ben poteva fondarsi la pronuncia di addebito, trattandosi comunque di fatti diversi, ulteriori e sopravvenuti rispetto ai contrasti sussistenti ab origine.
Dopo la riflessione sull’accertamento in concreto delle condotte rilevanti ai fini dell’addebito della separazione e preliminarmente alla disamina del secondo motivo formulato nel ricorso, la Suprema Corte rileva ex officio, la mancata nomina del curatore speciale del minore nel giudizio di appello. Evidenzia, infatti, sul punto, che il Giudice dell’impugnazione, sebbene non abbia accolto la richiesta di sospensione dalla responsabilità genitoriale del padre avanzata dalla madre, ha tuttavia affidato la minore ai Servizi Sociali territorialmente competente, prescrivendo un percorso che i genitori dovevano seguire presso i Servizi Sociali, al fine, evidentemente, di migliorare il rapporto con la minore, disponendo, pertanto, una misura fortemente limitativa della responsabilità genitoriale, che imponeva la nomina di un curatore speciale. Nel caso di specie, infatti, l’attività demandata ai Servizi, non si è concretata in una mera azione di supporto o vigilanza del Nucleo familiare, essendo stato piuttosto disposto l’affido della minore al Servizio, seppure con collocamento della stessa presso la residenza della madre, con conseguente trasferimento agli stessi Servizi del potere di assumere decisioni nell’interesse della minore. Occorreva, pertanto, ad avviso della Corte, la nomina di un curatore speciale, con indicazione dei compiti specifici attribuiti al Curatore e ai servizi, in ossequio ad un consolidato orientamento formatosi sul punto ante riforma Cartabia (Cass. 8627/21; Cass. 2829/23; Cass. 7734/22; Cass. 8627/21). Invero, alla luce del predetto orientamento consolidatosi prima dell’introduzione della legge 209/21 (che ha previsto espressamente ipotesi di nomina del curatore speciale, nei giudizi de potestate, novellando l’art. 78 c.p.c.) non applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame, al minore deve essere necessariamente nominato un curatore speciale, qualora si discuta in ordine all’adozione di provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, osservando la Corte che, in tali giudizi, il minore è parte in senso formale ed il conflitto d’interessi con i genitori deve ritenersi presunto, a differenza di quelli in cui il minore è solo parte sostanziale, in cui la sussistenza del conflitto va accertata caso per caso ( Cass. 38719/21; 40490/21; 1471/21 citate).
Si tratta di un inciso importante, poiché distingue i giudizi de potestate in cui il minore è parte in senso formale, dagli altri (separazione, divorzio, cessazione di convivenza more uxorio) in cui, seppur si discuta di affido del minore, quest’ultimo viene inteso come parte in senso formale, sul presupposto che i genitori siano pienamente in grado di esercitare la responsabilità genitoriale sul medesimo. Tale considerazione è di ausilio anche nell’interpretazione del nuovo art. 473 bis 7, c.p.c., nell’individuazione delle ipotesi in cui si rende necessaria la nomina di un curatore speciale, dovendosi sostanzialmente valutare se i genitori siano effettivamente in grado di prendersi cura del minore e di rappresentarne adeguatamente gli interessi nel giudizio, nonostante la conflittualità esistente tra loro (cfr. in particolare, art. 473 bis 7 lett. c, che prescrive la nomina del curatore speciale, nel caso in cui venga alla luce una situazione di pregiudizio per il minore tale da precluderne l’adeguata rappresentanza processuale). Nella pronuncia in commento, si ribadisce, inoltre, il principio secondo cui la statuizione di nullità attiene alla sola fase di appello, tenuto conto del rilievo che solo in tale grado di giudizio sono state adottate misure limitative della responsabilità genitoriale, e non anche nel giudizio di prime cure, con conseguente necessità di rinnovazione degli atti del giudizio di secondo grado.
Concatenata a tale ultima statuizione è l’ulteriore riflessione che fa la Corte, nella pronuncia in oggetto, sulla valenza della Convenzione Istanbul nel nostro ordinamento, ratificata dall’Italia con legge 77/2013, di cui la ricorrente ha assunto la violazione nel secondo motivo di ricorso.
