Sommario: 1. Premessa – 2. L’illecito disciplinare conseguente a reato – 3. La sanzione della rimozione – 4. Il giudizio a quo e l’ordinanza di rimessione – 5. La sentenza di incostituzionalità – 6. Gli effetti della decisione sui giudizi pendenti e su quelli definiti – 7. Conclusioni

1. Premessa.
Con la sentenza n. 51 del 5 marzo 2024 (dep. 28 marzo 2024, GU 3 aprile 2024), la Corte costituzionale ha dichiarato, in riferimento all’art. 3 Cost., costituzionalmente illegittimo l’art. 12, comma 5, D.Lgs. 23 febbraio 2006, n 109 (d’ora innanzi anche decreto legislativo), in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, eliminando dalla disposizione la parte in cui stabilisce l’automatica rimozione dalla magistratura del magistrato che abbia riportato condanna a pena detentiva non sospesa per delitto non colposo non inferiore ad un anno.
La questione di costituzionalità è stata sollevata dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione a seguito del ricorso proposto dal magistrato avverso la sentenza con cui la Sezione disciplinare del CSM (d’ora innanzi la “Sezione disciplinare”) gli aveva inflitto, in applicazione della norma ora dichiarata incostituzionale e in relazione all’illecito disciplinare di cui all’art. 4, lett. d), d.lgs. n. 109/2006, la sanzione della rimozione, in quanto condannato con sentenza irrevocabile per il delitto di falso ex art. 476 c.p., alla pena non sospesa della reclusione di anni due e mesi quattro per avere apposto – con il consenso della presidente del collegio di cui era componente – la firma apocrifa della presidente in tre provvedimenti giurisdizionali.
La decisione è di particolare rilievo in quanto involge, per un verso, i rapporti tra il procedimento penale e gli effetti che l’accertamento condotto in tale sede svolge su quello disciplinare e, per altro, il tema della compatibilità costituzionale delle c.d. “pene fisse”, da sempre sotto l’attento riflettore della Consulta, soprattutto allorché il giudice non disponga di ulteriori strumenti per modulare la risposta sanzionatoria all’effettivo disvalore del caso concreto.
L’esclusione di qualsiasi automatismo tra la rimozione disciplinare e la condanna subita dal magistrato nel procedimento penale comporta che la Sezione disciplinare, al ricorrere dell’ipotesi censurata, dovrà determinare discrezionalmente la sanzione da applicare all’incolpato, potendo optare ancora per la rimozione, laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni.
Resta aperto il problema delle conseguenze che la dichiarazione di illegittimità costituzionale possa svolgere sui procedimenti disciplinari già conclusisi, in cui la rimozione è stata applicata in conseguenza dell’automatismo creato dalla disposizione dichiarata incostituzionale, nonché del tipo di sanzione che la stessa Sezione disciplinare potrà applicare, alla luce del variegato catalogo stabilito dall’art. 5 del decreto legislativo.
Nei successivi paragrafi, richiamata la disciplina degli illeciti disciplinari conseguenti a reato, già foriera di “frizioni” di costituzionalità, nonché del sistema sanzionatorio stabilito per tali tipologie di illecito, si evidenzieranno le ragioni che hanno portato le Sezioni unite civili a dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 109/2006 e le motivazioni che hanno indotto la Corte costituzionale a ritenere fondata la questione, sancendo l’eliminazione di quel segmento della disposizione che stabiliva l’automaticità della sanzione della rimozione in caso di condanna a pena detentiva non sospesa per delitto non colposo non inferiore ad un anno.
Ci si soffermerà, poi, sui profili assai problematici relativi agli effetti che tale decisione è destinata ad operare non soltanto con riguardo ai giudizi in corso, ma anche rispetto a quelli già conclusosi con sentenza irrevocabile, interrogandosi sulle ricadute di sistema che potrebbero conseguire dalla pronuncia, in vista di auspicabili interventi legislativi volti a ridisegnare il catalogo delle sanzioni per gli illeciti disciplinari dei magistrati in un’ottica di maggiore proporzionalità e personalizzazione1.

2. L’illecito disciplinare conseguente a reato.
Il D.Lgs. n. 109/2006 individua tre categorie di illeciti disciplinari del magistrato. Le prime due, rispettivamente tipizzate agli artt. 2 e 3, riguardano gli illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle funzioni ovvero al di fuori dell’esercizio delle funzioni. La terza, invece, contemplata dall’art. 4, attribuisce rilievo disciplinare ai fatti costituenti reato o per i quali è intervenuta, a certe condizioni, condanna penale.
L’art. 4 (“Illeciti disciplinari conseguenti a reato”) distingue quattro ipotesi di illecito disciplinare. Le prime tre sono accomunate dalla condanna irrevocabile riportata dal magistrato, a cui la normativa disciplinare assimila quella di patteggiamento, con più di qualche dubbio non solo in virtù degli orientamenti della giurisprudenza amministrativa riguardo agli effetti che tale forma di sentenza può assumere nel procedimento disciplinare, ma soprattutto a seguito dell’entrata in vigore del nuovo art. 445, comma 1-bis, c.p.p. che depone per l’esclusione di tale equiparazione anche quando tale sentenza è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento2.
In particolare, costituiscono illecito disciplinare conseguente a reato i fatti per cui è intervenuta condanna: a) per delitto doloso o preterintenzionale, quando la legge stabilisce la pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria; b) per delitto colposo, alla pena della reclusione, sempre che i fatti presentino, per modalità e conseguenze, carattere di particolare gravità; c) per contravvenzione, alla pena dell’arresto, sempre che i fatti presentino, per le modalità di esecuzione, carattere di particolare gravità. La quarta, invece, di cui alla lett. d), svolge la funzione di clausola di chiusura, stabilendo che costituisce illecito disciplinare «qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita».
Mentre nelle prime tre ipotesi è necessaria la condanna penale e dovrà aversi riguardo all’accertamento compiuto dal giudice penale, la cui sentenza ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare a norma degli artt. 20, comma 2, del decreto legislativo e 653, comma 1- bis, c.p.p., quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che il magistrato lo ha commesso, per l’ipotesi di cui alla lett. d), invece, potendo anche mancare la condanna o financo lo svolgimento di un procedimento penale che abbia accertato la sussistenza del reato, competerà al giudice disciplinare sussumere il fatto nell’alveo di una fattispecie penale che risulti idonea a ledere l’immagine del magistrato.
Inoltre, mentre nell’ipotesi di cui all’art. 4, lett. a) l’illecito disciplinare è integrato dalla mera commissione di un delitto doloso ovvero preterintenzionale, nelle successive due ipotesi di cui alle lett. b) e c), l’illecito dipende dalla particolare gravità del delitto colposo o della contravvenzione commessi.
L’illecito disciplinare, pertanto, in queste ipotesi non dipende da un concreto accertamento incentrato sulle conseguenze che la condotta penale del magistrato ha sul prestigio dell’ordine giudiziario e sulla credibilità di cui egli deve godere tra i consociati e verso le altre istituzioni, ma attiene, nel primo caso, ad una mera verifica formale che l’incolpato abbia riportato una condanna irrevocabile per avere commesso un delitto doloso o preterintenzionale punito almeno con la reclusione e, nel secondo e terzo caso, ad una valutazione di gravità del fatto di reato condotta unicamente alla stregua dei canoni stabiliti per l’accertamento penale (con la precisazione che nell’ipotesi di cui alla lett. b) occorre avere riguardo non solo alle modalità di esecuzione del reato, ma anche alle sue conseguenze).
Un ambito di cognizione del giudice disciplinare che si traduce in una mera funzione “notarile” nel caso di cui alla lett. a), dovendo solo verificare il titolo di reato (delitto doloso o preterintenzionale) e che la legge stabilisca la pena detentiva solo o congiunta a quella pecuniaria (prescindendo, pertanto, dalla pena poi concretamente inflitta dal giudice penale) e, assai limitato nelle altre ipotesi di cui alle lett. b) e c), ove l’illecito, incentrato sui profili di offensività propri del giudizio penale, potrebbe essere privo di ricaduta sui beni giuridici che presiedono agli illeciti disciplinari di cui agli artt. 2 e 3 del decreto legislativo (peraltro, in tali casi, si prescinde anche dalla misura della pena detentiva concretamente inflitta dal giudice penale).
Un effetto, dunque, vincolante del giudicato penale, in termini assoluti riguardo al caso della responsabilità per delitto doloso o preterintenzionale, la cui pena edittale, indipendentemente dalla sanzione inflitta, contempli la reclusione; in termini relativi, invece, con riferimento ai delitti colposi o alle contravvenzioni punite con pena detentiva, richiedendosi la verifica che il giudice penale abbia inflitto la pena detentiva della reclusione o dell’arresto e si tratti di fatto di particolare gravità sulla scorta, però, di indici di disvalore propri della fattispecie penale (modalità e conseguenze).
Si è al cospetto, quindi, di una valutazione di disvalore già compiuta in astratto dal legislatore, secondo cui – e il riferimento è soprattutto all’ipotesi di cui all’art. 4, lett. a) – la commissione di un reato doloso o preterintenzionale comporta di per sé discredito per il magistrato e per l’ordine giudiziario, a prescindere financo dal ricorso a quei profili di gravità del reato che pure sono richiamati ai fini dell’integrazione delle ulteriori ipotesi relative alla condanna a pena detentiva per delitto colposo o contravvenzione (ipotesi di cui alle lettere b) e c).
Una previsione che può prestarsi a rilievi in punto di ragionevolezza.
Anzitutto, il riferimento è operato ad un catalogo generale ed indistinto di reati, considerato che il criterio di selezione delle fattispecie è sostanzialmente affidato all’editto sanzionatorio, prescindendo del tutto dalla sanzione inflitta in concreto dal giudice penale con riguardo alle ipotesi di cui alla lett. a), ovvero dalla entità della pena con riferimento alle ipotesi di cui alle lett. b) e c).
Inoltre, finisce per configurare l’illecito disciplinare come una sorta di responsabilità del magistrato verso l’intero ordinamento giuridico, così assurgendo ad una sorta di responsabilità presunta, tanto più se si aderisce ad una interpretazione formalistica che escluda rilievo all’applicazione di sanzioni sostitutive o alternative ovvero alla sospensione condizionale.
A nulla rilevando la possibilità – ormai definitivamente ammessa dalle Sezioni unite civili – del possibile recupero dei profili “tipici” di offensività dell’illecito disciplinare mediante l’applicazione dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto di cui all’art. 3-bis del decreto legislativo che, come noto, presuppone l’assenza di ricadute sul prestigio dell’ordine giudiziario e sulla credibilità che deve godere il magistrato all’interno e all’esterno dell’ufficio, consentendo così l’ingresso, a fini valutativi, anche ad elementi di tipo soggettivo inerenti alla persona dell’incolpato3.
Si tratta, pur sempre, di un giudizio che verrà, di regola, svolto a seguito dell’esercizio dell’azione disciplinare e, dunque dell’apertura del relativo procedimento, i cui effetti di stigmatizzazione a carico del magistrato sono diffusamente noti soprattutto per le disposizioni di carattere ordinamentale che conseguono alla mera assunzione della qualità di incolpato4.

