Premessa
Con il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, è stata data attuazione alla l. n. 206/2021, recante delega al Governo “per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata”.
In particolare, i commi 21 e 48 dell’art. 3 del predetto d.lgs, nell’ottica dell’accelerazione e della semplificazione del giudizio di primo grado, hanno apportato modifiche formali e sostanziali al procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702bis, 702ter e 702quater c.p.c., introdotti dalla l. n. 69/2009.
E’ stata disposta, in primo luogo, l’abrogazione dell’intero Capo III-bis del Titolo I del Libro IV del codice di procedura civile, che racchiudeva le predette norme, e la ricollocazione del procedimento in esame nel libro secondo del codice di rito. Precisamente, dopo il Capo III-ter del titolo I, è stato inserito il Capo III-quater, rubricato “Del procedimento semplificato di cognizione”. Non si tratta di una modifica solo formale, in quanto con la stessa si è voluto, da un lato, ovviare all’originaria infelice collocazione del procedimento in esame nel titolo I del libro quarto, ossia tra i procedimenti speciali sommari (rectius: a cognizione sommaria), e, dall’altro, sottolineare l’alternatività del procedimento semplificato rispetto al rito ordinario, ora accentuata anche dall’ampliamento dell’ambito applicativo del primo, desumibile dal nuovo art. 281decies c.p.c.
Nel contempo, il procedimento in esame è stato ridenominato “procedimento semplificato di cognizione”, proprio al fine di ribadire (così evitando qualsivoglia equivoco letterale che la precedente denominazione di “procedimento sommario di cognizione” avrebbe potuto ingenerare) che non si tratta di un giudizio a cognizione sommaria, bensì di un procedimento a cognizione piena, dovendosi la sommarietà intendere come semplificazione e deformalizzazione dell’iter procedimentale rispetto al rito ordinario. Conclusione, comunque, ormai pacifica nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha riconosciuto, in relazione al procedimento “de quo”, la natura di giudizio con pienezza di cognizione ed istruttoria semplificata (Cass., S.U., 5 ottobre 2022, n. 28975; Cass., 27 giugno 2018, n. 16893; Cass., 14 maggio 2013, n. 11465), in cui la sommarietà mira a definire la lite con rapidità, in ragione della più o meno manifesta fondatezza o infondatezza della domanda e della dipendenza del relativo accertamento da poche e semplici acquisizioni probatorie (Cass., 25 febbraio 2014, n. 4485). La sommarietà, in sostanza, è da riferire non alla decisione, bensì alla trattazione ed all’istruzione della causa, le quali risulterebbero, a differenza del rito ordinario caratterizzato da specifiche fasi processuali, semplificate e deformalizzate, così favorendosi l’accelerazione dell’esercizio dei poteri cognitivi decisori (Cass., S.U., 10 luglio 2012, n. 11512, che ha ritenuto ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione nell’ambito del procedimento in esame, proprio perché trattasi di rito avente natura cognitiva e non cautelare). Alle medesime conclusioni è, peraltro, pervenuta anche la Corte costituzionale con la recente sent. n. 253/2020.
Conformemente, quindi, all’ormai consolidato approdo giurisprudenziale, nonché dottrinale, l’attuale denominazione di “procedimento semplificato di cognizione” espunge ogni richiamo letterale alla “sommarietà” e sottolinea che la specialità del procedimento risiede proprio nella semplificazione dello sviluppo procedimentale.
L’art. 15 del d.lgs. n. 149/2022 ha poi dettato disposizioni modificative alle leggi speciali (tra cui, in particolare, il d.lgs. n. 150/11) conseguenti all’introduzione del rito semplificato.
L’entrata in vigore del Capo III-quater, rubricato “Del procedimento semplificato di cognizione”, è prevista per il 30 giugno 2023 e le relative disposizioni si applicheranno ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicheranno, invece, le disposizioni anteriormente vigenti (in tal senso, art. 35 d.lgs. n. 149/2022).
Art. 281-decies (Ambito di applicazione)
Rispetto alla previgente disciplina contenuta nell’art. 702bis c.p.c., che si limitava a prevedere la facoltà di utilizzo del procedimento in esame “nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica”, l’art. 281decies c.p.c. contiene, al co. 1, una più dettagliata indicazione dell’ambito applicativo del nuovo rito semplificato e prevede un’estensione dello stesso anche alle cause di competenza del tribunale collegiale.
In particolare, il rito semplificato viene ad assumere un rilievo centrale nel giudizio di cognizione di primo grado, divenendo il rito obbligatorio per ogni controversia, comprese quelle (il cui numero è stato comunque ridotto dalla riforma in oggetto) in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa non sono controversi, quando la domanda è fondata su prova documentale o è di pronta soluzione oppure richiede un’attività istruttoria costituenda non complessa.
Le altre cause, di maggiore complessità, restano assoggettate al rito ordinario di cognizione, e lo stesso principio opera per la domanda riconvenzionale priva delle condizioni di applicabilità del procedimento semplificato, come si desume dal co. 1 dell’art. 281duodecies c.p.c.
Resta, comunque, ferma la possibilità che l’attore, anche al di fuori delle ipotesi elencate al primo comma, ricorra di propria iniziativa al procedimento semplificato nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica, salva, in tal caso, come previsto dall’ultima parte del co. 1 dell’art. 281duodecies c.p.c., la facoltà del giudice di procedere al mutamento del rito, qualora appaia opportuno trattare la causa con il rito ordinario in ragione della “complessità della lite e dell’istruzione probatoria”.
Così strutturato, il rito semplificato non appare solo alternativo a quello ordinario, ma destinato addirittura a prevalere su questo, sulla base di una valutazione prognostica in ordine alla non complessità della lite, rimessa, in prima battuta, alla parte attrice e sottoposta, successivamente, al vaglio giudiziale.
