Il titolo del nostro momento di confronto è suggestivo e, ad un tempo, bellissimo.
“Uomini d’onore e uomini d’amore” sono espressioni che richiamano due categorie concettuali nettamente distinte perché non c’è nulla di più distante dalla declinazione dell’amore rispetto all’appartenenza al sodalizio di stampo mafioso impastato di un malsano concetto di “onore”. Ed è proprio la potenza evocativa dell’antitesi fra “l’onore e l’amore” (consentitemi la semplificazione) che permette di avviare una riflessione sul ruolo del cristiano nel tempo che viviamo e che impone, al battezzato, di individuare la sua strada per essere “uomo d’amore” nel contesto in cui opera e nel suo rapporto con i doveri che gli derivano dal suo essere cittadino, in un panorama che vede gli stati occidentali, ad un tempo, laici e multiculturali. In prima battuta mi sovviene una considerazione semplice ma, mi consta, non scontata. Invero, il Cristianesimo ha segnato una sorta di sostanziale rivoluzione nei rapporti fra essere credenti e società. Nel Vangelo Gesù insegna: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma cosa significa davvero questa espressione e qual è il corretto rapporto che un cristiano, che vuole essere “uomo d’amore”, deve avere rispetto alla cosa pubblica? In prima battuta occorre evidenziare che Gesù è stato ben chiaro: la laicità dello Stato (al di là delle fuorvianti interpretazioni dei secoli bui della storia della Chiesa) si fonda, a ben vedere, proprio su questa espressione. E torniamo alla nostra domanda, che richiede una risposta ancora più complessa nel momento in cui quello stesso cristiano che la pone a sé stesso riveste un ruolo pubblico.
Ed io mi chiedo (io che questa domanda me la sono posta e continuo a pormela): se il mio essere cristiano deve plasmare nell’ essenza profonda la mia vita, come posso, rispettando i doveri e gli oneri connessi al mio lavoro, essere autenticamene “soldato di Cristo”, prestando così ossequio a quello che sono diventata nel momento in cui sono stata cresimata? Non è facile rispondere a tutti gli interrogativi sopra esposti. Ma occorre provarci perché l’unicità dell’essere umano non può scindersi con riguardo ad un aspetto così delicato. Invero, un dato costituisce la precondizione per un approccio corretto alle questioni. Un cristiano vive all’interno di un contesto sociale ove lavora e si relaziona e, se è vero che percorre un cammino personale, però, l’itinerario si costruisce in relazione con l’altro. In questo cammino nel lavoro, in famiglia, all’interno dei gruppi sociali ove opera un cristiano deve improntare il suo agire alla luce dei valori della sua religione. Questo significa essere cristiano. Ciò implica accoglienza e rispetto anche dei non cristiani e sforzo massimo per offrire un contributo etico alla società. Quindi una prima risposta può essere questa, per essere “un uomo d’amore” devo applicare il principio di uguaglianza fra tutte le fedi e fra tutte le etnie cioè devo praticare la via del dialogo anche con il “diverso da me” perché per un cristiano la relazione autentica con l’altro è uno dei pilastri della sua fede. “Un uomo d’amore” sa dialogare perché il dialogo consente di combattere l’indifferenza verso la povertà, verso la miseria, verso gli ultimi. Un secondo aspetto da considerare riguarda il rapporto fra il cristiano e le regole statali. Qualcuno ha usato l’espressione “laicizzazione del cristianesimo”. In realtà, come ho già sopra evidenziato, la laicità è insita nel messaggio evangelico, come diceva Don Bosco: occorre essere buoni cristiani ed onesti cittadini e non si può essere cristiani autentici senza essere, nel contempo, onesti cittadini. A maggior ragione un cristiano che esercita una funzione pubblica deve guardare ai laici (a chi non crede, a chi appartiene ad altre religioni, a chi è indifferente ad ogni profilo spirituale) con uno sguardo