Né la rigidità del sistema è bilanciata dalla previsione residuale di cui alla lett. d) dell’art. 4 che, come accennato, fa riferimento a qualunque fatto costituente reato purché idoneo a ledere l’immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita. Nessuna limitazione alla sussistenza dell’illecito è, dunque, data dall’esito e nemmeno dall’esistenza di un eventuale procedimento penale instaurato per il reato contestato5.
Nonostante i meritevoli adattamenti della giurisprudenza disciplinare che ha ricondotto il parametro dell’immagine alla violazione dei doveri del magistrato sanciti dall’art. 1 del decreto legislativo e, soprattutto, a quelli della correttezza e dell’equilibrio, resta comunque una previsione che, seppur legata ad un elemento di antigiuridicità speciale (la lesione dell’immagine del magistrato intesa come ricaduta interna ed esterna del prestigio che questi dove godere nell’esercizio delle funzioni), fa riferimento ad un catalogo di fattispecie illimitato, le quali sono idonee ad assumere valenza di notizia disciplinare anche se prive di disvalore penale per ragioni di carattere sostanziale o processuale (si pensi all’estinzione del reato per remissione della querela o a seguito di condotte riparatorie o per messa alla prova), riproponendosi il tema, in precedenza accennato, dell’ambito del disvalore deontologico della condotta del magistrato soprattutto allorché abbia agito uti privatorum e si tratti di vicende personali o private confinate in tale ristretta cerchia.
Per non sottacere anche dei possibili rischi di “eccedenze ermeneutiche” al fine di colmare i difetti di tassatività della fattispecie, con ricadute anche sul piano della necessaria “prevedibilità” del rimprovero disciplinare.
Con l’ulteriore rilievo che l’indifferenza, ai fini dell’integrazione dell’illecito, dell’eventuale decorso dei termini di prescrizione del reato non esclude che si possa procedere nei confronti del magistrato per fatti datati, ma comunque riconducibili nell’alveo disciplinare in virtù del diverso e lungo termine di “prescrizione” (rectius di decadenza) stabilito per l’illecito disciplinare dall’art. 15, comma 1-bis, D.lgs. n. 109/2006, a mente del quale “non può comunque essere promossa l’azione disciplinare quando sono decorsi dieci anni dal fatto”.
Del resto, non va dimenticato che proprio l’ipotesi di cui all’art. 4, lett. d) è quella che comunemente si accompagna all’apertura di un procedimento penale nei confronti del magistrato.
Invero, posto che per l’integrazione dell’illecito di cui alle prime tre ipotesi è necessario, quale elemento di fattispecie, che sia intervenuta la condanna – tanto che correttamente la dottrina ne evidenzia la ontologica diversità –, allorché i Titolari dell’azione disciplinare abbiano notizia dell’apertura di un procedimento penale nei confronti del magistrato, la relativa notizia disciplinare non potrà che essere costituita dall’ipotesi di cui all’art. 4, lett. d) (come peraltro avvenuto nel caso da cui è originata la questione di costituzionalità), salvo poi rimodulare la contestazione laddove, a seguito della sospensione per pregiudizialità del procedimento disciplinare a norma dell’art. 15, comma 8, intervenga la condanna del magistrato in relazione a fattispecie o a pena che consenta di sussumere il fatto nelle più gravi ipotesi di cui alle lett. a), b) e c) dell’art. 4 6.

3. La sanzione della rimozione.
L’art. 5 del D.Lgs. n. 109/2006 prevede sei diverse sanzioni disciplinari, di gravità crescente, a carico del magistrato che viola i suoi doveri: l’ammonimento, la censura, la perdita dell’anzianità, l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, la sospensione dalle funzioni da tre mesi a due anni, e infine la rimozione.
Ove non diversamente stabilito, la Sezione disciplinare è libera di scegliere, tra tutte queste sanzioni, quella più adeguata alla gravità dell’illecito di cui il magistrato sia ritenuto responsabile.
Tale principio, però, incontra un limite nell’art. 12 del decreto legislativo che prevede una serie di stringenti regole che limitano la discrezionalità della Sezione disciplinare nella selezione delle sanzioni, imponendo l’adozione di una sanzione minima (“si applica una sanzione non inferiore a..”), di gravità progressiva, nelle ipotesi di illecito previste nei commi da 1 a 4, e con forbice ampia verso l’alto, posto che la sanzione minima dell’ammonimento è applicabile soltanto agli illeciti per i quali non è indicata una sanzione superiore, mentre per la gran parte degli altri illeciti il Giudice disciplinare potrà infliggere anche la più grave della rimozione 7. Non si prevede, poi, il rilievo, ai fini sanzionatori, di elementi circostanziali che consentano al Giudice disciplinare di infliggere una sanzione meno grave di quella “minima” stabilita per il tipo di illecito.
La rimozione, per come espressamente stabilito dall’art. 11 del decreto legislativo, determina la cessazione del rapporto di servizio e viene attuata mediante decreto del Presidente della Repubblica, a differenza delle altre sanzioni che, invece, sono recepite in un decreto ministeriale.
Tutte le sanzioni, infatti, necessitano di essere recepite in un provvedimento amministrativo in quanto destinate ad incidere sullo stato giuridico ed economico del magistrato.
La rimozione è, poi, prevista come unica sanzione nei casi previsti dall’art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 109/2006.
Il comma 5, oggetto della pronuncia di incostituzionalità in parte qua, vincola, infatti, la Sezione disciplinare a infliggere la rimozione in tre distinte ipotesi, due delle quali riguardano l’illecito disciplinare conseguente a reato:

  • quella in cui il magistrato sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lettera e), dello stesso decreto legislativo;
  • quella in cui il magistrato incorra nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale;
  • quella in cui il magistrato incorra «in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».

La previsione di un’unica sanzione si presta a dubbi di costituzionalità.
Con riferimento all’illecito di cui all’art. 3, comma 1, lett. e) – che sanziona i prestiti e le agevolazioni ricevute dal magistrato da soggetti coinvolti in procedimenti – poiché può presentare in concreto livelli di disvalore assai variabili.
Nel caso, invece, di condanna penale che comporti l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, occorre distinguere l’ipotesi dell’interdizione perpetua da quella temporanea.
Se l’interdizione è perpetua, la rimozione rappresenta soltanto un effetto della pena accessoria comminata in perpetuo. Pertanto, anche se il procedimento disciplinare, in presenza il dato formale della condanna, ha un esito vincolato, ciò non può dirsi contrario ai principi che impongono la gradualità della sanzione nell’ambito del processo disciplinare.
Se l’interdizione è temporanea, la condanna non preclude, di per sé, la possibilità di una prosecuzione del rapporto di lavoro; tuttavia, sia pure attraverso il precetto disciplinare, nel quale il giudice non ha alcuna discrezionalità, l’effetto della rimozione si produce automaticamente.
In caso di condanna, non sospesa, alla detenzione non inferiore ad un anno per delitto non colposo, si aggiunge l’ulteriore rilievo che le pene alternative previste all’ordinamento penitenziario potrebbero in concreto escludere la detenzione e consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Nella sostanza, pertanto, ci si trova di fronte a una valutazione di incompatibilità con l’ulteriore esercizio delle funzioni, effettuata in astratto dal legislatore in modo vincolante per il Giudice disciplinare.
Con la conseguenza che il precetto disciplinare finisce per essere un vuoto simulacro in contrasto anche con i principi della l. n. 19/1990 la quale, in linea generale, afferma all’art. 9, comma 1, che il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale,dovendosi ritenere abrogata ogni contraria disposizione di legge8.
La prima delle ipotesi contemplate dal quinto comma è stata oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 197 del 2018, che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale allora sollevate dalla Sezione disciplinare in riferimento all’art. 3 Cost.9
Sulla terza ipotesi si sono appuntati i dubbi di legittimità costituzionale delle Sezioni unite della Corte di cassazione che hanno condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale con la sentenza in commento.