Le ipotesi di applicazione del rito semplificato, di cui al co. 1, rappresentano la positivizzazione normativa delle fattispecie che, nell’applicazione giurisprudenziale, hanno registrato il più frequente ricorso al procedimento in esame. Si tratta di ipotesi accomunate da un’istruttoria semplificata, che non necessariamente deve intendersi come basata sulle sole prove documentali, ben potendo essere articolate anche prove costituende (interrogatorio formale, prova testimoniale, etc.) da assumersi con modalità deformalizzate (in tal senso, Cass., 10 maggio 2022, n. 14734).
E’ stata, altresì, estesa l’applicabilità del rito semplificato anche ai giudizi di competenza del giudice di pace, posto che il novellato art. 316 c.p.c. prevede ora, al co. 1, che “Davanti al giudice di pace la domanda si propone nelle forme del procedimento semplificato di cognizione, in quanto compatibili”.
Deve, infine, richiamarsi la modifica apportata dalla riforma in commento al co. 3 dell’art. 40 c.p.c., ove è stato aggiunto un ulteriore periodo, secondo cui, in caso di connessione ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. tra causa sottoposta al rito semplificato di cognizione e causa sottoposta a rito speciale diverso da quello di cui alle cause di lavoro e previdenziali ex artt. 409 e 442 c.p.c., le cause debbono essere tutte trattate e decise con il rito semplificato di cognizione. L’intervento risponde alla finalità di operare un coordinamento in caso di eventuale coesistenza tra il nuovo rito semplificato di cognizione e gli altri riti speciali (come quello locatizio ex art. 447bis c.p.c.) diversi da quello in materia lavoristica.
Art. 281-undecies (Forma della domanda e costituzione delle parti)
La norma ricalca, con varie modifiche ed integrazioni, il contenuto dell’abrogato art. 702bis c.p.c. in ordine alle modalità di introduzione del giudizio e di instaurazione del contraddittorio.
Una prima novità riguarda il contenuto del ricorso introduttivo, che, analogamente all’atto di citazione per il rito ordinario, si arricchisce di ulteriori indicazioni ed avvertimenti, ossia: l’indicazione, nei casi in cui la domanda è soggetta a condizione di procedibilità, dell’assolvimento degli oneri previsti per il suo superamento, di cui al nuovo numero 3-bis) dell’art. 163 c.p.c.; gli ulteriori avvertimenti inseriti nel numero 7) del medesimo art. 163 c.p.c. Appare opportuno in proposito rammentare che, in caso di inosservanza dei requisiti inerenti tanto all’“editio actionis” che alla “vocatio in ius”, è applicabile il meccanismo di sanatoria previsto dall’art. 164 c.p.c. (Cass., 6 marzo 2017, n. 5517; Cass., 29 settembre 2015, n. 19345).
Si precisa, poi, che il termine (ordinatorio) entro cui il giudice designato deve emettere il decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti è di cinque giorni. Restano invece invariati il termine per la costituzione del convenuto (non oltre dieci giorni prima dell’udienza) e quello, di quaranta giorni, che deve intercorrere tra la notificazione del ricorso e l’udienza di comparizione. In ordine a tale secondo termine non può non rilevarsi il superamento, sia pure sotto un profilo puramente formale, della diversa formulazione dell’art. 702bis c.p.c., che, tracciando una netta differenza con la disciplina della fase introduttiva del giudizio ordinario, prevedeva che il termine in questione, di trenta giorni, dovesse essere calcolato non in funzione dell’udienza di comparizione, bensì considerando il termine per la costituzione del convenuto, pari ad almeno dieci giorni prima dell’udienza, così pervenendosi ad un termine minimo complessivo di quaranta giorni tra la notificazione del ricorso e la prima udienza.
Sempre in relazione a tale ultimo termine, colmando le lacune presenti nel previgente art. 702bis c.p.c., si precisa ora che trattasi di termine libero (ossia che non prevede il computo nè del “dies a quo” nè del “dies ad quem”), specularmente a quanto previsto dall’art. 163bis c.p.c. per il rito ordinario, e che, qualora il luogo di notificazione si trovi all’estero, tale termine è aumentato a sessanta giorni.
