SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’inclusione di tutti i beni nel perimetro liquidatorio – 3. La soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari – 4. Il concordato semplificato e una postilla sul recentissimo d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83.
1. Premessa
Premesso un ringraziamento doveroso per il coinvolgimento in questa prestigiosa iniziativa formativa ed un caro saluto a tutti i presenti, con la presente relazione affronto il tema del concordato liquidatorio in poche battute, scusandomi in anticipo per la schematicità della esposizione e per la mancanza di approfondimento di alcune questioni che restano in realtà molto problematiche, anche molto discusse e che sono certamente influenzate anche dalle recenti riforme in tema di crisi di impresa ed insolvenza.
Mi riallaccio in primis alla relazione precedentemente svolta dal prof. Massimo Fabiani sulle linee evolutive del concordato preventivo, condividendo in particolare le conclusioni e l’auspicio in esse contenute, in ordine al fatto che l’attuazione della c.d. Direttiva Insolvency non debba modificare la struttura del concordato quale procedura concorsuale destinata a coinvolgere tutti i creditori e nella quale il ruolo di controllo dell’organo giurisdizionale continui a svolgere una importante funzione di protezione dei diritti dei creditori dissenzienti, come pure della “causa concreta” e delle condizioni di ammissibilità dell’istituto. Ciò posto, con riserva di enunciare una postilla conclusiva sul recentissimo decreto legislativo che, appunto, interviene dando attuazione alla Direttiva UE n. 1023/2019 e modificando in Codice della crisi in vista della sua imminente entrata in vigore, è possibile passare in medias res.
Parlare di concordato liquidatorio significa, in linea di prima approssimazione, far riferimento ad un istituto nel quale l’accordo con i creditori ha la funzione di evitare – prevenire appunto – una possibile dichiarazione di fallimento, mettendo a disposizione degli stessi i beni ed i diritti costituenti il patrimonio del debitore, in vista della ristrutturazione dei debiti di quest’ultimo e del soddisfacimento, in tutto o in parte, dei creditori, in via immediata o, come più spesso avviene, dilazionata[1].
Poste queste coordinate, risulta agevole osservare come il concordato sia, in effetti, una figura nella quale gli elementi dell’autonomia privata e della eteronomia sono destinati in realtà a convivere in modo immanente[2]; quello che cambia può essere la misura del gradiente assegnato all’autonomia rispetto al controllo pubblicistico e, quindi, la prevalenza dell’una o dell’altra area, secondo un tipo di equilibrio che è stato modificato dal 2005 periodicamente, quasi ogni estate. Proprio questo forse banale rilievo, quindi, non consente di parlare dell’intervento emergenziale del d.l. n. 118/2021 in termini di “Controriforma”, proprio perché – come anticipato – è il disegno originario delle riforme degli anni 2005-2006 ad essere stato più volte modificato, ora in un senso ora nell’altro, secondo un meccanismo “pendolare” che è stato ripetutamente messo in risalto[3]. Anche la previsione del nuovo istituto del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, pertanto, seppure contenente talune distonie rispetto al regime “ordinario” del concordato preventivo contiene in sé aspetti – quali il rafforzamento del controllo giudiziale in sede di omologazione – che rappresentano adeguati “anticorpi” rispetto al possibile utilizzo “abusivo” della nuova figura concordataria, così come credo emergerà anche dai contributi che sul punto hanno offerto i primi interpreti[4]. Del resto, questo “baluardo” della omologazione giudiziale, se appare in grado di sventare – unitamente all’espresso rinvio alla previsione dell’art. 173 l.f. – un utilizzo improprio di questo istituto, si collega all’idea per cui, a mio avviso, qualunque rafforzamento dell’elemento negoziale del concordato non può mai andare disgiunto da un mantenimento del controllo giurisdizionale, che costituisce il proprium di una procedura concorsuale caratterizzata dalla presenza di una norma come l’art. 184 l.f., che comporta l’estensione erga omnes degli effetti del concordato. E’ infatti proprio la circostanza per cui vi è una maggioranza che con la propria valutazione è in grado di avvincere una minoranza riottosa (a differenza dell’accordo di ristrutturazione dei debiti in cui, con la limitata ma importante eccezione dell’art. 182 septies l.f., i creditori non aderenti devono essere pagati integralmente e regolarmente), rende in qualche modo indispensabile l’intervento giudiziale, posto che come osservato in motivazione dalle note S.U. del 23 gennaio 2013, l’inibizione dei diritti di difesa dei creditori dissenzienti in tanto si colloca in quadro di compatibilità con l’ordito costituzionale, in quanto la proposta abbia una causa concreta che, appunto, il tribunale è chiamato a scrutinare e che rappresenta una sorta di contropartita rispetto all’effetto esdebitatorio del concordato[5]. A tal riguardo, occorre poi nuovamente sottolineare come l’intervento giudiziale non debba mai andare disgiunto dalla dovuta attenzione e dalla piena consapevolezza delle ricadute anche economiche dei propri provvedimenti; intervento ed attenzione che, come si vedrà alla fine, si devono confrontare anche con i principi di derivazione sovranazionale allorchè ci si trovi di fronte a proposte concordatarie che prevedono la continuazione dell’attività di impresa, sia in forma diretta che indiretta.