4. Il giudizio a quo e l’ordinanza di rimessione.
Le Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 26693 del 18 settembre 2023, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, D.lgs. n. 109/2006, in riferimento agli artt. 3, 97, 105 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «nella parte in cui dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso codice, senza prevedere che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria».
Le Sezioni unite sono state adite da un magistrato nei cui confronti la Sezione disciplinare aveva applicato la sanzione della rimozione, in conseguenza di una sua precedente condanna, in sede penale, a due anni e quattro mesi di reclusione: condanna non suscettibile di sospensione condizionale, in quanto superiore al limite massimo previsto dall’art. 163 cod. pen. In particolare, il procedimento disciplinare era stato avviato, ai sensi dell’art. 4, lett. d) D.Lgs. n. 109/2006, in relazione alla pendenza nei confronti del magistrato di un procedimento penale per concorso in abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio e falso in atto pubblico aggravato10.
All’esito del giudizio abbreviato il magistrato era stato assolto per i primi due reati (per insussistenza del fatto) e condannato alla pena non sospesa di anni due e mesi quattro di reclusione per il terzo reato, oltre al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite.
La Sezione disciplinare, con sentenza n. 186 del 2022, facendo applicazione dell’art. 12, comma 5, gli aveva inflitto la sanzione della rimozione, escludendo che i fatti oggetto della condanna penale, seppur ridimensionati rispetto all’originaria contestazione, potessero dar luogo ad un’ipotesi di scarsa rilevanza ai sensi dell’art. 3-bis del decreto legislativo, in ragione anche della particolarelesione esterna dell’immagine della funzione giudiziaria che era conseguita alla commissione dell’illecito. Aveva poi ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, sollevata dalla difesa per violazione dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità, assumendo che, rispetto ad alcune peculiari funzioni pubbliche, non appaiono irragionevoli le disposizioni legislative che, mediante automatismi sanzionatori in sede disciplinare, attribuiscono preminenza all’interesse della collettività a poter riporre la propria fiducia in chi riveste le funzioni giudiziarie rispetto all’interesse del magistrato alla graduazione della propria sanzione disciplinare. Inoltre, aveva escluso qualsiasi violazione del principio di proporzionalità, ritenendo la sanzione della rimozione assolutamente ragionevole a fronte di un fatto di consistente offensività penale e accertato nella sede competente, senza che sia possibile prospettare l’assenza di quel grado minimo di protezione (del magistrato) contro l’arbitrarietà della decisione disciplinare che fonda gli orientamenti della giurisprudenza della Corte EDU.
Di contrario avviso, invece, le Sezioni unite, le quali hanno ritenuto non manifestamente infondata, in relazione pressoché a tutti i parametri indicati, l’eccezione di costituzionalità reiterata dalla difesa dell’incolpato col ricorso per cassazione.
Venendo alle ragioni poste a fondamento del dubbio di costituzionalità, quanto alla rilevanza della questione, le Sezioni unite osservano come questa possa affermarsi in re ipsa, considerato che la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione censurata rispanderebbe il potere della Sezione disciplinare di valutare, nello specifico, la congruità della sanzione “estrema” in rapporto al caso concreto, avendo la possibilità di graduare la sanzione secondo i tradizionali criteri di proporzionalità e di adeguatezza.
Del resto, nessun utile rilievo, ai fini dell’esclusione dell’automaticità della sanzione, potrebbe assumere la previsione di cui all’art. 3-bis D.lgs. n. 109/2006 che consente di escludere la punibilità laddove il fatto disciplinare sia di scarsa rilevanza, in quanto si tratta di aspetto che attiene alla valutazione, di carattere antecedente, sulla punibilità del fatto e che, dunque, esula dall’aspetto – che qui viene in gioco e di carattere susseguente – dell’entità della sanzione da infliggere.
Riguardo ai parametri invocati a sostegno della non manifesta infondatezza della questione, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, escluso il rilievo dell’art. 7 CEDU (Nessuna pena senza legge), pur indicato dalla difesa dell’incolpato, poiché la sanzione disciplinare non può essere assimilata alla “materia penale”. Al riguardo, viene richiamata la giurisprudenza di legittimità secondo cui «la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione»11.

Anche la Corte costituzionale – hanno precisato le Sezioni Unite – ha affermato che «benché le sanzioni disciplinari attengano in senso lato al diritto sanzionatorio-punitivo, e proprio per tale ragione attraggano su di sé alcune delle garanzie che la Costituzione e le carte internazionali dei diritti riservano alla pena, esse conservano tuttavia una propria specificità, anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale».
In secondo luogo, le Sezioni Unite hanno individuato il primo parametro di riferimento nell’art. 117 Cost. e nell’art. 8 Convenzione EDU che tutela la vita privata e che può ricomprendere, a certe condizioni, anche le cause di lavoro dal momento che si tratta di un concetto ampio e non suscettibile di definizione esaustiva. Secondo la Corte europea, infatti, «il licenziamento, la retrocessione, il diniego di accesso a una professione o altri analoghi provvedimenti sfavorevoli possono incidere su alcuni aspetti tipici della vita privata»12.
In questo contesto, secondo le Sezioni Unite, la rimozione inflitta al magistrato «pur prevista previo rispetto di adeguate garanzie procedurali, e pur essendo ricollegata ad una condanna penale, confligge con i principi di gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare che soli garantiscono, nell’ottica della Corte europea, una reazione adeguata al pur legittimo fine perseguito».
Infatti, «dedurre la proporzionalità (presuntivamente) dall’esistenza di una condanna penale, accertata nella sede competente e con il rispetto delle garanzie procedimentali, integra un salto logico nel senso che sovrappone i due piani: quello punitivo statuale e quello disciplinare».
Ne deriva che «il previsto automatismo, precludendo all’Organo di governo autonomo la possibilità di una graduazione della sanzione da applicare in rapporto al caso concreto, integra la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del principio di proporzionalità tra la misura e lo scopo perseguito».
Ulteriori profili di illegittimità costituzionale sono stati ravvisati con riguardo agli artt. 3 e 105 Cost., posto che la previsione della rimozione automatica del magistrato finisce per «non indicare una vera e propria species facti, ma individua in realtà una species poenae».
Secondo le Sezioni Unite, infatti, si «crea una irragionevole distonia nel sistema, di fatto devolvendo al giudice penale oltre che l’individuazione del fatto anche le conseguenze, attraverso la concreta determinazione della pena, in termini disciplinari». E tanto sulla scorta di una valutazione che, come in precedenza osservato, è resa alla stregua dei criteri che governano la sanzione penale, nell’ambito della quale assumono valenza anche profili incentrati sul bene giuridico tutelato, non affatto coincidente con quello alla salvaguardia del quale sono posti gli illeciti disciplinari.
Ciò porta a ritenere l’esistenza di un «vulnus ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza … in presenza di un sistema punitivo fondato sull’automatismo ed assolutamente disattento alla consistenza e gravità delle singole svariate condotte sanzionabili indiscriminatamente», anche perché la disposizione si riferisce «ad un ventaglio eccessivamente ampio (e non omogeneo) di presupposti ai quali è collegata la sanzione automatica, con la conseguenza che una troppo ampia generalità dei casi nei quali applicare la medesima sanzione automatica non consente di formulare un giudizio certo sulla proporzione della sanzione rispetto allo scopo perseguito, in violazione dell’art. 3 Cost.».
Del resto, le condotte per cui è intervenuta sentenza penale potrebbero essere estranee ai profili dell’imparzialità e della terzietà dell’amministrazione della giustizia: non può essere quindi automatica la rimozione dovendo essere la Sezione disciplinare a valutare «l’interesse dell’Amministrazione di privarsi di un magistrato a fronte di una condotta che, grave dal punto di vista della reazione punitiva statuale, potrebbe non esserlo se valutata in termini di offensività del fatto, con riferimento sia alla lesione dell’interesse specifico tutelato dall’illecito disciplinare, sia alla compromissione dell’immagine del magistrato e del prestigio di cui deve godere nell’esercizio dell’attività giurisdizionale».
Non privo di rilievo, infine, è stato ritenuto anche il contrasto con l’art. 97 Cost., stante l’interesse dell’Amministrazione di non privarsi di un magistrato a fronte di una condotta che, grave dal punto di vista della reazione punitiva statale, potrebbe non esserlo se valutata in termini di offensività disciplinare del fatto.
Una lettura, pertanto, costituzionalmente e convenzionalmente orientata volta ad escludere, attraverso un recupero dei profili di offensività e personalizzazione dell’illecito disciplinare conseguente a reato, il lamentato vulnus al principio di proporzionalità della sanzione che è alla base della razionalità che informa il principio di eguaglianza.

5.La sentenza di incostituzionalità.
Soffermandosi sugli aspetti salienti della sentenza in commento, la Corte costituzionale ha rammentato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale, e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete13.