E’ stato poi eliminato il riferimento al deposito “in cancelleria” della comparsa di risposta del convenuto, atteso che la costituzione delle parti avviene ora esclusivamente con modalità telematiche ai sensi del nuovo art. 196quater disp. att. c.p.c., mentre è stata aggiunta, analogamente a quanto previsto nel novellato art. 167 c.p.c. per il rito ordinario, la previsione per cui il convenuto, nella propria comparsa di risposta, deve prendere posizione “in modo chiaro e specifico” sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda. Si tratta di un richiamo all’onere di contestazione specifica di cui all’art. 115, co. 1, c.p.c., il cui rispetto consente, in un’ottica acceleratoria, di definire e circoscrivere più rapidamente il “thema decidendum” ed il “thema probandum”. Per il resto, il contenuto della comparsa di risposta resta modellato sulla falsariga dell’art. 167 c.p.c., con l’esplicita previsione dell’onere, a pena di decadenza, di proporre domande riconvenzionali e di sollevare eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
Degna di segnalazione, anche se scarsamente significativa sotto il profilo pratico in ragione dell’interpretazione già offerta dalla giurisprudenza in ordine al co. 5 dell’art. 702bis c.p.c., è la previsione contenuta nel co. 4 dell’art. 281undecies c.p.c., che, nel disciplinare la facoltà del convenuto di chiamare in giudizio un terzo, non distingue più tra chiamata in causa e chiamata in garanzia. In proposito, va rammentato che il co. 5 dell’art. 702bis c.p.c. faceva letteralmente riferimento alla sola fattispecie della chiamata in garanzia, e non anche alla più generica ipotesi della comunanza di causa contemplata dall’art. 106 c.p.c., per la quale l’intervento coatto ad istanza di parte è pacificamente ammesso ai sensi degli artt. 167, ult. co., e 269 c.p.c. Tuttavia, in assenza di una esplicita esclusione, era doveroso pensare – pena l’irragionevolezza della disposizione – che il legislatore “minus dixit quam voluit”, tanto più che alcune delle fattispecie solitamente ricondotte al concetto di “comunanza di causa” sono caratterizzate da un nesso non meno intenso di quello che assiste la connessione tra la causa principale e quella di garanzia (si pensi, in particolare, alla connessione per alternatività, che giustifica la chiamata del terzo, cd. vero obbligato, ipotesi ricorrente molto frequentemente, ad es., nelle controversie di tipo risarcitorio, allorché il convenuto si difenda sostenendo di non essere lui il responsabile del danno, con conseguente automatica estensione della domanda dell’attore al terzo chiamato in causa dal convenuto: Cass., 15 gennaio 2020, n. 516), sì da rendere assolutamente indesiderabile una trattazione (necessariamente) separata delle cause connesse. Senza trascurare, inoltre, che, in non pochi casi, la chiamata del terzo è strumentale ad una più agevole e compiuta difesa del convenuto, che non poteva essere certamente sacrificata – pena la sospetta incostituzionalità del co. 5 dell’art. 702bis c.p.c. – sull’altare della semplificazione del rito, anche in considerazione del fatto che non è consentito l’intervento coatto del terzo nel giudizio di appello. Non erano, tuttavia, mancate nella giurisprudenza di merito opinioni contrarie, nel senso dell’inammissibilità della chiamata in causa nel rito sommario di cognizione, essendosi rilevato che, mentre nella chiamata in garanzia il convenuto ha un interesse proprio in quanto potenzialmente responsabile e non estraneo all’addebito mossogli dall’attore-ricorrente, nella chiamata in causa il convenuto può liberamente sostenere la responsabilità esclusiva del terzo anche in difetto di contraddittorio con quest’ultimo e, nel caso di fondatezza della propria tesi, ottenere un semplice rigetto del ricorso, mentre l’attore non può dolersi dell’omessa partecipazione del terzo al giudizio non avendolo chiamato, e potendolo peraltro fare in autonomo giudizio (in tal senso, Trib. Genova 16 gennaio 2010, in De Jure).
Il predetto dubbio interpretativo appare definitivamente fugato alla luce della formulazione del co. 4 dell’art. 281undecies c.p.c., che, non operando alcuna distinzione tra chiamata in causa ed in garanzia, non prevede limitazioni dell’ambito applicativo della citazione del terzo in giudizio.
Se il convenuto ha dichiarato, nella comparsa di risposta a pena di decadenza, di voler chiamare in causa un terzo, il giudice, con decreto da comunicarsi alle parti costituite, fisserà la data della nuova udienza nonché il termine perentorio entro cui il convenuto dovrà provvedere alla citazione del terzo, mentre quest’ultimo, dal canto suo, dovrà costituirsi a norma del co. 3 dell’articolo in esame, ossia con le medesime modalità prescritte per la costituzione del convenuto.
Art. 281-duodecies (Procedimento)
Nel delineare la nuova struttura del rito semplificato, come del resto si ricava dai principi della legge delega, sono state mantenute le principali caratteristiche di concentrazione e snellezza proprie del rito sommario, in quanto compatibili con la sua natura di giudizio a cognizione piena.
Al primo comma la norma disciplina il potere del giudice di procedere al mutamento del rito ed, in modo più stringente rispetto a quanto previsto dall’abrogato art. 702ter c.p.c., fissa termini e tempi prevedibili (comunque ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario) per lo svolgimento delle difese delle parti e il maturare delle relative preclusioni, pur sempre nel rispetto del contraddittorio, così limitando la discrezionalità del giudice nella gestione dello sviluppo procedimentale.
In primo luogo, il mutamento del rito, da disporre alla prima udienza, viene previsto in due ipotesi, ossia se il giudice: 1) rileva che per la domanda principale o per quella riconvenzionale non ricorrono i presupposti di cui al co. 1 dell’art. 281decies c.p.c. (fatti di causa non controversi, domanda fondata su prova documentale, di pronta soluzione o richiedente istruttoria non complessa), nel senso che tali presupposti sono del tutto assenti; 2) ritiene che la causa debba essere trattata con il rito ordinario “valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria”. Tale seconda ipotesi, che costituisce una sorta di “valvola di sicurezza”, ricorre: a) nel caso in cui alcuni dei presupposti di cui al co. 1 dell’art. 281decies c.p.c. siano presenti, e tuttavia la controversia appare di complessa istruttoria e/o definizione: ad es., nonostante la natura esclusivamente documentale delle prove, il giudice potrebbe essere indotto al mutamento del rito in quanto i fatti restano controversi oppure in ragione del cumulo delle cause, della pluralità delle parti, dell’entità delle questioni da decidere, della molteplicità dei documenti da esaminare, etc.; b) nel caso di cui al co. 2 del medesimo art. 281decies c.p.c., ossia quando l’attore, nelle cause rimesse al tribunale monocratico, ha proposto la domanda con il rito semplificato anche al di fuori delle ipotesi di cui al co. 1.