Tanto premesso, parlare di concordato liquidatorio nel breve spazio a disposizione, significa a mio avviso, più che affrontare in modo istituzionale l’istituto, toccare almeno alcune questioni che continuano ad agitare il dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
2. L’inclusione di tutti i beni nel perimetro liquidatorio
Il primo di questi temi riguarda l’obbligo per il debitore proponente il concordato liquidatorio di includere o meno tutti i beni appartenenti al proprio patrimonio. Coloro che rispondono negativamente a questa domanda fanno leva soprattutto sull’articolo 160 l.f., il quale da un lato disegna una atipicità della proposta concordataria e, dall’altro, ha visto la soppressione dell’espressione “liquidazione di tutti i beni”, originariamente presente nel testo del 1942, essendo perciò venuta meno questa precisazione. Altri Autori, invece, fanno riferimento all’istituto civilistico della cessio bonorum in favore dei creditori di cui agli articoli 1977 e seguenti c.c. ed in particolare proprio all’art. 1977 c.c., laddove delinea la facoltà del debitore di cedere ai propri creditori la totalità od una parte soltanto dei propri beni. A quest’ultima proposta interpretativa si è peraltro obiettato – ed è questo l’orientamento accolto dalla nostra Cassazione – che se vogliamo prendere come paradigma di riferimento la cessio bonorum, in realtà l’articolo 1977 c.c. va posto in correlazione con il successivo art. 1980 c.c. Orbene, quest’ultima disposizione esclude che la cessione parziale abbia un effetto integralmente solutorio od esdebitativo, introducendo un semplice ordo excussionis in virtù del quale i creditori devono primariamente soddisfarsi sui beni ceduti, ferma tuttavia la possibilità di escutere in via sussidiaria, in caso di incapienza dei primi, anche i beni residui del debitore. Giustamente si è perciò rilevato l’insufficienza del parallelismo con la cessio bonorum di diritto comune, posto che – invece – il concordato preventivo consente ed anzi ha quale effetto tipico proprio quello dell’ottenimento dell’esdebitazione attraverso l’integrale esecuzione del piano e l’adempimento della proposta concordataria.
Quanto alla prima tesi, invece, si è obiettato che il venir meno del riferimento letterale alla cessione di “tutti” i beni non deve essere sopravvalutata; la cessione attiene piuttosto alle modalità attuative della proposta, ma non riguarda in realtà il novero dei beni da ricomprendere nell’attivo da liquidare a favore dei creditori, che continuerebbe ad essere in qualche modo oggetto di una destinazione immanente rispetto alla loro soddisfazione, in virtù della regola generale della responsabilità patrimoniale, ex art. 2740 c.c., di cui in fondo il concordato preventivo non è altro che una modalità di realizzazione. Non mancandosi inoltre di rilevare che la regola della responsabilità patrimoniale ha carattere generale ed occorre perciò una disposizione espressa per derogarvi (come ad esempio l’art. 186 bis l.f. che facoltizza espressamente il diritto del debitore di trattenere i beni strumentali alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale), deroga che – invece – a ben vedere non esiste nel concordato di carattere liquidatorio.