L’art. 12, comma 5, D.lgs. n. 109/2006, invece, ricollega la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superi una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare la Sezione disciplinare di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, infatti, il giudice penale aveva inflitto una severa pena detentiva non sospesa in ragione della misura della reclusione, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare e nella sfera personale e lavorativa del magistrato.
Del resto, la valutazione dell’entità della sanzione deve essere condotta dal giudice penale alla stregua dei criteri al riguardo dettati dal legislatore, altrimenti attribuendosi al processo penale connotazione improprie e profili valutativi estranei alle conseguenze dirette del fatto di reato, da valutarsi in ragione anche degli obiettivi di tutela che sovraintendono alla sanzione penale.
Peraltro, l’automatismo censurato finirebbe – in ragione dell’incompatibilità che si viene a determinare col rapporto di servizio – per introdurre un’ulteriore ipotesi di cessazione dell’estinzione del rapporto di impiego rispetto a quella che nel processo penale è, invece, riservata soltanto ad alcune fattispecie di reato in ragione dell’entità della pena inflitta (art. 32-quinques c.p.)14. Con conseguente “distonia” della stessa normativa disciplinare, la quale proprio nella seconda parte del comma quinto dell’art. 12 del decreto legislativo sancisce la rimozione nei confronti del magistrato che incorre nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale.
In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”
D’altra parte, ha proseguito la Corte, “non può in assoluto escludersi che un fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena detentiva non sospesa possa essere ritenuto, sia pure in casi verosimilmente rari, meritevole di sanzioni disciplinari meno drastiche della rimozione.
E ciò (…) anche in considerazione del fatto che la mancata concessione della sospensione condizionale non deriva necessariamente da una prognosi circa la possibile commissione di nuovi reati da parte del condannato (…); ma può semplicemente discendere – come nel caso oggetto del giudizio a quo – dal superamento del limite di due anni di reclusione, entro il quale il beneficio può essere concesso. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il condannato per cui non sussista pericolo di reiterazione del reato può, in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale”, continuando così a svolgere la propria ordinaria attività lavorativa. Infine, la Corte ha precisato che – per effetto di questa sentenza – il CSM potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare al magistrato, potendo naturalmente optare ancora per la rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”.

Si tratta di una pronuncia che si pone nel solco degli orientamenti assunti dal Giudice delle Leggi in fattispecie analoghe ove si sono ritenute in contrasto, tra l’altro, con l’art. 3 Cost., disposizioni che prevedevano l’automatica destituzione di altri pubblici dipendenti, ovvero l’automatica cancellazione di professionisti dall’albo, in conseguenza della loro condanna in sede penale per determinati reati15.

Nello scrutinio condotto in relazione a tali variegate fattispecie, la Corte costituzionale ha fatto riferimento a due fondamentali principi che vanno posti in correlazione tra loro: la necessaria proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità della condotta e l’autonomia della valutazione compiuta in sede disciplinare rispetto a quella del giudice penale, fatta salva la vincolatività di quanto accertato in fatto nel giudizio penale a seguito dell’irrevocabilità della sentenza.
La proporzionalità, quale requisito che non appartiene soltanto alla sanzione penale, richiede una valutazione individualizzata della gravità dell’illecito, alla quale la risposta sanzionatoria deve essere calibrata16.

Pertanto, la previsione di sanzioni fisse risulta tendenzialmente in contrasto con questo principio, «a meno che esse risultino non manifestamente sproporzionate rispetto all’intera gamma dei comportamenti riconducibili alla fattispecie astratta dell’illecito sanzionato»17.
Con la logica conseguenza del riconoscimento in capo alla Sezione disciplinare di una valutazione discrezionale nell’irrogazione della sanzione che sia indipendente da quella del giudice penale, improntata, per come sottolineato, a criteri e parametri differenti.
Altrimenti rendendosi vacua l’affermazione del principio. E tale esigenza risulta tanto più avvertita allorché si tratti di infliggere al magistrato sanzioni disciplinari di carattere definitivo, come la destituzione.
Beninteso, ciò non significa operare un arretramento della soglia di tutela del bene giuridico, essendo i magistrati, ai quali è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto18 .
Attribuire alla Sezione disciplinare, pur a fronte di una condanna penale del magistrato, un’autonoma valutazione nell’apprezzamento del concreto disvalore del fatto, significa rifuggire da modelli di responsabilità presunta o di posizione, che confliggono con i principi di proporzionalità e personalità.
Allorché tra il catalogo delle sanzioni comminabili vi sia la rimozione, al Giudice disciplinare compete valutare non già la generica gravità dell’illecito commesso, ma – più specificamente – la significatività di tale illecito rispetto al giudizio di persistente idoneità dell’interessato a svolgere le proprie funzioni o la propria professione, in ragione degli effetti di carattere permanente derivanti dall’applicazione di tale grave sanzione19 .

Un giudizio, quindi, non improntato a logiche punitive e deterrenti comuni alle pene, bensì continente alle conseguenze di carattere afflittivo che sono propri della sanzione disciplinare, ossia, nel caso della rimozione, alla finalità di assicurare la definitiva cessazione dal servizio di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri.
Con effettiva tutela anche del diritto di difesa dell’incolpato, il quale, dinanzi ad una disciplina improntata a mero automatismo, si troverebbe dinanzi all’unica alternativa di riuscire a dimostrare come la sua condotta risulti di scarsa rilevanza (al fine di ottenere una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 3-bis del decreto legislativo), senza poter interloquire, una volta che si è esclusa l’esimente, sul tipo di sanzione da applicare al caso concreto.
Infatti, per quanto la giurisprudenza di legittimità non ritenga in assoluto incompatibile tale esimente con le ipotesi in cui il magistrato sia stato condannato per avere commesso un reato, è evidente che ben difficilmente potrà ritenersi «di scarsa rilevanza», pur nella peculiare prospettiva del giudizio disciplinare, un fatto per il quale il giudice penale abbia ritenuto congrua l’applicazione di una pena non sospesa, o comunque superiore al limite massimo entro il quale il beneficio della sospensione condizionale può essere concesso20 .

Del resto, per come sottolineato dalla Corte costituzionale, la mancata concessione della sospensione condizionale può anche non derivare da una prognosi circa la possibile commissione di nuovi reati da parte del magistrato condannato (come invece sempre accade nel caso di applicazione di una misura di sicurezza); ma può anche discendere – come nel caso oggetto del giudizio a quo – dal superamento del limite di due anni di reclusione, entro il quale il beneficio può essere concesso.
Ipotesi, quest’ultima, nella quale, osserva la Corte costituzionale, «il condannato per il quale non sussista pericolo di reiterazione del reato può, in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale, tale regime essendo di solito associato alla prescrizione di proseguire l’attività lavorativa».
In conclusione, nessun automatismo, ma neppure nessuna decisione a rime obbligate in conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, restando inalterata la facoltà della Sezione disciplinare di infliggere, a seguito di una valutazione operata alla stregua dei criteri che governano le sanzioni disciplinari, anche la sanzione più grave della rimozione, in vece delle altre previste dall’art. 5 del catalogo, allorché la condanna penale sia rivelatrice dell’irrimediabile compromissione dell’immagine del magistrato e del prestigio di cui deve godere nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.

6. Gli effetti della decisione sui giudizi pendenti e su quelli definiti.
Quanto agli effetti della sentenza della Corte costituzionale, problemi particolari non si pongono riguardo ai giudizi disciplinari pendenti: l’ablazione dell’art. 12, comma 5, nel segmento indicato dalla pronuncia di illegittimità costituzionale, comporta la riespansione del potere sanzionatorio in capo alla Sezione disciplinare che potrà applicare, secondo il proprio discrezionale apprezzamento, una tra tutte le sanzioni previste dall’art. 5 del decreto legislativo, financo quella più lieve dell’ammonimento.
Laddove il procedimento disciplinare penda in sede di legittimità (unica fase di impugnazione prevista dal decreto legislativo), ove sono precluse valutazioni sulla scelta della sanzione di esclusiva competenza del giudice del merito, la sentenza disciplinare di condanna dovrà essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio alla Sezione disciplinare affinché rivaluti se la rimozione, inflitta quale sanzione fissa, risulti la più adeguata al caso concreto ovvero risulti proporzionata altra e meno grave sanzione21 .

L’annullamento potrà essere disposto anche dalla Corte di cassazione ex officio e in presenza di ricorso inammissibile (salva l’ipotesi di tardività), in quanto l’illegittimità sopravvenuta della sanzione che ha applicato la rimozione configura un’ipotesi di “pena” illegale a cui è chiamato a porre rimedio lo stesso giudice dell’impugnazione 22.

Andrà, però, al contempo dichiarata irrevocabile l’affermazione di responsabilità allorché risultino infondati e/o manifestamente infondati i motivi dedotti sul punto dalla difesa dell’incolpato23 .
In sede di rinvio, poi, andrà escluso qualunque rinnovo del giudizio non solo ai fini della sussistenza dell’illecito disciplinare conseguente a reato, ma anche dell’eventuale applicazione dell’esimente di cui all’art. 3-bis del decreto legislativo, in quanto si tratta di aspetto che, per come in precedenza sottolineato, ha già necessariamente formato oggetto della cognizione della Sezione disciplinare, in quanto l’applicazione della rimozione presuppone che si sia superato il profilo, di carattere preliminare e antecedete, relativo all’esclusione dell’illecito in ragione della sua scarsa rilevanza24.
Problematico, invece, trovandosi al cospetto di un’ipotesi di illegalità della sanzione dovuta alla sua misura fissa, è se possa richiamarsi quell’orientamento – formatosi nella giurisprudenza penale in tema di recidiva obbligatoria – che esclude debba farsi luogo all’annullamento con rinvio qualora il giudice del merito abbia comunque dato conto in sentenza delle ragioni sottese all’aumento, riferendole alla gravità della condotta, nonché alla personalità e alla particolare pericolosità dell’imputato25 .