Coerentemente con l’estensione dell’ambito applicativo del rito semplificato anche alle cause di competenza del tribunale collegiale, non è più prevista la declaratoria di inammissibilità (cfr. art. 702ter, co. 2, c.p.c.) della domanda principale o di quella riconvenzionale non rientrante tra quelle indicate dal previgente art. 702bis c.p.c., che limitava il procedimento sommario di cognizione alle sole “cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica”. Risulta così superato anche il profilo di illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo del co. 2 dell’art. 702ter cp.c., rilevato dalla Consulta, con sent. n. 253/2020, nella parte in cui tale ultima norma non prevedeva che, qualora con la domanda riconvenzionale, di competenza del tribunale collegiale, venisse proposta una causa pregiudiziale rispetto a quella principale, il giudice adito potesse (anziché dichiarare l’inammissibilità della domanda riconvenzionale) disporre il mutamento del rito sommario in rito ordinario.
Inoltre, è stata eliminata anche l’ipotesi della separazione dalla domanda principale di quella riconvenzionale richiedente un’istruttoria non sommaria, disciplinata dal co. 4 dell’art. 702ter c.p.c., atteso che la mancanza dei presupposti che giustificano la semplificazione del rito, di cui all’art. 281decies c.p.c., in relazione alla domanda principale o a quella riconvenzionale, comporta come unica conseguenza il passaggio dell’intera causa alle forme del rito ordinario. Trattasi di un’opzione senz’altro condivisibile, che privilegia la trattazione congiunta della domanda principale e di quella riconvenzionale, posto che la separazione di tali domande, prevista dal citato co. 4 dell’art. 702ter c.p.c., rappresentava una evidente deroga al principio del “simultaneus processus” di cui all’art. 40 c.p.c., e poneva rilevanti problemi applicativi, non solo sotto il profilo dell’omessa realizzazione dell’economia processuale e del mancato coordinamento tra le pronunce nella parte motivazionale, ma essenzialmente nelle ipotesi in cui le domande fossero collegate in modo tale che eventuali statuizioni non coordinate provocassero conflitti di giudicati e dessero vita a discipline dei rapporti non omogenee, come nel caso delle c.d. connessioni forti, quali quelle per pregiudizialità-dipendenza e incompatibilità (domande contrapposte riferite a un unico rapporto negoziale: es. domanda principale di condanna al pagamento del prezzo e domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento o nullità del contratto: cfr. Cass., 24 gennaio 2006, n. 1285; Cass., 23 luglio 2004, n. 13915).
L’ordinanza di mutamento del rito è “non impugnabile”, come già previsto dal co. 3 dell’art. 702ter c.p.c. In proposito, proprio in relazione a tale ultima norma, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la scelta di mutare il rito rientra nella discrezionalità del giudice, il quale è tenuto a verificare, in relazione all’intero complesso delle difese svolte, se la controversia sia compatibile con un’istruttoria semplificata (Cass., 10 maggio 2022, n. 14734), posto che la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702bis e ss. c.p.c. e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti (come invece sembrerebbe ricavarsi dal richiamo letterale alla “istruzione non sommaria” di cui al co. 3 dell’art. 702bis c.p.c.), bensì all’intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l’altro, della complessità della controversia, nonché del numero e della natura delle questioni in discussione (Cass., 14 marzo 2017, n. 6563). In linea con tale interpretazione pretoria, l’ultimo periodo del co. 1 dell’art. 281duodecies c.p.c. rimette ora al giudice la valutazione prognostica della complessità della lite, oltre che dell’istruzione probatoria, ai fini di una eventuale statuizione di mutamento del rito, conformemente, peraltro, a quanto già disposto dall’art. 183bis c.p.c. in relazione all’ipotesi inversa di passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione. In proposito, deve ritenersi che la complessità della lite sarà configurabile per quei giudizi che, anche se di natura esclusivamente documentale o comportanti un’attività istruttoria contenuta, implichino l’esame e la soluzione di questioni tecniche o giuridiche di una certa complessità che possono richiedere una trattazione non semplificata, sia per l’esigenza delle parti di svolgere e puntualizzare le proprie difese sulla base di quelle della controparte, sia per quella del giudice di far chiarire alle parti i rispettivi assunti nello svolgimento successivo delle udienze, formando in maniera graduale il proprio convincimento.
Quid iuris nel caso in cui il giudice non proceda, pur ricorrendone i presupposti, al mutamento del rito? In relazione alla previgente disciplina del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702bis e ss. c.p.c., la giurisprudenza ha precisato che la mancata conversione del rito sommario in rito ordinario, coinvolgendo un’attività discrezionale del giudice, non si pone quale motivo di nullità del giudizio di primo grado per violazione dei diritti processuali e di difesa (Cass., 5 settembre 2019, n. 22158). Tale conclusione deve trovare conferma anche alla luce del nuovo rito semplificato di cognizione, in quanto, fermo restando un evidente margine di discrezionalità del giudice nella valutazione della complessità della lite e dell’istruttoria, è principio consolidato quello per cui l’adozione, per la trattazione di una controversia, di un rito diverso da quello prescritto non costituisce motivo di nullità e, come tale, non è suscettibile di impugnazione, a meno che non abbia inciso sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove, restando comunque a carico del ricorrente l’indicazione dello specifico pregiudizio che sia derivato dalla omessa adozione del rito previsto (ex multis, Cass., 10 ottobre 2017, n. 23682).
In ogni caso, le preclusioni maturate nel corso del procedimento semplificato non si applicano al giudizio ordinario che si instaura all’esito della conversione del rito, in quanto l’art. 281duodecies c.p.c. nulla dispone al riguardo (laddove, invece, allorquando ha voluto diversamente disporre, il legislatore ha introdotto espressa eccezione alla predetta regola generale, come nel caso dell’art. 4, co. 5, d.lgs. n. 150/11), ed anzi prevede espressamente che il giudice, in seguito alla detta conversione, fissi l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., rispetto alla quale decorrono i termini previsti dall’art. 171ter c.p.c. per il deposito delle memorie integrative, sicchè restano intatte le facoltà assertive ed istruttorie riconosciute alle parti con tali memorie (cfr. Cass., 6 luglio 2020, n. 13879, che ha affermato il medesimo principio in relazione al rito sommario di cognizione).