Appare vicino a questo punto di vista l’orientamento assolutamente prevalente della giurisprudenza di merito e legittimità, dovendosi ricordare a quest’ultimo riguardo il precedente rappresentato da Cassazione 14 marzo 2014, n. 6022, nonché il successivo provvedimento adottato dalla Cassazione, il 17 ottobre 2018, con la decisione n. 26005.
Va detto che, in termini più generali, il problema che si sta esaminando può essere letto secondo due diversi piani di analisi: a) il primo riguarda il tema dell’ammissibilità di una proposta concordataria liquidatoria che prospetti la mancata cessione ai creditori di uno o più beni facenti parte del patrimonio del debitore; b) il secondo concerne il tema della possibilità per il debitore di trattenere il risultato utile della liquidazione una volta che i riparti abbiano già consentito di raggiungere la percentuale di soddisfacimento prospettata ai creditori.
Il primo piano di analisi è affrontato dalla citata sentenza del 2018 che, per la verità, affronta un caso di concordato di gruppo in cui la destinazione dei beni non liquidati da una società non aveva una finalità “egoistica” dell’imprenditore o della società che esercitava i poteri di direzione e coordinamento, ma consentiva piuttosto un vantaggio per altra società dello stesso gruppo, che evidentemente era sotto-patrimonializzata ed aveva perciò meno risorse da offrire ai creditori, con un beneficio per questi ultimi ed un correlativo pregiudizio per i creditori della prima società[6].
La risposta del S.C. è nel senso della tradizione, confermando l’obbligo di devoluzione ai creditori dell’intero patrimonio del debitore in caso di concordato liquidatorio, nonché affermando la regola della necessaria distinzione delle masse attive e passive pur a fronte di enti societari appartenenti al medesimo gruppo di imprese. Va al riguardo notato che detta risposta, probabilmente del tutto corretta a legislazione invariata, potrà mutare con l’entrata in vigore del Codice della Crisi, che il recente d.l. 188/2021 ha solo allontanato di alcuni mesi per consentirne un adeguamento ai principi della Direttiva c.d. Insolvency. L’art. 285 co. 2 CCI dispone infatti che “il piano o i piani concordatari possono altresì prevedere operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo, purchè un professionista indipendente attesti che dette operazioni sono necessarie ai fini della continuità aziendale per le imprese per le quali essa è prevista nel piano e coerenti con l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo”. Si tratta di una novità importante, che deve essere salutata con favore e che comporta, probabilmente, ferma la verifica in concreto dell’interesse per i creditori in una visione unitaria, l’accoglimento quantomeno implicito della teoria dei “vantaggi compensativi”[7].
Il secondo ordine di problemi, invece, è precipuamente affrontato dalla ricordata decisione del 2014. Nella fattispecie esaminata un debitore, dopo aver alienato i propri beni in esecuzione del piano concordatario, aveva richiesto al G.D. di poter trattenere il surplus derivante dalla liquidazione, avendo già soddisfatto i creditori secondo la percentuale “promessa” con la proposta concordataria omologata. In questo caso il S.C. – investito del ricorso straordinario di legittimità avverso la decisione del tribunale in sede di reclamo ex art. 26 l.f. sulla negata autorizzazione del giudice – ha ribadito come la percentuale sia nel concordato liquidatorio una indicazione utile al fine di consentire una valutazione di convenienza da parte dei creditori, ma non abbia un effetto vincolante, sì che solo in senso improprio è possibile parlare di “obbligazione concordataria”, in quanto l’obbligazione vera e propria assunta dal debitore consiste nella cessione, nella messa a disposizione a fini satisfattivi dell’intero proprio patrimonio[8].
Del resto, ragionare diversamente significherebbe ritenere che i creditori assumano con la votazione in via esclusiva l’alea della liquidazione, mentre il debitore non avrebbe mai un tale rischio potendo – secondo la tesi qui denegata – trattenere il ricavato della liquidazione o addirittura arrestare l’attività liquidatoria una volta che in sede esecutiva si sia raggiunto il soddisfacimento prospettato ai creditori. Il che, tuttavia, volendo compiere una analogia fondata sulla matrice sicuramente anche negoziale della proposta concordataria, significherebbe “sdoganare” un accordo contrattuale con alea unilaterale posta a carico di uno solo dei contraenti, figura che, tuttavia, in altri campi del diritto civile è stata ritenuta dalla giurisprudenza corrispondente ad una causa non meritevole di tutela giuridica[9].