Si tratta di un profilo delicato, in quanto l’esclusione dell’illegalità della sanzione richiede che sia stata formulato uno specifico giudizio di fatto in forza del quale la compromissione della credibilità e del prestigio della funzione giudiziaria siano stati compromessi in modo irreversibile, di talché l’unica misura idonea a salvaguardare il bene giuridico tutelato risulti la cessazione del rapporto di impiego col magistrato.
Nel caso della rimozione, peraltro, a differenza della recidiva obbligatoria, la valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere a seguito della pronuncia di incostituzionalità non riguarda la misura dell’aumento della pena base, ma investe la scelta della sanzione, alla stregua di un rinnovato e più ampio catalogo. È, dunque, necessario, al fine di rispettare il principio di proporzionalità e personalizzazione della sanzione, che il giudice disciplinare non dia conto soltanto della gravità del fatto, ma anche delle ragioni che conducono ad escludere l’adeguatezza delle sanzioni meno gravi, in ipotesi, applicabili all’incolpato.
Né a detti fini può assumere rilievo il giudizio comunque svolto dal Giudice disciplinare al fine di escludere la (preventiva) applicazione della causa di non punibilità della scarsa rilevanza del fatto, istituto che, per come accennato, opera su un piano differente attinente alla punibilità dell’illecito disciplinare e non alla scelta della sanzione.
Più complesso è, invece, l’ulteriore profilo che riguarda la possibilità di incidere sul giudicato conseguente alla sentenza disciplinare di condanna che abbia inflitto la rimozione quale sanzione fissa in applicazione della disposizione dichiarata incostituzionale.
Nel settore penale, l’accresciuta sensibilità nei confronti della tutela dei diritti fondamentali della persona ha condotto le Sezioni Unite ad affermare che anche l’illegittimità costituzionale limitata alla sola sanzione è destinata ad incidere sul giudicato sostanziale: si tratta pur sempre di una pena la cui esistenza è stata eliminata dall’ordinamento in maniera irreversibile e definitiva, peraltro con effetti ex tunc, come se non fosse mai esistita. Sicché l’onere di conformare il giudizio ai parametri costituzionali incombe non solo sul giudice della cognizione, ma anche su quello della esecuzione, che nel caso in cui sopravvenga l’illegittimità costituzionale di norme che regolano il trattamento sanzionatorio è tenuto al “riallineamento” della pena ai nuovi parametri26.
L’interesse collettivo alla certezza dei rapporti giuridici cede di fronte alla necessità di tutelare il diritto individuale alla pena costituzionale anche in fase esecutiva. Se la “legge del caso concreto”, il giudicato, risulta viziata, anch’essa deve essere ricondotta nell’alveo della legalità attraverso un intervento di rimodulazione in fase esecutiva.
Nel decreto legislativo n. 109 del 2006 non si rinviene, però, una fase esecutiva nell’ambito della quale l’incolpato possa far valere la sopravvenuta illegalità della sanzione inflitta.
Si tratta, però, di una lacuna che non esclude affatto che alla Sezione disciplinare vada riconosciuto, quale giudice dell’esecuzione delle pronunce disciplinari, anche il ruolo di garante della legalità della misura, mediante l’estensione dello statuto costituzionale riservato alle sanzioni penali o sostanzialmente tali.
La possibilità del giudice dell’esecuzione di incidere anche sull’intangibilità del giudicato si giustifica, infatti, nella prospettiva di pervenire, quanto più possibile, a pronunce caratterizzate da profondo senso di giustizia, in ogni caso da ritenere il fine vero della funzione giurisdizionale.
Tale finalità non pare estranea al procedimento disciplinare dei magistrati, volto ad assicurare il regolare ed imparziale svolgimento della funzione giudiziaria, che è uno degli aspetti fondamentali della vita democratica del Paese e della realizzazione dello Stato di diritto27.

Inoltre, al pari del procedimento penale, anche in quello disciplinare dei magistrati debbono trovare adeguata salvaguardia le esigenze di tutela dell’incolpato e dei suoi diritti fondamentali.
Si pensi al caso dell’abolitio criminis del reato o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice che fungeva da presupposto dell’illecito disciplinare conseguente a reato. In tal caso, irragionevole sarebbe precludere alla Sezione disciplinare di applicare l’art. 673 c.p.p. che consente di revocare la sentenza (o il decreto penale) di condanna, a meno che il fatto, ancorché non punibile penalmente, non possa e debba essere sussunto nello schema di altre fattispecie di illecito disciplinare.
Del resto, il rinvio operato dal decreto legislativo alle norme del codice di procedura penale “in quanto compatibili” deve intendersi mobile, in quanto espressione di una regola generale – ricavabile anche dalla natura giurisdizionale del procedimento che caratterizza gli illeciti dei magistrati ordinari – volta a colmare le lacune di disciplina nella parte in cui il decreto stesso non detta specifiche disposizioni28.

Depongono per l’applicabilità le recenti norme in tema di riabilitazione disciplinare, ove troveranno applicazione anche le norme del codice di rito dettate in materia nell’ambito del Libro X, dedicato all’Esecuzione29 .

Certo, nel caso in esame, si è al cospetto di un’ipotesi differente da quella in cui il reato posto a fondamento dell’illecito disciplinare sia venuto meno per abrogazione o dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice che ne costituisce il presupposto.
Si tratta, infatti, di stabilire se alla Sezione disciplinare sia financo consentito di rinnovare in executivis il giudizio sulla gravità dell’illecito a fini sanzionatori, al fine di ristabilire la legalità della sanzione.
La questione assume profili problematici perché investe il potere del Giudice disciplinare di incidere sul principio di intangibilità del giudicato al fine di far valere anche gli effetti delle pronunce di incostituzionalità incidenti sulla legalità del trattamento sanzionatorio stabilito a corredo di un illecito amministrativo.
Se, infatti, per come evidenziato, tale prerogativa è riconosciuta al giudice dell’esecuzione penale, il quale, a certe condizioni, può rideterminare la pena in favore del condannato (potestà ammessa in ragione della natura delle relative sanzioni e del carattere afflittivo che le contraddistingue), controverso è, invece, se il giudicato possa “cedere” dinanzi a sanzioni amministrative dichiarate costituzionalmente illegittime30.
Se è vero che la sanzione penale può incidere su diritti fondamentali, quale, in primis, la libertà personale, è altrettanto vero che anche sanzioni formalmente qualificate come amministrative possono comprimere diritti di rango costituzionale, quali la libertà di impresa (art. 41 Cost.) o il diritto al lavoro (art. 35 Cost.). Le sanzioni penali, d’altra parte, possono incidere sulla libertà personale «solo virtualmente» (perché, di fatto, eseguite in forma alternativa alla detenzione), ovvero coinvolgere interessi di rango inferiore (quale, ad esempio, il patrimonio) rispetto a quelli colpiti da talune delle sanzioni amministrative.
Di qui, dunque, anche la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), giacché, mentre per la sanzione penale l’art. 30, comma 4, della legge n. 87 del 1953 consente di rimuovere, per quanto possibile, qualsiasi discriminazione tra i soggetti condannati prima della sentenza della Corte costituzionale e quelli «il cui comportamento sia ancora sub judice», altrettanto non avviene per la
sanzione amministrativa: con la conseguenza che il soggetto condannato in via definitiva a quest’ultima dovrà sottostare – eventualmente, anche in modo permanente, ove si tratti di una sanzione sine die – alla restrizione della propria libertà, benché fondata su una legge dichiarata incostituzionale, diversamente dal soggetto non ancora condannato in via definitiva, per il quale il giudice della cognizione sarà chiamato a rimodulare la sanzione alla luce della decisione della Corte.
Né, d’altra parte, il passaggio in giudicato della condanna potrebbe rappresentare un discrimen accettabile sul piano costituzionale. La progressiva erosione dell’intangibilità del giudicato in ambito penale è stata, infatti, determinata dalla rilevazione che l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici – cui tale principio è servente – non può prevalere sui diritti costituzionali della persona, imponendo il loro sacrificio anche dopo l’accertamento dell’illegittimità costituzionale della loro compressione.
Sebbene vi siano state, al riguardo, indubbie aperture nella stessa giurisprudenza costituzionale, ciò presuppone che alla sanzione, formalmente amministrativa, venga riconosciuta natura sostanzialmente penale.
Si tratta di un tema che si rinviene nella stessa ordinanza di rimessione, la quale esclude, quanto ai parametri invocati a sostegno della non manifesta infondatezza della questione, la violazione dell’art. 7 CEDU sul rilievo che la sanzione disciplinare non può essere assimilata alla “materia penale”31.