scrupoloso, rivolto all’incontro utilizzando la lente di ingrandimento di quei valori evangelici dei quali egli è portatore. Al cristiano autentico, soprattutto nell’ambito lavorativo nel quale opera, non sono consentite “chiusure autoreferenziali”, ma deve “aprirsi” all’altro facendo il proprio dovere con assoluto scrupolo. Se il cristiano non fa il proprio dovere con scrupolo, umiltà, attenzione e disponibilità al confronto “con l’altro e verso l’altro”, non può dirsi cristiano autentico. Ma cosa significa essere cristiani e coniugare i valori di una fede autentica nel messaggio evangelico con lo svolgimento del proprio lavoro? Io mi sono data una risposta che chiaramente è declinata sulla mia professione (essere magistrato in una terra peculiare come quella siciliana). Ebbene io devo, in particolare, rendere un servizio giustizia rapido, efficace, essere sempre vigile per il rispetto del principio di uguaglianza fra tutti gli uomini ed individuare strumenti per la tutela degli ultimi, il tutto volto a creare un’uniformità nel trattamento fra situazioni analoghe, ancora una volta in piena attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Quindi “l’uomo d’amore”, è scrupoloso ed attento al rispetto delle regole nello svolgimento del suo lavoro. Inoltre, credo sia molto importante sottolineare che il messaggio evangelico pone l’accento sull’apertura di Gesù a tutti gli uomini, a prescindere dal loro essere credenti, peccatori, appartenenti ad altre religioni perché il messaggio d’amore è rivolto ad ogni creatura ed ecco che mi appaiono inconsistenti le obiezioni che pure qualcuno muove nel momento in cui si afferma che nelle professioni “l’essere cristiano” potrebbe pregiudicare l’attuazione del principio di uguaglianza rispetto ad esempio ai musulmani, agli induisti o agli ebrei. In realtà è esattamente il contrario, in quanto essere autenticamente testimoni del messaggio evangelico all’interno del proprio percorso lavorativo senza nessuna ostentazione del proprio credo, implica l’accoglienza ed il rispetto (e l’amore) per tutti a prescindere dalla loro formazione politica o religiosa. Un cristiano inteso come “colui che segue il messaggio di Gesù” si deve impegnare in ogni ambito professionale, sociale, politico per contribuire alla realizzazione della giustizia, della pace, della libertà e dei diritti di tutti gli uomini. E vado oltre. Un cristiano deve essere fiero della sua fede e pienamente consapevole dell’apporto che può dare a tutela dei valori volti alla promozione del benessere individuale di ciascuno. Il rispetto del principio di uguaglianza è, dunque, la precondizione attraverso la quale comprendere come un cristiano può effettivamente dare il suo contributo per “il salto etico” indispensabile per la realizzazione di un mondo migliore. Dobbiamo, inoltre, chiederci se sono sufficienti il rispetto del principio di uguaglianza, la capacità di dialogo, lo scrupolo nell’osservanza delle regole e l’umiltà nell’approccio relazionale per essere definiti “uomini d’amore” e, ad un tempo, buoni cristiani nel momento in cui svolgiamo la delicata professione di magistrato o, comunque, allorché si esercita un qualsiasi incarico pubblico. Come mi è capitato di dire più volte, sono affascinata dalla figura del beato Giudice Rosario Livatino perché in maniera limpida ha tracciato, ormai 40 anni fa, una sorta di impianto culturale del cristiano che esercita non solo il delicato compito del giudicare, ma che si relaziona, fra l’altro, in senso più ampio, con la gestione della cosa pubblica. Un approccio sobrio, rigoroso, coerente, efficace. Invero, se esiste, ed è valore fondamentale, l’autonomia fra Chiesa e Stato, va riconosciuto al cristiano il diritto di testimoniare, sempre nel sacrosanto rispetto del principio di laicità, i valori della sua religione nel contesto in cui opera e svolge la sua attività: questo Livatino l’ha fatto.