Voglio qui precisare il mio pensiero al fine di evitare fraintendimenti, specificando che quando ho parlato di surplus della liquidazione ho fatto riferimento al risultato, a volte insperato, più favorevole derivante dall’alienazione di beni ricompresi nell’attivo destinato ai creditori dalla proposta concordataria o l’esito più favorevole di quanto inizialmente ipotizzato delle azioni giudiziarie esperite post omologa, con le quali ad esempio si riesca ad incassare crediti che il debitore riteneva inesigibili. Non ho invece inteso parlare di surplus concordatario nel senso di apporti “esterni” forniti da terzi e che non passando attraverso il patrimonio del debitore sono stati ritenuti dalla Cassazione “finanza esterna”, come tale liberamente attribuibile ai creditori anche senza rispettare rigidamente l’ordine delle cause legittime di prelazione. Questo tema è peraltro assai sensibile se si considera che tale conclusione, probabilmente frutto di una lettura eccessivamente formalistica da parte di una decisione del S.C. risalente al 2012, potrebbe in realtà sostenersi anche rispetto ai risultati utili della prosecuzione dell’attività di impresa nelle forme concordatarie con continuità (c.d. finanza esterna “dinamica”), tanto è vero che la stessa Commissione Pagni ha certamente valutato le connesse criticità, nell’ambito dei lavori di lettura del Codice e di possibile adeguamento dello stesso ai principi della citata direttiva comunitaria.
3. La soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari
Vi è un secondo tema di cui mi vorrei occupare, sia pure in sintesi, che riguarda un ulteriore profilo problematico del concordato liquidatorio. Si tratta dell’introduzione dell’ultimo comma dell’articolo 160 l.f., ad opera della novella del 2015, il quale oggi dispone che “in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186 bis”.
Tale disposizione consente in primo luogo di rilevare come il concordato preventivo liquidatorio abbia vissuto alterne e sempre decrescenti fortune. Infatti, dopo essere stata per lungo tempo la figura principale delle soluzioni concordatarie della crisi di impresa, a partire dal 2012 con l’entrata in vigore dell’art. 186 bis l.f. e degli incentivi alle soluzioni volte a garantire la continuità aziendale, poi nel 2015 con l’introduzione del citato art. 160 ult., si è assistito ad un netto capovolgimento da parte del legislatore. Tale sfavore risulta ulteriormente rimarcato nel Codice della crisi all’art. 84, ove le soluzioni liquidatorie debbono addirittura fondarsi su un attivo supplementare fornito dal debitore rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare. Peraltro, a tal proposito, si hanno notizie che nel corso dei lavori preparatori del Codice della crisi l’autorevole commissione di studio avesse discusso della possibile abrogazione di questo istituto, per poi adottare una soluzione conservativa, nell’evidente consapevolezza della possibile utilità del concordato preventivo, quantomeno nella sua funzione volta ad evitare la declaratoria di fallimento, anche quando si tratti di sottoporre ai creditori una proposta di accordo sulla crisi di contenuto puramente liquidatorio.
Orbene, tornando al tema dell’interpretazione del citato art. 160 ultimo comma, subito dopo la sua entrata in vigore si sono immediatamente fronteggiate almeno tre diverse teorie. Secondo una prima tesi, forse più “liberale”, la norma aveva uno scopo descrittivo, di moral suasion per il debitore, che avrebbe dovuto necessariamente ma – vorrei aggiungere semplicemente – avanzare una proposta concordataria che si limitasse a prospettare ai creditori chirografari un soddisfacimento almeno pari al 20%, senza alcuna assicurazione al riguardo, dovendo tale aspetto, così come quello più generale della fattibilità economica essere valutato in via esclusiva dai creditori; una seconda tesi, invece, pur ritenendo che la citata norma di nuovo conio non avesse introdotto alcun obbligo cogente per il debitore, riteneva necessaria una sorta di attestazione “rafforzata” che avrebbe dovuto prendere in esame la concreta probabilità di giungere al soddisfacimento previsto dalla ricordata disposizione, pur mantenendo la soglia ivi prevista una funzione descrittiva, idonea a consentire ai creditori una valutazione di semplice convenienza economica. Infine, un terzo orientamento ha ritenuto che la norma implicasse un vero e proprio obbligo del debitore, atto ad imporre ed a descrivere come altamente probabile se non ragionevolmente certa la possibilità di raggiungere questa soglia minimale di soddisfacimento, elevata a nuovo requisito di ammissibilità del concordato liquidatorio.