Il persistente richiamo, già contenuto nel co. 3 dell’art. 702ter c.p.c., all’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., rispetto alla quale decorrono ora i termini previsti dal nuovo art. 171ter c.p.c. per il deposito delle memorie integrative, potrebbe costituire una conferma della non compatibilità del rito semplificato con le cause assoggettate al rito laburistico/locatizio. La prevalente giurisprudenza di merito si è, infatti, espressa nel senso della inconciliabilità tra rito sommario di cognizione e rito del lavoro (Trib. Modena 18 gennaio 2010; Trib. Catanzaro 16 novembre 2009, in Giur. merito, 2010, 2455), non solo sulla base del predetto richiamo all’art. 183 c.p.c. ed alle disposizioni del libro II del codice di rito, ma anche in ragione del fatto che la sostanziale sovrapposizione di disciplina processuale tra i due procedimenti, richiamata dai fautori della tesi opposta, rende inutile il ricorso al rito sommario in esame: la specialità del rito del lavoro è già di per sé idonea a garantire quelle esigenze di semplificazione ed accelerazione delle controversie, sottese alla “ratio” della riforma introdotta dalla l. n. 69/09. Non sono mancate, tuttavia, opinioni contrarie nella giurisprudenza di merito, essendosi sostenuto che il procedimento sommario di cognizione è applicabile anche alle controversie in materia di locazione di cui all’art. 447bis c.p.c., specie nell’ipotesi in cui queste siano connesse ad altre non soggette al rito locatizio, atteso che in tale ultima ipotesi, ai sensi dell’art. 40 co. 3 c.p.c., dovrebbe applicarsi per tutte il rito ordinario, il quale può essere sostituito dal procedimento ex art. 702bis c.p.c. (Trib. Napoli 25 maggio 2010, in Guid. dir. 2010, 29, 44, secondo cui, peraltro, non è vincolante il richiamo al dato letterale del rinvio all’udienza ex art. 183 c.p.c., dovendo lo stesso essere interpretato come rinvio a qualsiasi udienza che apre al procedimento ordinario, e quindi anche all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.). Alla luce della nuova disciplina normativa del procedimento semplificato, l’incompatibilità tra quest’ultimo ed il rito laburistico/locatizio deve ulteriormente ribadirsi in ragione del diverso regime delle preclusioni, soprattutto istruttorie, che li caratterizza: invero, mentre nel rito applicabile alle controversie locatizie e laburistiche vige una rigida scansione di preclusioni all’introduzione nel giudizio di nuovi temi decisionali e di ulteriore materiale probatorio (in quanto, ad es., le parti devono indicare i mezzi di prova ed i documenti di cui intendono avvalersi fin dai loro atti introduttivi), al contrario il nuovo art. 281duodecies c.p.c. – pur dettando, a differenza del lacunoso art. 702ter c.p.c., uno specifico regime di definizione del “thema decidendum” e del “thema probandum” – fissa barriere preclusive meno rigide di quelle che caratterizzano il rito del lavoro, sicchè ammettere che una controversia già sottoposta al rito speciale locatizio o laburistico sia trattata secondo il nuovo rito semplificato, consentirebbe alle parti di sottrarsi al meccanismo delle preclusioni cui sarebbero altrimenti sottoposte.
Il co. 2 della norma in esame, diversamente dall’art. 702ter c.p.c., disciplina espressamente anche la facoltà dell’attore di chiedere, entro la prima udienza, di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Se tale istanza è accolta, il giudice fissa una nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo, il quale deve costituirsi con le stesse formalità previste dal co. 3 dell’art. 281undecies c.p.c. per la costituzione del convenuto. Allo stesso modo il giudice procede se, alla prima udienza, ritiene di dover provvedere al mutamento del rito semplificato in rito ordinario, autorizzando, in tal caso, da subito la citazione del terzo per l’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c.
Il meccanismo della chiamata in causa del terzo da parte dell’attore rispecchia quanto già previsto, per il rito ordinario, dagli artt. 183, co. 5, e 269, co. 3, c.p.c. (ora art. 171ter c.p.c.), anche in ordine al nesso di consequenzialità con le difese esplicate dal convenuto nella comparsa di risposta. Risulta, pertanto, applicabile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il requisito della “comunanza della causa” al terzo sussiste, legittimando l’istanza di chiamata proveniente dall’attore, quando il rapporto da questi dedotto in causa, in relazione o per effetto delle difese ed eccezioni del convenuto, appaia soggettivamente ed oggettivamente connesso con quello facente capo al terzo che si intende chiamare in giudizio; pertanto, ove il convenuto eccepisca di non essere titolare del rapporto dedotto in giudizio ed indichi un terzo come legittimato passivo, il giudice può senz’altro autorizzare l’attore a chiamare in causa il terzo, sia per economia di giudizi che per prevenire un eventuale conflitto di giudicati (Cass., 25 ottobre 1988, n. 5780). In dottrina si è, però, opportunamente precisato che il creditore-attore può chiamare per comunanza un coobbligato diverso da quello convenuto, solo se il chiamante dimostri di aver scoperto dell’esistenza degli altri coobbligati solidali dopo l’inizio del processo, sicchè il giudice rifiuterà l’autorizzazione quando accerti che le difese del convenuto non hanno in realtà fornito all’attore alcun elemento nuovo, tale da fargli correggere l’impostazione originaria della domanda. Concorde in ordine a tale ultima tesi risulta anche una parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa del terzo da parte dell’attore, dovendo scaturire dalle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, è inammissibile qualora l’attore sia stato in grado, sin dall’introduzione del giudizio, di potere ipotizzare eventuali responsabilità di soggetti terzi rispetto al rapporto contrattuale dedotto in giudizio (Trib. Milano, 26 febbraio 1998, in Giur. mil., 1998, 274; Trib. Roma, 25 novembre 1997, in Giur. rom., 1998, 319; Pret. Roma, 20 marzo 1997, in Giur. rom., 1997, 243).