Procediamo con alcuni esempi. Pensiamo ad una controversia civile che vede contrapposti un attore ed un convenuto che cercano, attraverso l’operato del giudice, la tutela dei loro diritti ed il magistrato che applica con scrupolo e rigore le norme del Codice civile, saprà studiare e leggere, con scrupolo, ogni carta di quel fascicolo processuale consapevole che dietro quelle pagine c’è una vicenda umana, una sofferenza, una disuguaglianza da colmare. Questa è un’operazione ermeneutica che ogni giudice (cristiano o non cristiano) deve compiere, ma un cristiano lo farà anche con un punto di vista peculiare che si ricollega al suo essere cristiano. E mi spiego, se un magistrato, che si dice cristiano, non studia con massima attenzione le carte processuali, se non è disponibile all’ascolto delle parti, se è sprezzante e si sente gonfio del suo potere, quel magistrato, oltre ad essere un pessimo magistrato, non è cristiano nel senso autentico del termine. Un cristiano guarda l’individuo cercando di percepire l’altro che ha di fronte come soggetto da rispettare, da tutelare, a prescindere dalla sua fede, dalla sua appartenenza etnica, dalla sua classe sociale. I problemi si complicano quando ci troviamo di fronte ad un reato. Un magistrato che si occupa di penale ogni giorno si confronta: “con un fatto umano sporco di terra” e deve cercare di dargli dignità giuridica. In ambito penale ci troviamo di fronte ad un uomo che ha violato la sfera di altri uomini, creando un danno ingiusto e, in alcuni casi, come accade per i reati di criminalità organizzata, seminando morte. Rispetto ad un reato da accertare, il magistrato autenticamente cristiano oltre allo studio scrupoloso delle carte ed al rispetto per tutte le parti processuali, saprà non assumere posizioni preconcette, saprà (specialmente se fa il pubblico ministero) tener conto anche degli elementi di prova a favore degli indagati, rifuggirà da ogni tentazione mass mediatica, non si sentirà “investito da una missione”, ma avrà sempre presente che, in base al principio di uguaglianza, deve ricercare la verità per ripristinare l’equilibrio che il reato stesso ha compromesso. Anche in questo caso, un magistrato che si dice cristiano e che pone al centro dello svolgimento della sua attività il proprio ego invece che il servizio per l’altro non può ritenersi autenticamente portatore, nel suo quotidiano, del messaggio di Gesù e, ad un tempo, non realizza quello che è il fine ultimo della giustizia penale e cioè ricostruire e ricomporre in chiave equilibratrice e rieducativa le conseguenze di una lesione di valori fondamentali. Al contrario, un magistrato non cristiano che si pone nello svolgimento della sua professione realizzando, in concreto, lo studio del fascicolo, il rispetto dell’altro, la sobrietà e l’umiltà nella consapevolezza di poter sbagliare, realizza in pieno il messaggio evangelico anche se, per ipotesi, non è battezzato. Ciò che mi pare assolutamente evidente è che in un momento storico come quello confuso nel quale viviamo, ove pare frantumarsi il barlume etico dell’uguaglianza dei diritti, dell’uguaglianza fra tutti i cittadini (a prescindere dalla loro fede o etnia), la fedeltà al Vangelo e cioè la coerenza del cristiano può davvero fare la differenza. Possiamo, dunque, affermare che, nel pieno e rigorosissimo rispetto del principio di laicità, un magistrato cristiano (come qualsiasi cristiano) per essere effettivamente coerente con il messaggio evangelico, non deve essere un ottuso e chiuso difensore di una cristianità fatta di apparenza, ma deve essere testimone, in ogni sfera esistenziale e quindi anche nello svolgimento del proprio lavoro, della parola di Gesù. Ed arriviamo al discorso sulla coerenza. Un cristiano, per essere “uomo d’amore”, deve essere coerente con i dettami del Vangelo e deve operare in una società pluralista, senza preclusioni all’apertura verso ogni soggetto con il quale si trovi ad interagire. Un cristiano non fa “guerre sante”, ma si apre al suo prossimo con disponibilità e coraggio mostrandosi coerente e mai autoreferenziale. Un cristiano non impone la sua religione, ma si deve mostrare portatore nel quotidiano di quei valori che non possono e non devono essere limitati alla sua sfera privata, ma devono illuminare ogni aspetto della sua vita, quindi anche quello lavorativo. Un cristiano, adempiendo con scrupolo ai propri doveri, si pone, nel rapporto con gli altri, anche come “testimone della sua fede”. Credo che se riuscissimo ad essere cristiani coerenti, se riuscissimo a mostrarci come autentici portatori dei valori che Gesù ha insegnato 2000 anni fa, sarebbe superata la crisi del cristianesimo che ci schiaccia.