Ma nel caso in esame va sottolineato – e si tratta di un profilo del tutto singolare – che si è al cospetto di una sanzione disciplinare non solo illegale, ma che dipende dalla sussunzione del fatto nell’alveo dell’illecito penale ed è diretta conseguenza della condanna inflitta dal giudice penale.
Inoltre, anche alla rimozione conseguente alla condanna penale può riconoscersi quel connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, in quanto la sanzione disciplinare assume – nella considerazione della collettività – un chiaro significato sanzionatorio discendente direttamente dalla commissione del reato che ne è il presupposto, quasi atteggiandosi “a pena accessoria”.
Quanto, poi, al carattere afflittivo della sanzione, alla luce dell’estensione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative punitive alla luce degli Engel criteria elaborati dalla Corte EDU, potrebbe mettersi in rilievo come la rimozione derivante da condanna penale non abbia contenuti meno afflittivi di altre pene accessorie o sanzioni amministrative dipendenti da reato pure oggetto degli interventi della Corte costituzionale, in quanto ritenute, agli effetti della Convenzione, aventi natura sostanzialmente penale32. Si pensi alla revoca della patente di guida che, seppur destinata ad incidere sulla libertà di circolazione e sull’esercizio delle prerogative lavorative dell’individuo, non ne preclude in modo immanente l’esercizio per come, invece, accade con la rimozione dall’impiego derivante da condanna penale.
Altro e non secondario problema è poi rappresentato dall’avvenuta esecuzione della sanzione disciplinare nei confronti di magistrato che abbia, nelle more, maturato l’età pensionabile, stante l’assenza di una norma ad hoc che ne preveda il reimpiego oltre i limiti di età.
L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende, infatti, ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale33.

Pertanto, mentre nei confronti del magistrato che non abbia ancora raggiunto l’età per il collocamento a riposo potrebbe ritenersi che il rapporto esecutivo non sia ancora esaurito, in quanto gli sarebbe consentito riprendere il servizio allorché la Sezione disciplinare ritenga di applicare una sanzione meno grave, nei confronti di chi abbia raggiunto l’età pensionabile, invece, l’interesse a coltivare in executivis l’istanza di revoca della sentenza disciplinare di condanna dovrebbe, semmai, essere ravvisato nella restitutio in integrum, finalizzata alla ricostruzione della carriera economica, al pari di quanto avviene nel caso di accoglimento dell’istanza di revisione.
Inoltre, non altrettanto sfornito di rilievo è il tema relativo all’individuazione di un termine perentorio entro cui il magistrato rimosso possa avanzare l’istanza di rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
L’interesse del magistrato ad una rivalutazione legale della sanzione deve necessariamente essere contemperato con l’interesse dell’Amministrazione alla certezza dei rapporti giuridici, anche con riguardo alle ricadute sul piano economico che conseguirebbero a provvedimenti di rideterminazione di sanzioni inflitte con sentenze disciplinari ormai “datate”, in cui l’applicazione di una sanzione meno grave, comportando l’intera ricostruzione in attualità della carriera economica del magistrato, porrebbe, a fronte di istanze tardive, rilevanti esborsi a carico dell’Erario.
Al riguardo, sebbene si tratti di norma dettata per il pubblico impiego contrattualizzato, potrebbe farsi riferimento al termine decadenziale di sei mesi stabilito dall’art. 55-ter D.Lgs. n. 165/2001, introdotto dal d.lgs. n. 150/2009, che onera il dipendente sanzionato nel procedimento disciplinare non sospeso che sia stato poi assolto nel processo penale con sentenza irrevocabile (che riconosce che il fatto addebitato non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso), a inoltrare apposita istanza di riapertura da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale.
Il termine pertanto dovrebbe farsi decorrere, a norma dell’art. 136 Cost., dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Corte costituzionale sulla G.U. (ossia dal 4 aprile 2024, essendo la pubblicazione della sentenza avvenuta il 3 aprile 2024).
Altrimenti dovrebbe demandarsi ad una circolare del Consiglio superiore della magistratura l’individuazione di modalità e termini per la presentazione della richiesta alla Sezione disciplinare, dettandosi anche la relativa disciplina ordinamentale conseguente alla riammissione in servizio.

7. Conclusioni
Al di là delle problematiche legate agli effetti che, medio tempore, conseguiranno alla sentenza in commento, la declaratoria di incostituzionalità costituisce certamente un ulteriore passo per un ripensamento dello statuto disciplinare dei magistrati che – intersecandosi con le garanzie riconosciute dalla Costituzione e dalla Corte EDU – è contrassegnato «da rimarchevoli note di afflittività, tanto sul piano della reputazione, quanto sul piano delle ricadute professionali», in ragione del naturale piano di tensione che le sanzioni comminate manifestano al cospetto dei diritti fondamentali34.
Se il procedimento disciplinare dei magistrati – per come sottolineato – è volto a tutelare l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura, nonché il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, il regime delle responsabilità incide, di fatto, sui diritti e sulle libertà del singolo incolpato, «implicando una analoga, sorvegliata attenzione sulle relative garanzie»35 .
Un tema, questo, che non si arresta soltanto alla rigidità del trattamento sanzionatorio, ma si estende anche al modello procedimentale seguito ove il richiamo, “in quanto compatibile”, alle norme del codice di procedura penale lascia ancora il passo ad una disciplina improntata a modelli propri del vecchio rito penale (basti pensare che l’esercizio dell’azione avviene con l’inizio del procedimento).
Un ripensamento, dunque, che abbandonata la logica degli interventi sui singoli istituti, si faccia carico di ridisegnare complessivamente il procedimento disciplinare dei magistrati, valorizzandone maggiormente gli aspetti di garanzia, al fine di superare quegli orientamenti che tendono a sottrarre al Consiglio superiore della magistratura la potestà disciplinare per come disegnata dalla Costituzione.

1 Il presente lavoro si inserisce nell’ambito degli approfondimenti che il Centro Studi Nino Abbate sta dedicando, mediante contributi pubblicati sulla Rivista Diritto, Giustizia e Costituzione, al tema del procedimento disciplinare dei magistrati. In materia, vedi tra quelli più recenti, anche con riguardo ai riferimenti bibliografici, ARIOLLI, Note sul procedimento disciplinare dei magistrati, in Diritto, Giustizia e Costituzione, 9/2023, p. 1-91; ID., Riflessioni in tema di riabilitazione disciplinare dei magistrati, in Diritto, Giustizia e Costituzione, 5/2024, p. 1-31. Pur rimandandosi ai riferimenti bibliografici contenuti nei contributi indicati, tra le monografie, v. DI AMATO, La responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 2013; FANTACCHIOTTI-FRESA-TENORE-VITELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010; D’OVIDIO-FRESA-TENORE-TORNESI, Il magistrato e le sue quattro responsabilità, Milano, 2016; TOSCANO, Il controllo sui magistrati, Napoli, 2020. Tra le opere recenti v. AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, GIGLIOTTI (a cura di), Milano, 2024. Sulla rimozione, v. MAZZEO, Rimozione, in AA.VV. Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, 1069-1085.
2 Alla stregua dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. – introdotto dall’art. 25, comma 1, lett. b) D.Lgs. n. 150/2022 la sentenza di patteggiamento anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento non è efficace e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate per accessorie non producono effetti le disposizioni di legge diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Si è voluta, quindi, sancire l’irrilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in ogni procedimento giurisdizionale diverso da quello penale quando il fatto storico oggetto della sentenza di applicazione pena possa avere una qualche rilevanza in quelle sedi, con la conseguenza che «in caso di sentenza di applicazione della pena successiva all’entrata in vigore della modifica legislativa (il 30.12.2022), l’azione disciplinare esercitata in base alle lettere a), b) e c) non potrà avvalersi, a fini di prova, della sentenza di patteggiamento, dovendosi procedere in sede disciplinare ad autonomo accertamento dei fatti contestati» e, dunque, nell’ambito del diverso procedimento riconducibile all’ipotesi di cui alla lett. d). Sul tema, SANLORENZO, Illeciti disciplinari conseguenti a reato, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 986-987. Nel senso che, in caso di sentenza penale di condanna pronunciata in seguito a patteggiamento, i fatti devono comunque formare oggetto di autonoma valutazione in sede disciplinare, non potendo la sentenza essere l’unico presupposto per l’applicazione del provvedimento sanzionatorio, v. Cons. Stato, sez. IV, sent. 23 maggio 2001, n. 2853.
3 Cass., s.u., 31 luglio 2017, n. 18987, Rv. 645132 – 01; Sez. disc., sent. n. 186 del 2022 («la condanna penale del magistrato, per delitto non colposo, a pena (non sospesa) superiore ad un anno non impedisce al giudice disciplinare di valutare la sussistenza della scarsa rilevanza del fatto laddove le circostanze del caso concreto consentano di affermare che la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria, nonostante la condanna, non siano state sostanzialmente compromesse»); Sez. disc., ord. n. 87 del 2019.
4 Sebbene non possa escludersi la possibilità del Procuratore generale di procedere, ai sensi dell’art. 15,
comma 5-bis, D.Lgs. n. 109/2006 all’archiviazione allorché ricorra l’ipotesi della scarsa rilevanza di cui all’art. 3- bis del decreto legislativo, allorché ci si trovi dinanzi ad illeciti disciplinari conseguenti a reati dolosi ovvero in relazione ai quali sono state inflitte pene non lievi, è verosimile che si procederà all’apertura del procedimento disciplinare, anche in ragione dell’esigenza di consentire all’incolpato di poter esercitare le prerogative difensive sancite dal codice di rito.
5 Sul tema, v. PATRONO, Illeciti disciplinari conseguenti a reato, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 989-996.
6 Si è, infatti, affermato che, nel caso in cui per un fatto reato contestato con riferimento all’art. 4, lett. d), il procedimento disciplinare sia sospeso per la pregiudizialità penale ed intervenga condanna in sede penale, il passaggio dalla fattispecie di cui alla lett. d) ad altra prevista dalle prime tre lettere, impone una nuova espressa contestazione, ai sensi dell’art. 518 c.p.p., sia per il fatto diverso rappresentato dalla condanna o dall’applicazione della pena, sia per la diversità dei concorrenti requisiti, sia infine per la possibile diversità della sanzione minima: DI AMATO, La responsabilità disciplinare dei magistrati, Giuffré, 2013, p. 376. Sulle interrelazioni tra i diversi illeciti disciplinari conseguenti a reato e sui problemi procedurali conseguenti, v. PATRONO, cit., p. 990-994.
7 Vedi al riguardo – anche per i riferimenti di dottrina e giurisprudenza – GIGLIOTTI, Delle sanzioni disciplinari, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 1008 e ss.