Quest’ultima, pur con alcune sfumature ulteriori che sarebbe opportuno evidenziare rispetto al grado di approfondimento che la valutazione a riguardo deve essere condotta dall’organo giudiziario, rappresenta la tesi che è stata infine accolta dalla Cassazione, da ultimo con la sentenza 17 maggio 2021, numero 13224[10]. Tale decisione, pur partendo dalla distinzione fra fattibilità giuridica e fattibilità economica fatta propria dalle già evocate S.U. del gennaio 2013, ribadisce l’idea che anche la fattibilità economica debba essere oggetto di valutazione giudiziale, nella misura in cui risulti prima facie irrealizzabile il piano sotteso alla proposta concordataria.
Poiché, tuttavia, questa disposizione non si applica evidentemente al concordato in continuità, in forza della clausola eccettuativa riferita all’ambito di applicabilità dell’art. 186 bis l.f., negli ultimi anni si è osservata una vera e propria “corsa” di molti operatori a veder riconosciuti i tratti della continuità nelle proposte concordatarie avanzate, pur se contenenti porzioni più o meno ampie liquidatorie, da cui tutta la teoria della inclusione della c.d. continuità “indiretta” sotto il cono d’ombra rassicurante dell’art. 186 bis l.f.[11]
4. Il concordato semplificato e una postilla sul recentissimo d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83.
Partendo dalle premesse che precedono e ricordato il carattere sommario del presente contributo, si può, sin da ora, evidenziare come l’introduzione del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, di cui agli artt. 18 e 19 del d.l. 188/2021, almeno ad avviso di questo relatore, non abbia modificato alcunchè rispetto all’ambito di operatività delle norme previste per il concordato in continuità. Invero, volendo raggiungere una semplificazione massima ed evitare qualsiasi possibile controversia circa aspetti quali la prevalenza o meno dei flussi derivanti dalla continuità, od altre problematiche in tema di qualificazione dei piani di contenuto misto (nei quali cioè si assiste alla conservazione di beni strategici per la prosecuzione dell’attività di impresa accanto alla liquidazione di altri beni), il legislatore ha inserito una presunzione legale assoluta per cui il concordato semplificato che si innesta sulla fase conclusiva della composizione negoziata, interamente percorsa ma con un esito infausto, si deve ritenere che possieda una finalità e natura liquidatoria. anche laddove – ciò che anzi auspicabilmente avverrà molto spesso – contempli la cessione a terzi dell’azienda o di rami d’azienda in esercizio[12].
Da qui la scelta, volta anche a realizzare un “contrappeso” rispetto alla mancanza di voto dei creditori, di un penetrante giudizio di omologazione da parte del tribunale[13], prima, e dell’affidamento dell’attuazione del piano di liquidazione, poi, ad una figura per certi versi tradizionale come il liquidatore, chiamato peraltro a coniugare le forme competitive delle cessioni con competenze manageriali e criteri di efficienza, quali ad es. la riservatezza sui dati “sensibili” dell’azienda consentita dall’utilizzo di data room accessibili ai potenziali interessati previa sottoscrizione di un impegno alla riservatezza, come pure il possibile ricorso alle competenze ed ai servizi di soggetti specializzati, laddove occorra raggiungere un pubblico più vasto o quando, per la specificità dei beni da cedere, occorrano specifiche competenze o conoscenze in particolari mercati di nicchia.
Peraltro, la presenza della figura del liquidatore ed il rinvio secondo compatibilità alla disciplina dell’art. 182 l.f. consentono, da un lato, di ritenere applicabile al concordato semplificato i principi anche recentemente espressi dal S.C. in tema di nomina del liquidatore[14], fondati sulla natura sussidiaria del potere del tribunale di dettare le modalità di liquidazione ed individuare il soggetto chiamato a fungere da liquidatore, rispetto alle indicazioni contenute nel piano approvato dai creditori; dall’altro lato, vale a confermare l’inclusione dell’istituto introdotto dal d.l. 118/2021 nel novero dei concordati preventivi di carattere liquidatorio. Il che riporta, in fondo, all’idea di perdurante attualità del concordato preventivo liquidatorio ed all’opportunità che il tema sia oggetto di trattazione in un corso di aggiornamento come questo.