Tale riflessione è strettamente connessa, sia alla questione relativa alla rinnovazione degli atti, conseguente alla declaratoria di nullità per la mancata nomina del Curatore speciale, sia alla questione dell’addebito, avendo la ricorrente censurato la decisione impugnata nella parte in cui non ha ritenuto ammissibili le prove sulla violenza, ritenuta invece rilevante ai fini della pronuncia sull’addebito.
La Corte muove da alcune considerazioni importanti in in ordine alla valenza della convenzione nel nostro ordinamento, in ragione del fatto la nuova normativa di cui agli artt. 473 bis 40 e ss., introdotta dalla legge Cartabia, non sia applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis. Sotto tale profilo, è’ stato richiamato il principio secondo cui, il diritto convenzionale derivante dai trattati internazionali, entra a far parte dell’ordinamento attraverso l’art 117 Cost., sicchè, da un lato, il legislatore deve adottare leggi conformi alle disposizioni contenute nei trattati, dall’altro al Giudice comune spetta interpretare la norma interna, conformemente a dette disposizioni, dovendo, ove ciò non sia possibile, sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma applicata per contrasto con l’art. 117 Cost. (a norma del quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali).
In particolare viene richiamato l’art.18 della Convenzione di Istanbul che impone alle parti l’adozione delle misure legislative o atti di altro tipo per proteggere le vittime da atti di violenza, aggiungendo che le stesse parti contraenti si accertano che le misure adottate mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria, oltre che l’art.48 della stessa Convenzione, che vieta sostanzialmente il ricorso, nelle ipotesi di violenza a procedure alternative di risoluzione della controversia, quali mediazione e conciliazione. Nel caso di specie, invero, pur essendo stata allegata una situazione di violenza non approfondita, erano stati disposti colloqui congiunti dei genitori dinanzi ai servizi Sociali, costringendosi sostanzialmente gli stessi ad incontrarsi e ad interagire, in contrasto con la ratio della disposizione appena citata. Quanto alla ratio di tale disposizione, giova sottolineare che accreditati studi di settore hanno evidenziato che la vittima di violenza è spesso incapace di uscire dal circuito innescato dal comportamento, spesso ambivalente, assunto dall’autore della violenza, il quale alterna momenti di violenza fisica o psicologica a momenti positivi caratterizzati da slanci affettivi e segni di pentimento, inducendo la vittima anche a dubitare delle sue capacità critiche in ordine alla valutazione del comportamento del partner. Tale complesso meccanismo riduce l’autostima della vittima, rendendola più fragile ed incapace a reagire alla violenza.
Dunque la ratio dell’art. 48 della Convenzione di Istanbul, trasfusa all’interno dell’art. 473 bis 43 (è fatto divieto di iniziare il percorso di mediazione familiare quando è stata pronunciata sentenza di condanna o di applicazione della pena, anche in primo grado, ovvero è pendente un procedimento penale in una fase successiva ai termini di cui all’art.415 bis cpp, per le condotte di cui all’articolo 473 bis 40, nonché quando tali condotte sono allegate o comunque emergono in corso di causa) e dell’art. 473 bis 42 3° comma (quando nei confronti di una delle parti è stata pronunciata sentenza di condanna o di applicazione di pena anche non definitiva o provvedimento cautelare civile i penale, ovvero penda procedimento penale in una fase successiva ai termini di cui all’art. 415 bis cpp, per abusi o violenze, il decreto di fissazione non contiene l’invito a rivolgersi ad un mediatore familiare), è quella di favorire il no contact tra la vittima e l’autore della violenza, in modo da evitare che la vittima, una volta che sia uscita dal circuito della violenza poc’anzi descritto, possa rientrarvi.
Conclusivamente la pronuncia in oggetto si appalesa assolutamente significativa, in quanto sensibilizza l’attenzione del Giudice del merito sotto molteplici profili, sollecitando l’adozione di misure e percorsi interpretativi in linea con principi affermati a livello sovranazionale e fatti propri dalla riforma Cartabia.