8 Così, DI AMATO, cit., p. 390.
9 La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di illegittimità costituzionale, sollevate dalla Sez. disciplinare in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 109 del 2006, che prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lett. e), del medesimo decreto. In particolare, quanto ai denunciati profili di disparità di trattamento in ragione della natura variegata tra le diverse ipotesi contemplate dalla disposizione censurata, si è esclusa una violazione dell’art. 3 Cost. «perché ogniqualvolta la legge preveda la sanzione massima applicabile in un dato settore di disciplina per una pluralità di fattispecie astratte, essenziale e sufficiente a garantire il rispetto del principio di eguaglianza è che anche la fattispecie di illecito meno grave sia pur sempre connotata da un grado di disvalore tale da rendere non manifestamente sproporzionata la comminatoria della sanzione massima; né sussiste una manifesta irragionevolezza sotto il profilo “intrinseco”, perché l’automatismo della norma censurata non è legato al sopravvenire di una condanna penale – dovendosi in tal caso conservarsi presso l’organo disciplinare una valutazione discrezionale sulla proporzionale graduazione della sanzione -, bensì costituisce un’unica sanzione fissa per chi sia ritenuto responsabile di un preciso illecito, di natura meramente disciplinare. Infine, la scelta del legislatore non appare censurabile neppure sotto l’ulteriore profilo della proporzionalità in senso stretto della sanzione: sebbene quest’ultima interferisce in maniera assai gravosa con i diritti fondamentali del soggetto che ne è colpito, gli lascia altresì la possibilità di intraprendere altra professione». La decisione, seppur relativa ad altro segmento normativo della fattispecie, esclude il paventato vizio di costituzionalità facendo leva soprattutto sulla rilevanza del bene giuridico compromesso dalle condotte sanzionate, «essendo ai magistrati affidata la tutela dei diritti di ogni consociato, e per tale ragione sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto». Quanto, però, all’esclusione della violazione del principio di proporzionalità in senso stretto, va evidenziato che la possibilità per l’incolpato di intraprendere altra professione non consegue ad una libera scelta del magistrato, bensì è conseguenza della sanzione disciplinare inflitta.
10 L’art. 4, lett. d) del decreto legislativo prevede, infatti, tra gli illeciti disciplinari conseguenti a reato, “qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, anche se il reato è estinto perqualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita”.
11 Cass., s.u., sent. 6 novembre 2020, n. 24896; Cass., s.u., sent. 12 marzo 2015, n. 4953.
12 Al riguardo, sono citate, tra le altre, Corte EDU, grande camera, sentenza 25 settembre 2018, Denisov c. Ucraina e 17 dicembre 2020, Mile Novakovic c. Croazia.
13 A commento della decisione, v. CASCINI, Art. 12, comma 5. Le sanzioni applicabili, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 1147-1170. Sulla giurisprudenza costituzionale in materia, v. SANGIORGIO, La giurisprudenza costituzionale in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 101 ss. Sulla giurisprudenza della Corte EDU, v. SABATO, La giurisprudenza di Strasburgo in tema di procedimento disciplinare “destitutivo” di funzioni a carico dei giudici, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 107 ss.
14 La cessazione del rapporto di lavoro in ragione dell’interdizione dai pubblici uffici in cui incorre il magistrato a seguito di condanna penale (sia essa perpetua che temporanea in ragione dell’entità della pena inflitta), ai sensi dell’art. 29 c.p., rientra già tra le ipotesi di rimozione contemplate dalla seconda parte dell’art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 109/2006. Sui rapporti tra rimozione e pena accessoria di cui all’art. 32-quinques, c.p., v. CASCINI, cit., p. 1169-1170.
15 Il riferimento è alle sentenze Corte cost.: n. 971 del 1988 che ha colpito la previsione della destituzione di diritto degli impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti; n. 40 del 1990, in relazione ai notai, che ha affermato essere «indispensabile che il “principio di proporzione” che è alla base della razionalità che domina il “principio di eguaglianza”, regoli sempre l’adeguatezza della sanzione al caso concreto», con conseguente illegittimità dell’«automatismo di un’unica massima sanzione [la destituzione], prevista indifferentemente per l’infinita serie di situazioni che stanno nell’area della commissione di uno stesso pur grave reato»; n. 158 del 1990, relativa alla radiazione automatica dei dottori commercialisti; n. 16 del 1991, concernente la destituzione di diritto del dipendente regionale; n. 197 del 1993, sulla destituzione di diritto del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluni reati, ovvero della definitività del provvedimento applicativo di una misura di prevenzione per appartenenza ad associazione di tipo mafioso; n. 2 del 1999, in materia di radiazione automatica dall’albo dei ragionieri e periti commerciali; n. 268 del 2016, rispetto al personale militare, che ha dichiarato incostituzionale una disciplina che non prevedeva l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici inflitta dal giudice penale.
16 Sul tema, vedi Corte cost., sent. n. 112 del 2019, nonché, in materia penale, Corte cost., sent. n. 197 del 2023.
17 Al riguardo, depone l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale con cui è stata affermata la tendenziale illegittimità costituzionale di ogni automatismo sanzionatorio, rispetto alla quale la sentenza n. 222 del 2018 rappresenta solamente uno dei più recenti approdi di un percorso intrapreso dalla Corte fin dall’inizio degli anni ’60, attraverso l’affermazione di una necessaria «mobilità» (sent. n. 67 del 1963) o
«individualizzazione» (sent. n. 104 del 1968) della pena – e che ha uno dei suoi precedenti nella sentenza n. 50 del 1980, secondo cui «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono […] in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». Nello stesso senso assume rilievo anche la produzione normativa post codicistica, giacché, ad esempio, è stato modificato l’art. 166 c.p., così da consentire l’estensione della sospensione condizionale anche alle pene accessorie ed impedire l’attuazione provvisoria in dipendenza della pronuncia di condanna non irrevocabile; o ancora la legge 9 gennaio 2019, n. 3 che, nel rafforzare gli strumenti repressivi e preventivi dei reati contro la P.A., ha operato una rafforzata considerazione autonoma delle pene accessorie, ampliandone l’area applicativa. Sui limiti delle sanzioni fisse, vedi, in materia penale, Corte cost., n. 197 del 2018 e n. 222 del 2018; n. 195 del 2023, n. 94 del 2023, n. 222 del 2018; nonché, in materia di sanzioni amministrative, Corte cost., n. 40 del 2023, n. 266 del 2022 e n. 185 del 2021.
19 Sull’irragionevolezza di previsioni caratterizzate da automatismo sanzionatorio va richiamata la sentenza Corte cost. n. 170 del 2015 che, in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, ha dichiarato, in riferimento all’art. 3 Cost., costituzionalmente illegittimo l’art. 13, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo, laddove dispone l’obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una delle violazioni stabilite dall’art. 2, comma 1, lett. a ) (vale a dire l’aver tenuto un comportamento che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrechi ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti). La Corte ha osservato come la disposizione censurata determina, da un lato, un vulnus al principio di uguaglianza, derivante dal diverso – e più grave – trattamento sanzionatorio riservato – senza alcun riferimento alla gravità dell’elemento materiale o psicologico – al solo illecito de quo; dall’altro lato, l’irragionevolezza dell’automatismo sanzionatorio, la cui ratio non può rinvenirsi neppure in una particolare gravità dell’illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal
rango dell’interesse protetto. Infine, la misura obbligatoria del trasferimento, non giustificata da valide ragioni, produce un effetto molto gravoso per il magistrato, giacché incide direttamente sul prestigio e sulla credibilità dello stesso, profilando così dubbi di compatibilità anche con il principio di inamovibilità dei giudici sancito dall’art. 107 Cost.
20 Cass. s.u., 7 agosto 2023, n. 24048, Rv. 668736 – 03; Cass., s.u., 21 marzo 2023, n. 8034, Rv. 667324 -02.
21 Sull’impugnazione delle sentenze disciplinari, v. CASSANO-CURZIO, L’impugnazione delle sentenze
disciplinari
, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 71 ss.; Di Amato, Impugnazioni delle decisioni della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 1680 e ss.
22 In materia di rilevabilità d’ufficio del vizio di costituzionalità sopravvenuto si sono espresse le Sezioni unite che hanno stabilito che, nel giudizio di legittimità, l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di
inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo (Cass. s.u. 26 febbraio 2015, n. 33040, Rv.