Si aggiunga, inoltre, a guisa di postilla conclusiva, che risulta finalmente emanato il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83[15], il quale, nel dare attuazione alla più volte citata Direttiva Insolvency, determina altresì conseguenti modifiche al Codice della crisi di impresa e dell’Insolvenza, destinato ad entrare in vigore dal prossimo 15 luglio 2022[16].
In estrema sintesi, può evidenziarsi in questa sede come, dopo i pareri espressi dal Consiglio di Stato e dalle competenti commissioni delle due camere, l’articolato normativo preveda diverse importanti novità:
- una revisione della definizione di crisi – valutata sul piano temporale prospettico dei dodici mesi e sul dato oggettivo della capacità di far fronte alle obbligazioni che si manifestino in tale periodo – nonché di altre definizioni del codice, dando particolare risalto all’importanza degli adeguati assetti volti ad intercettare precocemente l’insorgenza della crisi e la perdita della continuità aziendale;
- l’implementazione della composizione negoziata del d.l. 118/2021 che, con alcune lievi modifiche, è destinata a sostituire la composizione assistita avanti agli OCRI, innovando in particolare il Titolo II del Codice[17], nel quale gli artt. 25 sexies e 25 septies sono destinati a sostituire senza particolari novità gli artt. 18 e 19 del citato d.l. 118/2021, in tema di concordato semplificato;
- una nuova definizione del concordato in continuità e delle sue finalità, attraverso la riscrittura dell’art. 84;
- la previsione, ormai fondata su dati normativi univoci, di un vero e proprio “secondo binario” di proposizione ed approvazione del concordato in continuità che passa attraverso incisivi elementi normativi, tali da manifestare un evidente favor – di derivazione sovranazionale – per quelle proposte concordatarie di ristrutturazione che siano fondate sulla prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività caratteristica, che si manifesta, volendo mantenere la massima concisione di questo intervento, lungo tre direttrici:
- La possibilità, soltanto nel concordato in continuità, di individuare un surplus legato alla prosecuzione dell’attività di impresa che può essere destinato ai creditori secondo un progetto di distribuzione non più fondato sull’APR (absolut priority rule) e quindi su un rigoroso ed integrale rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione, bensì sul modello comunitario dell’RPR (relative priority rule) il quale consente di passare al grado inferiore senza aver tacitato completamente i creditori di privilegio superiore, purchè questi ultimi comunque ricevano qualcosa in più di quelli sotto-ordinati (in altri termini, fatto 100 il valore di liquidazione, se il piano in continuità consente di ottenere 150, allora l’attivo sino a 100 dovrà essere distribuito strettamente secondo l’ordine legale dei privilegi, mentre da 101 a 150 l’attivo potrà essere distribuito con la regola della priorità relativa, così da poter offrire un soddisfacimento anche ai creditori chirografari, o addirittura postergati, con l’unico vincolo per cui quelli sovraordinati debbono ricevere “qualcosa in più” di quelli meno preferiti;
- Una diversa modalità di espressione e valutazione dei voti per cui, soltanto nel concordato in continuità, si può contare su una maggioranza diversa e, almeno apparentemente, più semplice da raggiungere: infatti se è vero che in linea tendenziale il concordato in continuità deve ricevere il voto totalitario delle classi (vi è infatti un obbligo di classamento per tutti i creditori in tal caso), non di meno vi è una deroga per cui tale risultato può essere comunque “surrogato” e ritenersi raggiunto con il voto favorevole dei due terzi dei crediti votanti, purchè nella classe in cui non si è raggiunta la maggioranza abbiano votato almeno la metà dei crediti ivi inclusi;
- La possibilità di far luogo, in sede di omologazione del concordato in continuità, alla c.d. cross class cram down (prevista nell’art. 11 della Direttiva), per cui il concordato può essere comunque omologato in mancanza di voto unanime favorevole di tutte le classi, quando fra quelle favorevoli si contino classi particolarmente rappresentative e per quelle dissenzienti sia previsto un trattamento non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria; diverso appare, inoltre, nei due diversi casi di concordato, lo spettro valutativo affidato al tribunale: a) per il concordato in continuità la valutazione di “fattibilità” – che perde ogni aggettivazione “economica” – è più semplicemente volta a verificare se “il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”; b) nel caso di concordato liquidatorio, invece, la verifica giudiziale deve incentrarsi sulla “non manifesta inattitudine (del piano) a raggiungere gli obiettivi prefissati”.