Colmando un’ulteriore lacuna, foriera di un recente contrasto giurisprudenziale, della previgente disciplina di cui all’art. 702ter c.p.c., la norma in commento detta un articolato regime di preclusioni assertive ed istruttorie a carico delle parti, prevedendo che, alla prima udienza, le parti possono, a pena di decadenza, proporre le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dalle altre parti. Non è, invece, disciplinata – ma non può per ciò solo escludersene l’ammissibilità (salva la valutazione in ordine alla conversione del rito per complessità della lite) – l’ipotesi in cui l’attore intenda proporre, alla prima udienza, una domanda nuova (cd. reconventio reconventionis) che sia conseguenza delle difese articolate dalla controparte.
Alla medesima prima udienza le parti possono anche chiedere che il giudice conceda, se sussiste un “giustificato motivo”, un primo termine perentorio non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, nonché un ulteriore termine, non superiore a dieci giorni, per replicare e dedurre prova contraria. Il giudice può, quindi, modulare l’assegnazione di termini anche più brevi rispetto a quelli massimi previsti dalla norma e, in tal caso, potrebbe venir meno il rapporto di proporzionalità tra i due termini (ossia il primo pari al doppio del secondo).
La regolamentazione della fase di definizione del “thema decidendum” e del “thema probandum” appare oltremodo opportuna, se solo si considera che, al momento, si contrappongono due orientamenti in ordine alla questione dell’individuazione del termine ultimo entro il quale le parti possono articolare le loro istanze istruttorie: invero, una prima, preferibile, tesi individua nella (eventuale) pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito ex art. 702ter c.p.c. la barriera processuale che impedisce alle parti la formulazione di nuove richieste istruttorie (Cass., 31 agosto 2021, n. 23677; Cass., 7 gennaio 2021, n. 46; Cass., 18 dicembre 2015, n. 25547); secondo altro orientamento, invece, la valutazione, da parte del giudice, della necessità di un’istruzione non sommaria, ai fini della conversione del rito, presuppone pur sempre che le parti – e in primo luogo il ricorrente – abbiano dedotto negli atti introduttivi tutte le istanze istruttorie che ritengano necessarie per adempiere all’onere probatorio ex art. 2967 c.c., non potendosi attribuire a tale decisione la funzione di rimetterle in termini per la formulazione delle deduzioni istruttorie, che siano state omesse o insufficientemente articolate “in limine litis” (Cass., 5 settembre 2019, n. 22158; Cass., 5 ottobre 2018, n. 24538): tale seconda tesi introduce, però, una decadenza normativamente non prevista, finendo sostanzialmente per equiparare il rito sommario di cognizione al rito del lavoro.
Ebbene, sulla base del combinato disposto dei co. 1 e 3 dell’art. 281undecies e del co. 4 dell’art. 281duodecies c.p.c., deve ora escludersi che sulle parti gravi l’onere, a pena di decadenza, di formulare già negli atti introduttivi le richieste istruttorie, prevedendosi anzi la facoltà di queste di ottenere dal giudice la fissazione, alla prima udienza, di un doppio termine (oltre che per la definizione del “thema decidendum”, anche) per l’articolazione della prova diretta e di quella contraria. Tale previsione, tuttavia, presenta varie criticità:
- in primo luogo, il giudice dovrà valutare, in ogni singolo caso concreto, la ricorrenza di un “giustificato motivo” che legittimi la concessione del doppio termine, evidentemente da ravvisare in una maggiore complessità della vicenda processuale sulla base delle argomentazioni difensive, eccezioni e domande riconvenzionali già spiegate, nonchè della correlata esigenza di tutelare il diritto al contraddittorio e di difesa delle parti. Tale complessità non deve, però, nel contempo essere tale da giustificare il passaggio al rito ordinario ai sensi del co. 1 del medesimo art. 281duodecies c.p.c. Ed è certamente sottile la linea di confine, la cui individuazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, tra la “complessità della lite” che giustifica la concessione del doppio termine istruttorio, proseguendo in tal caso la trattazione del giudizio con il rito semplificato “de quo”, e la “complessità della lite” che, invece, comporta il passaggio al rito ordinario;
- elevato è il rischio che, nella prassi, l’accertamento del “giustificato motivo”, in quanto rimesso alla valutazione discrezionale del giudicante, si traduca in una formula di stile, con assegnazione automatica del doppio termine a semplice richiesta di una delle parti;
- sotto altro profilo, con il primo termine perentorio ciascuna parte si troverebbe a dover articolare la prova diretta allorquando non è ancora definito il “thema decidendum”, posto che entro lo stesso termine le parti possono anche “precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni” già formulate. In proposito, non può non richiamarsi la recente evoluzione giurisprudenziale registratasi in tema di differenza tra “emendatio” e “mutatio libelli”, secondo cui la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (“petitum” e “causa petendi”), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali (orientamento ormai consolidato, a partire da Cass., S.U., 15 giugno 2015, n. 12310, fino alle pronunce più recenti, tra cui Cass., 16 febbraio 2021, n. 4031). Tuttavia, mentre secondo il meccanismo delineato dal co. 6 dell’art. 183 c.p.c., ed ora dall’art. 171ter c.p.c., la modifica della domanda, pur nell’accezione ampliata recepita dalla giurisprudenza, può avvenire non oltre il primo dei tre termini assegnati alle parti, sicchè è consentito alla controparte, con la seconda memoria istruttoria – oltre che replicare alla precisazione e modificazione delle avverse domande, eccezioni e conclusioni – anche articolare prova diretta che tenga conto del “thema decidendum” ormai sostanzialmente definito, nel regime ora delineato dal co. 4 dell’art. 281duodecies c.p.c. ciascuna parte si troverebbe ad articolare la prova diretta senza sapere se la controparte stia procedendo alla modifica delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate, con evidente rischio di “vulnus” del diritto di difesa (diritto la cui tutela è stata anche rafforzata, proprio con il d.lgs. n. 149/2022, con la modifica dell’art. 101 c.p.c., al cui co. 2 è stato inserito un nuovo periodo che ribadisce il dovere del giudice di assicurare il rispetto