264207). L’accresciuta sensibilità nei confronti della tutela dei diritti fondamentali della persona ha condotto la Corte di cassazione a ritenere necessario il controllo della legalità costituzionale anche quando i profili di illegittimità non riguardino la norma incriminatrice, ma la sola sanzione. Le S.U. hanno stabilito che «deve riconoscersi che anche l’illegittimità costituzionale limitata alla sola sanzione è destinata ad incidere sul giudicato sostanziale: si tratta pur sempre di una pena la cui esistenza è stata eliminata dall’ordinamento in maniera irreversibile e definitiva, peraltro con effetti ex tunc, come se non fosse mai esistita. Sicché la sua intrinseca illegalità impone che il giudice dell’impugnazione, ancorché inammissibile, provveda a ripristinare una sanzione legale, basata, in questo caso, sui criteri edittali ripristinati per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale. Per l’applicazione del principio, v. Cass. pen., 21 giugno 2016, n. 37385, Rv. 267912, in tema di illegittimità sopravvenuta della sanzione che ha applicato la recidiva obbligatoria di cui all’art. 99, comma 5, c.p., in epoca antecedente alla sentenza Corte cost. n. 185 del 2015 – che ha dichiarato l’incostituzionalità del carattere obbligatorio di tale aggravante.
23 Per l’affermazione del principio (in tema di sostanze stupefacenti) che, quando successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, il giudicato permane quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e alla sua qualificazione giuridica, e il giudice della esecuzione deve rideterminare la pena, attesa la sua illegalità sopravvenuta, in favore del condannato provvedendo anche autonomamente ai sensi degli artt. 132- 133 c.p., v. Cass. pen., s.u., 26 febbraio 2015, n. 37107, Rv. 264858 – 01.
24 Eventuali nuovi elementi che il magistrato dovesse, infatti, allegare a corredo di una rinnovata valutazione di scarsa rilevanza dovrebbero, semmai, essere introdotti col differente strumento della revisione di cui all’art. 25, in quanto ne sussistano i presupposti. Sul tema, v. Sez. disc., sent. n. 79 del 2017.
25 Cass. pen., 15 gennaio 2018, n. 3799, Rv. 272445 – 01; Cass. pen., 21 giugno 2016, n. 37385, Rv. 267912 – 01.
26 Cass. pen., s.u., 29 maggio 2014, n. 42858, Rv. 260696 – 01; Cass. pen., s.u., 26 febbraio 2015, n. 33040, Rv. 264207 – 01.
27 Per l’affermazione del principio, v. Corte cost., sent. n. 100 del 1981. Questa, del resto, la ragione per cui di tale procedimento si rinviene espressa menzione nella Costituzione, così attribuendosi alla responsabilità disciplinare dei magistrati anche una rilevanza esterna. Sebbene il fondamento della responsabilità disciplinare del magistrato, al pari di qualsiasi altro pubblico dipendente, risieda nel rapporto di lavoro svolto alle dipendenze dello Stato, il procedimento disciplinare e l’applicazione delle sanzioni a chi svolge attività giurisdizionale, data la natura e le caratteristiche di quest’ultima, producono evidenti ripercussioni sulla fondamentale garanzia di indipendenza del giudice: «..Pertanto risulta evidente come il problema della responsabilità disciplinare del giudici non può riduce ad un aspetto concernente l’ordinamento interno della magistratura, venendo a svolgere effetti importanti sul buon funzionamento della giustizia e quindi riguardo un interesse fondamentale dello Stato», tanto che è stato affermato che «il problema della responsabilità del giudice non è solo o, direi, quasi, non è tanto un problema di ordinamento giudiziario, quanto piuttosto un problema di ordinamento costituzionale»; ROMBOLI, La giustizia disciplinare nel sistema costituzionale, in AA.VV. Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 15-16. Sui caratteri dell’azione disciplinare, v. di recente SALVI-SALVATO, L’azione disciplinare, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 35 ss.
28 Per l’affermazione che il procedimento dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura è stato configurato dal legislatore «secondo paradigmi di carattere giurisdizionale», v. Corte cost., sent. n. 497 del 2000. Sull’esigenza sottesa al procedimento disciplinare a carico dei magistrati di tutelare gli interessi connessi allo statuto di indipendenza della magistratura, v. Corte cost., sentenze n. 87 del 2009 e n. 262 del 2003.
29 Sul tema, v. ARIOLLI, Riflessioni in tema di riabilitazione disciplinare dei magistrati, in Diritto, Giustizia e Costituzione, 4 aprile 2024, p. 1-31.
30 Sul potere del giudice dell’esecuzione penale di rideterminare la pena a seguito di pronunce di incostituzionalità di disposizioni che incidono sul trattamento sanzionatorio, v. Cass. pen., s.u., 24 ottobre 2013, n. 18821/14, Rv. 258649 – 01, in tema di sostituzione, con trenta anni di reclusione, della pena dell’ergastolo inflitta in applicazione dell’art. 7, comma 1, D.L. n. 341 del 2000 all’esito di giudizio abbreviato richiesto dall’interessato nella vigenza dell’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, di cui alla sentenza Corte cost., n. 210 del 2013; Cass. s.u. 29 maggio 2014, n. 42858, Rv. 260697 – 01 in tema di pena dichiarata incostituzionale; Cass. pen., 4 dicembre 2014, n. 53019, Rv 261581 – 01, relativa a condanna per illecita detenzione di sostanza stupefacente, in cui era affermata l’equivalenza della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 con la ritenuta recidiva reiterata in ragione del divieto di prevalenza di cui all’art. 69, comma 4, c.p. dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 251 del 2012; Cass. pen., 26 giugno 2015, n. 32205 Rv. 264620 – 01, in fattispecie concernente richiesta di rideterminazione della pena relativa a sentenza di patteggiamento per reati di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, a seguito della sentenza Corte cost. n. 32 del 2014; Cass. pen., 16 settembre 2020, n. 26601, Rv. 279579 – 01, in tema di rideterminazione della durata della sanzione accessoria dell’incapacità di esercitare uffici direttivi, prevista dall’art. 216, ult. co. legge fall., norma dichiarata parzialmente incostituzionale nella parte in cui imponeva l’interdizione in misura fissa (Corte cost., n. 222 del 2018); Cass. pen., 13 luglio 2016, n. 18546/17, Rv. 269817 – 01, in tema di recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, comma 5, c.p., ove l’aumento di pena disposto in data anteriore alla sentenza della Corte cost. n. 185 del 2015, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del carattere obbligatorio dell’aumento stesso, può essere rivalutato dal giudice dell’esecuzione che ha il compito di verificare se l’applicazione della recidiva fu sorretta, indipendentemente dalla previgente obbligatorietà, dal concorrente apprezzamento di merito della valenza dei precedenti penali.
31 Sul punto viene richiamata la giurisprudenza di legittimità secondo cui «la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione». Del resto, anche la Corte costituzionale – hanno precisato le Sezioni Unite – hanno avuto modo di affermare che «benché le sanzioni disciplinari attengano in senso lato al diritto sanzionatorio- punitivo, e proprio per tale ragione attraggano su di sé alcune delle garanzie che la Costituzione e le carte internazionali dei diritti riservano alla pena, esse conservano tuttavia una propria specificità, anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale».
32 Con riferimento al diritto amministrativo punitivo, v. sentenze Corte cost., n. 223 del 2018 sull’applicazione retroattiva della confisca per equivalente anche ai fatti di insider trading secondario commessi prima della sua entrata in vigore; n. 63 del 2019 con riferimento al principio di retroattività in mitius rispetto a quanto previsto dall’art. 187 bis TUF per abuso di informazioni privilegiate; n. 68 del 2021 in tema di applicabilità retroattiva degli effetti favorevoli derivanti dalla dichiarazione di incostituzionalità relativa all’applicazione della sanziona amministrativa accessoria della revoca della patente di guida (n. 88 del 2019); da ultimo n. 52 del 2024 sull’incostituzionalità della previsione nel c.d.s. come sanzione fissa della revoca della patente e della confisca del veicolo del custode per la violazione degli obblighi relativi al veicolo sottoposto a fermo amministrativo. Tra le altre sentenze possono richiamarsi: n. 96 del 2020, n. 134 del 2019, n. 112 del 2019, n. 88 del 2019, n. 121 del 2018, n. 68 del 2017, n. 43 del 2017, n. 57 del 2016, n. 10 del 2015, n. 1 del 2014, n. 210 del 2013, n. 136 del 2008, n. 394 del 2006, n. 3 del 1996, n. 235 del 1989, n. 139 del 1984, n. 26 del 1969 e n. 127 del 1966; ordinanze n. 117 del 2019, n. 144 del 2011, n. 135 del 2010 e n. 134 del 2000. In dottrina, CHIBELLI, L’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni “sostanzialmente penali” e la “rimozione del giudicato di condanna: la decisione della Corte costituzionale, in DPC, 3 aprile 2017; GREGORACE, La Corte costituzionale sull’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali e la revoca del giudicato di condanna, in Salvis iuribus, 19 maggio 2021.
33 In ambito penale, l’interesse concreto ed attuale del condannato alla rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile sulla base di parametri edittali più favorevoli vigenti a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale riguardante il trattamento sanzionatorio, presuppone che la pena non sia stata ancora interamente espiata, ovvero che dalla decisione lo stesso possa ottenere effetti favorevoli in executivis: Cass. pen., 10 giugno 2016, n. 27043 del 10/06/2016, Rv. 267365 – 01; Cass. pen., 3 marzo 2020, n. 13072, Rv. 278893 – 10; Cass. pen., 13 dicembre 2022, n. 12675/23, Rv. 284284 – 01.
34 MANES, L’illecito disciplinare del magistrato nel prisma della giurisprudenza di Strasburgo: problemi e prospettive, in AA.VV., Codice disciplinare dei magistrati, Milano, 2024, p. 117 e ss.
35 MANES, cit., p. 117.

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