In definitiva, si può probabilmente ritenere, almeno a prima lettura, che il legislatore abbia dato un particolare risalto agli interessi tutelati dalla prosecuzione dell’attività di impresa, che si sostituisce al precedente obiettivo del “migliore interesse dei creditori” – che doveva essere assicurato ex art. 182 bis l.f. – tanto da portare ad un nuovo bilanciamento nel quale, a ben vedere, in quanto appunto assicura valori positivi presuntivamente collegati alla prosecuzione dell’attività di impresa (rapporti di lavoro, know-how, avviamento, ecc..), allora consente un affievolimento delle aspirazioni satisfattive dei creditori, per i quali è sufficiente verificare che non siano danneggiati dalla proposta, ossia trattati in modo peggiorativo rispetto all’alternativa liquidatoria.
Si può forse ritenere che tali considerazioni, unite all’esigenza per cui le proposte di concordato liquidatorio devono comunque assicurare quanto richiesto dall’art. 84 co. 4 del nuovo Codice – secondo cui “nel concordato con liquidazione del patrimonio la proposta prevede un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il 10 per cento l’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda e assicuri il soddisfacimento dei creditori chirografari e dei creditori privilegiati degradati per incapienza in misura non inferiore al 20 per cento del loro ammontare” – renderanno meno appetibile il ricorso al concordato con liquidazione del patrimonio. Appare tuttavia prematuro ritenere che il nuovo Codice determini la fine dell’importanza pratica di questo istituto.
[1] Per un primissimo approfondimento: AMBROSINI, L’istituto del concordato preventivo nel quadro dell’ordinamento concorsuale riformato, in Trattato di diritto fallimentare. Le altre procedure concorsuali (a cura di Vassalli-Luiso-Gabrielli), IV, Torino, 2014; BONFATTI-CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011, LO CASCIO, Il concordato preventivo, Milano, 2017.
[2] DI MARZIO, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011.
[3] AMBROSINI, Il diritto della crisi d’impresa nella legge n. 132 del 2015 e nelle prospettive di riforma, in www.ilcaso.it; GUIDOTTI, La crisi d’impresa nell’era draghi: la composizione negoziata e il concordato semplificato, ivi.
[4] BOZZA, Il concordato semplificato introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche dalla l. n. 147 del 2021, in www.ildirittodellacrisi.it; per una visione d’insieme del più recente intervento normativo cfr. FABIANI-PAGNI, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), ivi; sia consentito rinviare anche a FAROLFI, Le novità del D.L. 118/2021: considerazioni sparse “a prima lettura”, ivi e DI MARZIO, Nuove regole per la soluzione della crisi d’impresa, in www.giustiziacivile.com.
[5] Cass. civile, S.U., 23/01/2013, n. 1521, in Foro it., 2015, I, 1534 (con nota di COSTANTINO; FABIANI; SCODITTI): “Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti; il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di un unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la procedura di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua verificando l’effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato; quest’ultima, da intendere come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da un lato, e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro”.
[6] Cass. civile, sez. I, 17/10/2018, n. 26005, in www.giustiziacivile.com, con nota di DI CESARE: “Nel caso di una proposta concordataria con funzione liquidatoria, al fine di ottenere l’effetto esdebitatorio tipico della procedura, la cessione dei beni deve essere totale, integrando, in caso contrario, una lesione del principio di responsabilità patrimoniale del debitore di cui all’art. 2740 c.c. La cessione parziale è consentita solo nel caso di continuità aziendale ex l’art. 186 bis l. fall., in relazione alla finalità perseguita dall’istituto di consentire la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. In particolare, è inammissibile la proposta unitaria di concordato, da parte di società fra loro collegate da vincolo di direzione e controllo del gruppo, che preveda l’attribuzione ai creditori di ciascuna società solo di parte del patrimonio di questa e la destinazione del residuo al pagamento dei debiti di altra società del gruppo”.