del contraddittorio e di adottare, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione del diritto di difesa, i provvedimenti opportuni). Né si potrebbe a ciò ovviare con la seconda memoria di cui al predetto co. 4, essendo la stessa deputata, sul piano probatorio, all’articolazione della sola prova contraria, la quale, sempre secondo la giurisprudenza, consiste nella semplice “controprova” rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti compiuto nel primo termine (ossia quello inerente alla formulazione della prova diretta), con la conseguenza che già entro lo scadere del primo termine la parte interessata ha l’onere di richiedere prova contraria in relazione ai fatti allegati dalla controparte e definitivamente fissati nel “thema decidendum” (Cass., 9 novembre 2017, n. 26574), sempre che, ed è proprio questo il punto, tale “thema” sia stato definito. In altri termini, appare lesiva del contraddittorio la commistione delle attività assertive ed istruttorie, conseguente all’accorpamento, in un unico termine, delle attività previste dai primi due termini di cui all’art. 183 co. 6 c.p.c. (ora dall’art. 171ter c.p.c.), soprattutto alla luce della facoltà ormai riconosciuta alle parti di apportare, in sede di “emendatio”, rilevanti modifiche al “petitum” ed alla “causa petendi” delle domande già proposte.
La nuova regolamentazione della fase procedimentale del rito semplificato incide anche sull’individuazione del limite temporale del potere di contestazione delle parti. Invero, in relazione al regime di cui agli artt. 702bis e ss c.p.c., si è sostenuto che, fino alla sua eventuale conversione in rito ordinario con la fissazione dell’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., non può rinvenirsi alcuna preclusione correlata all’onere di contestazione specifica di cui all’art. 115 c.p.c. (Cass., 9 settembre 2021, n. 24415). Tale principio non appare più attuale, in quanto – dovendo la valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, essere correlata al regime delle preclusioni che la disciplina processuale connette all’esaurimento della fase entro la quale è consentito ancora alle parti di precisare e modificare, sia allegando nuovi fatti, sia deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte – il regime delineato dal co. 4 dell’art. 281duodecies c.p.c. consente alle parti di ottenere, in prima udienza, la concessione di un doppio termine istruttorio, il primo dei quali è deputato anche alla precisazione e modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte. Ne deriva che è a tale primo termine che deve ora ancorarsi il momento ultimo per l’esercizio del potere di contestazione, analogamente a quanto statuito dalla più recente giurisprudenza in ordine al rito ordinario, allorquando si è precisato che la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall’attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall’art. 183 c.p.c. (Cass., 26 maggio 2020, n. 9690; Cass., 6 dicembre 2019, n. 31402). Non può, tuttavia, non rilevarsi che, in ragione del più gravoso onere del convenuto di prendere posizione, fin dalla comparsa di risposta, “in modo chiaro e specifico” sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (art. 281undecies, co. 3, c.p.c.), il convenuto medesimo, già all’atto della sua costituzione in giudizio – a fronte di una allegazione da parte dell’attore chiara e articolata in punto di fatto – deve contestare in modo analitico le circostanze addotte dalla controparte, e, se non lo fa, i fatti dedotti dall’attore debbono ritenersi non contestati per i fini di cui all’art. 115 c.p.c. (argomentando da Cass., 23 marzo 2022, n. 9439).
L’ultimo comma della norma in commento disciplina, infine, l’ammissione e l’assunzione dei mezzi di prova, limitandosi a disporre che il giudice, se non rinvia la prima udienza per consentire la chiamata del terzo da parte dell’attore (ai sensi del co. 2) e se non assegna alle parti i termini istruttori (ai sensi del co. 4), ammette i mezzi di prova rilevanti e procede alla loro assunzione, sempre che la causa non sia già matura per la decisione.
Evidente è la differenza rispetto al co. 5 dell’art. 702ter c.p.c., secondo cui il giudice, alla prima udienza, “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto…”: tale norma riecheggiava palesemente quella dell’art. 669sexies, co. 1, c.p.c. relativa al procedimento cautelare uniforme, ma era stata depurata dalle espressioni (come l’indispensabilità degli atti istruttori) che avrebbero potuto far pensare ad un accertamento incompleto o comunque sommario, tipico dei provvedimenti cautelari. Con la riforma processuale in commento, tuttavia, in ragione del carattere di prevalente alternatività del rito semplificato rispetto al rito ordinario, desumibile dall’art. 281decies c.p.c. (in particolare dal co. 1 di tale norma), non era opportuno che la gestione della fase di trattazione e di quella istruttoria del rito semplificato, quest’ultimo ormai utilizzabile anche nelle cause rimesse alla decisione del tribunale in composizione collegiale, venisse lasciata alla valutazione discrezionale del giudice (“procede nel modo che ritiene più opportuno…”: sul carattere discrezionale di tale valutazione cfr. Cass., 25 febbraio 2014, n. 4485), essendo apparso, quindi, necessario procedere ad una maggiore predeterminazione e formalizzazione dell’”iter” procedimentale, che riducesse la differenza originariamente esistente tra rito ordinario e rito sommario di cognizione. Tale obiettivo è stato perseguito con l’introduzione, da un lato, di un regime di preclusioni assertive ed istruttorie prima insussistente, e con l’eliminazione, dall’altro, di ogni profilo di deformalizzazione anche nell’articolazione dei mezzi di prova, posto che la precedente formulazione letterale del co. 5 dell’art. 702ter c.p.c. (“procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione…”) aveva indotto parte della dottrina e della giurisprudenza di merito (Trib. Varese 18 novembre 2009, in Guid. dir., 2009, 50, 46) a ritenere ammissibile anche una prova testimoniale richiesta senza indicazione di capi specifici e dei testi, ossia senza le formalità tipiche del rito ordinario. Ora, invece, il co. 5 dell’art. 281duodecies c.p.c. prevede, in maniera lapidaria, che “il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione”, senza alcuna espressione che possa far pensare ad una deroga alle modalità ordinarie di articolazione delle istanze istruttorie.