Voglio concludere ricollegandomi all’esperienza professionale che mi caratterizza ormai da quasi un trentennio che è quella di magistrato che si occupa di criminalità organizzata e che, quindi, ha avuto ed ha contatti con i soggetti che definiamo collaboratori di giustizia e che sono di frequente l’emblema di un tentativo individuale di ricomporre, anche sotto il profilo spirituale, frammenti di un’esistenza consumata sotto l’usbergo dei disvalori delle mafie.
Nella mia esperienza ho potuto verificare che alcuni di questi uomini, pur non essendo religiosi in senso classico, avvertono nel profondo un bisogno di spiritualità al quale ancorarsi per “fare ammenda” del male causato. Non tutti ovviamente, ma alcuni, una volta avviato un autentico percorso collaborativo, hanno sentito il bisogno di compiere azioni positive nei confronti del prossimo come, ad esempio, prendersi cura dei bisognosi. In altri, specie dopo molti anni dell’avvio della collaborazione, ho notato una crescita etica ed una progressiva consapevolezza dei gravi crimini commessi.
L’incontro con i familiari, ad esempio, di coloro che hanno ucciso, può definirsi come l’epifenomeno di un cammino di consapevolezza dal lato del collaboratore di giustizia e di autentico perdono da parte delle vittime. Perché la vittima, e cioè in molti casi i familiari dei soggetti sterminati dall’organizzazione mafiosa, attraversano anch’essi un travaglio del quale occorre tenere conto e con il quale misurarsi. Io cristiano,
battezzato, cresimato, educato al concetto di perdono secondo il messaggio evangelico, devo confrontarmi con soggetti criminali che hanno ucciso mio padre, mio figlio, mio fratello. Confrontandomi con numerose di queste vittime, ho potuto comprendere che la prima fase è quella del dolore straziante, della rabbia, della disperazione, dell’odio nei confronti dell’assassino, al punto che tutta l’impalcatura esistenziale pare crollare.
Ma con il tempo, almeno per alcuni, inizia un’altra fase e cioè la fase della consapevolezza nuova: quella della necessità di confrontarsi con il perdono. Ed un “uomo d’amore” dal perdono non può prescindere. Non è facile perdonare chi ti ha portato via gli affetti più grandi ma il cristiano autentico deve cimentarsi con la sfida del perdono. Per quella che è la mia esperienza, alcune vittime di mafia ci sono riuscite e quell’ incontro con i carnefici, adesso pentiti dei loro misfatti, si è rivelato salvifico per entrambi. In chiave di sintesi, credo di aver compreso, dopo quasi 35 anni di professione, che Gesù si mostra nel cammino spirituale, non necessariamente religioso, di ognuno di noi, proprio attraverso gli occhi di coloro che siamo chiamati a giudicare e nei confronti dei quali dobbiamo porci “sullo stesso piano”, senza preconcetti, senza condizionamenti di sorta, perché solo questo “angolo prospettico” consente di applicare la norma al caso concreto sostanziando i valori alti che il servizio giustizia deve realizzare.
Voglio concludere, ancora una volta, con il principio per me fondamentale di laicità dello Stato. La ricerca del bene, del giusto, la necessità della salvaguardia dei diritti di tutti è aspirazione di coloro che auspicano un mondo migliore a prescindere dal loro credere in Dio, dal loro credo religioso. Un cristiano autentico, per essere “uomo d’amore”, non deve mai dimenticarlo e deve agire per l’inclusione e per l’accettazione
delle differenze. Invero, Gesù ci indica un metodo per la ricerca del giusto che può essere praticato da chiunque, a prescindere dal credo religioso praticato. Ed è il solo strumento per essere, autenticamente, “uomini d’amore”. Dovremmo, tutti comprendere che, in presenza di tutto il male che ci circonda, abbiamo una sola ricetta salvifica. Rispondere al male con il bene. Invero, se si risponde al male con il male lo nutriamo, lo fortifichiamo e lo rendiamo invincibile. Il che significa perdere ogni speranza. Se, invece, impariamo a rispondere al male con il bene noi lo depotenziamo fino ad annullarlo. Credo che questa sia la sola strada per vivere da “uomini d’amore”.

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