[7] Cfr. NIGRO, I gruppi nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: notazioni generali, in www.ilcaso.it; D’ATTORRE, I concordati di gruppo nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Fallimento, 2019, 277; ABRIANI-PANZANI, Crisi e insolvenza nei gruppi di società, in Crisi di impresa e procedure concorsuali (diretto da Cagnasso-Panzani), Torino, 2016, II, 3048.
[8] Cass. civile, sez. I, 14/03/2014, n. 6022, Foro it. 2014, I, 3171 (con nota di FABIANI): “Nel concordato con cessione dei beni l’imprenditore assume l’obbligo di porre a disposizione dei creditori l’intero patrimonio dell’impresa e non di garantire il pagamento dei crediti in una misura percentuale prefissata, a meno di un’espressa previsione in tal senso. Ne consegue che, il ricavato della vendita dei beni va distribuito tra i creditori, i quali beneficiano dell’eventuale miglior risultato, rispetto a quello promesso, in ragione della garanzia generale per loro rappresentata dal patrimonio del debitore”.
[9] Cfr. Cass. civile, sez. I, 03/05/2017, n. 10708, sulla nullità del contratto bancario atipico che preveda l’acquisto di prodotti finanziari mediante un mutuo erogato dalla stessa banca che gestisce o emette quegli strumenti, poi costituiti in pegno a garanzia dell’eventuale mancato rimborso del finanziamento.
[10] Cass. civile, 17/05/2021, n. 13224: “In tema di concordato preventivo, il comma 4 dell’art. 160 l.fall., introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015, nel prevedere che, fatta eccezione per il concordato con continuità aziendale, la proposta deve assicurare in ogni caso il pagamento della soglia minima di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari, definisce l’ambito del controllo della fattibilità giuridica demandato al tribunale, imponendogli di verificare la funzionalità del piano rispetto al raggiungimento di un risultato che preveda necessariamente il soddisfacimento dei creditori chirografari nell’indicata percentuale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia della corte di appello, secondo la quale dovevano essere i creditori, in sede di approvazione della proposta concordataria, a valutare l’idoneità di quest’ultima ad assicurare il pagamento della soglia minima dei crediti chirografari)”.
[11] Per tutte cfr. Cassazione civile, sez. I, 19/11/2018, n. 29742, in Foro.it., 2019, I, 145 (con nota di FABIANI, CARMELLINO): “Il concordato con continuità aziendale, disciplinato dall’art. 186 -bis l.fall., è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all’atto della successiva ammissione, l’azienda sia esercitata da un terzo anziché dal debitore, posto che il contratto d’affitto – sia ove contempli l’obbligo del detentore di procedere al successivo acquisto dell’azienda (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) – assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. “intangibles”), primo tra tutti l’avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe”.
[12] Cfr. LEUZZI, Analisi differenziale fra concordati: concordato semplificato vs ordinario, in www.ilidirittodellacrisi.it.
[13] FICHERA, Sul nuovo concordato semplificato: ovvero tutto il potere ai giudici, ivi.
[14] Cfr. Cassazione civile, sez. I, 29/07/2021, n. 21815: “In tema di concordato preventivo, il decreto con il quale il tribunale in sede di omologazione provvede alla nomina di un liquidatore giudiziale diverso da quello indicato nella proposta approvata, è impugnabile per cassazione a norma dell’art. 111, comma 7, Cost., restando il potere di nomina del tribunale vincolato alla designazione fatta dal debitore, a condizione che essa sia rispettosa dei requisiti previsti dall’art. 28 l.f.”.
[15] Vds. in G.U. 1° luglio 2022, n. 152.
[16] Per una prima analisi della riforma vds. ZANICHELLI, Commento a prima lettura del decreto legislativo 17 giugno 2022 n. 82, in www.ildirittodellacrisi.it.
[17] Da questo punto di vista si segnala altresì l’emanazione del d.m. 3 marzo 2022, n. 75 (pubblicato sulla recente G.U. n. 143 del 21 giugno 2022) in ordine all’Albo dei gestori della crisi di cui all’art. 356 del Codice, il cui riferimento ad una presunta sezione speciale per gli OCRI deve ritenersi frutto di un difetto di coordinamento privo di rilevanza precettiva effettiva.
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