Permane, tuttavia, il richiamo meramente pleonastico (già presente nel co. 5 dell’art. 702ter c.p.c.) al carattere “rilevante” dei mezzi di prova che il giudice deve ammettere, non potendosi certo ipotizzare che il giudice ammetta prova ritenute irrilevanti ai fini della decisione.
Il co. 5 della norma in commento è richiamato anche nel novellato art. 183bis c.p.c., che, nel disciplinare il passaggio dal rito ordinario al rito semplificato, prevede che quest’ultimo prosegua ai sensi di tale comma.
Art. 281-terdecies (Decisione)
Novità di grande rilevanza, anche pratica, è la previsione della conclusione del procedimento con sentenza, in luogo dell’ordinanza di cui all’art. 702quater c.p.c.
Precisamente, nelle cause in cui la decisione spetta al tribunale monocratico, la definizione del giudizio avviene secondo il modello della discussione orale di cui all’art. 281sexies c.p.c., che ora prevede, a seguito della riforma, la facoltà del giudice, al termine della discussione orale, in alternativa alla lettura contestuale della sentenza e del dispositivo, di riservare il deposito della sentenza nei successivi trenta giorni.
Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, la decisione è adottata a norma dell’art. 275bis c.p.c., ossia, anche in tal caso, a seguito di discussione orale davanti al collegio, con facoltà dell’organo giudicante di depositare la sentenza nei successivi sessanta giorni.
La previsione dell’impugnabilità della sentenza nei modi ordinari risolve, poi, varie questioni interpretative emerse in relazione all’art. 702quater c.p.c., prima fra tutte quella inerente alla individuazione delle disposizioni del procedimento di appello ritenute compatibili con il rito sommario, essendo dovuta intervenire più volte la giurisprudenza per precisare che: l’appello ex art. 702quater c.p.c. va proposto con citazione (Cass., 15 dicembre 2014, n. 26326, secondo cui, quindi, la tempestività del gravame va verificata calcolando il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell’atto introduttivo alla parte appellata); nell’ipotesi in cui l’ordinanza che decide il giudizio non venga né notificata né comunicata, può trovare applicazione il termine lungo di sei mesi previsto per l’appello dall’art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione del provvedimento (Cass., 12 gennaio 2022, n. 822); l’appello è ammissibile anche avverso l’ordinanza di rigetto o che dichiari inammissibile, in quanto tardiva, la domanda (Cass., 19 maggio 2015, n. 10211; Cass., 27 marzo 2014, n. 7258). Da ultimo, sanando la discrasia giurisprudenziale registratasi sul punto, le Sezioni Unite hanno statuito che il termine di trenta giorni di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702quater c.p.c. decorre, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell’art. 281sexies c.p.c. In mancanza delle suddette formalità, l’ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell’art. 327 c.p.c. (Cass., S.U., 5 ottobre 2022, n. 28975).
Ebbene, il generico, ma inequivoco, richiamo alla disciplina impugnatoria ordinaria consente ora di superare tutte le predette problematiche. Né è apparsa necessaria, come si legge nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 149, l’adozione di una norma specifica sull’appello, come attualmente previsto dall’articolo 702quater c.p.c.per il rito sommario di cognizione, in ragione della disciplina maggiormente formalizzata dell’esercizio dei diritti di difesa delle parti, ivi compresa l’espressa previsione per l’attore di chiamare in causa un terzo (ferma restando la valutazione del giudice sulla opportunità di proseguire nelle forme del rito semplificato).
Per le stesse ragioni deve, inoltre, fugarsi ogni dubbio sull’impugnabilità della sentenza che definisce il giudizio anche con gli altri rimedi indicati dall’art. 323 c.p.c. (qualora ne ricorrano i presupposti) A tale conclusione, peraltro, la giurisprudenza era già pervenuta in relazione al disposto dell’art. 702quater c.p.c. (sebbene tale norma prevedesse, quale mezzo d’impugnazione tipico, soltanto l’appello), trattandosi comunque di un’ordinanza alla quale, per la sua attitudine al giudicato, doveva essere assegnata la natura sostanziale di sentenza. Ed infatti, proprio recentemente Corte cost. n. 89/2021 ha affermato che la revocazione per errore di fatto ex art. 395 n. 4 c.p.c. può essere esperita contro ogni atto giurisdizionale costituente provvedimento decisorio, compresa l’ordinanza conclusiva del procedimento ex art. 14 d.lgs. 150/2011, assoggettata al rito sommario di cognizione.
Infine, la decisione con sentenza non esclude che la declaratoria di incompetenza del giudice adito debba, però, essere adottata con ordinanza ex artt. 44 e 279, co. 1 c.p.c., tranne che nell’ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo (Cass., 10 giugno 2019, n. 15579), sempre che si ritenga tale opposizione compatibile con il rito semplificato (questione anch’essa controversa in dottrina e giurisprudenza in relazione al rito sommario di cognizione).