(Intervento pronunciato il 27.02.2025 alla manifestazione tenuta presso il Palazzo di giustizia di Catania, in occasione dello sciopero indetto dall’Associazione Nazionale Magistrati)

1. Le molte iniziative, già varate o in procinto di esserlo, sulla materia della giustizia hanno questo in comune, che rappresentano la trasformazione di un problema che, per lo più, esibisce comprensibili ragioni in un pretesto per un intervento che le scavalca e che si ripropone altro.
Esemplare è in proposito la proposta della separazione della funzione requirente da quella giudicante, sulla quale soltanto mi soffermerò, e perché è quella che più coinvolge l’immaginario collettivo e perché fa da traino ad altre riforme di non minore portata (la riforma del CSM e l’Alta corte disciplinare).
Le ragioni della sua pretestuosità – come tutti sanno – sono soprattutto due:
– da un lato, la sua assoluta irrilevanza rispetto ai gravi problemi di efficienza che continuano ad affliggere l’amministrazione della giustizia in Italia;
– dall’altro, la circostanza che questa separazione esiste già di fatto dal 2007 in forza dei drastici limiti che ormai presiedono al passaggio di un magistrato dall’una all’altra funzione.
Quando qualcosa presenta carattere manifestamente pretestuoso, la domanda da porsi è: ma allora a che serve.

2. Sul piano strettamente giuridico – come si sa – gli effetti di questa riforma sono due:
(a) il distacco dei PM dai giudici e la loro costituzione in un ordine distinto e separato,
(b) la conseguente costituzione per essi di un organo apposito preposto all’espletamento delle funzioni fin qui svolte dal CSM (assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari).
Tuttavia, a quel che viene assicurato dal governo, si estenderebbero ai PM le garanzie di indipendenza assicurate dall’art. 102 ai giudici e rimarrebbe ferma per essi l’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’art. 112.
In questi termini minimalistici il progetto di riforma non sembrerebbe poi tanto sconvolgente.
In fondo, un assetto simile dei rapporti tra accusa e giudizio sono abbastanza consueti nel panorama internazionale: anzi, semmai, è l’Italia che rappresenta un’eccezione, anche se – come prima si è detto – ormai soltanto formale, soltanto apparente.
E allora, perché tanto rumore per così poco?
Solo perché giudice e PM non continuino a darsi del Tu ma comincino a darsi del Lei?
Questo, nel mood degli avvocati, non è un aspetto secondario. Ma non può costituire la ragione di quella che dal governo viene concepita e, soprattutto, viene rappresentata all’opinione  pubblica come una crociata e che per la magistratura, o per una sua grande parte, viene avvertita come quasi una sorta di ultima frontiera.
E quindi la domanda “a che serve” richiede altre risposte.

3. Queste risposte esigono una precisazione preliminare, la quale indica anche la prospettiva in cui esse vanno cercate e comprese.
Questa precisazione è
–  che è assolutamente vero che la distinzione anche organizzativa di accusa e giudizio è altrove pressoché la normalità;
– ma che è anche vero che questa separazione si dà, anzi fin qui si è data, dentro un costume che non è un costume, è piuttosto un modo costitutivo di intendere le istituzioni, il quale determina l’ordine che le governa dalle fondamenta.
L’accusa può anche essere organizzata in un apparato autonomo e addirittura può pure intrattenere un qualche rapporto strutturato con il governo. Ma se il governo si concepisce come sottoposto alla legge e intende la politica, di cui è espressione, come del tutto distinta dalla amministrazione della giustizia.
La separazione delle carriere, perciò, non è, in sé, un problema, quando la divisione dei poteri e il primato della legge costituiscono il presupposto condiviso e indiscutibile dell’operare delle istituzioni, anzi il connotato che determina, in ultima istanza, il senso e la qualità del loro essere in un tempo storico della società.
A seconda che si dia o no l’operatività materiale di questo sentimento/principio costituito dal primato della legge la separazione delle carriere esibirà un senso o un altro, il suo opposto.

4. Ed è proprio questo il punto.
Il punto è che è cambiato il tempo e che questo tempo mette in discussione in modo radicale proprio questo presupposto: quel principio d’ordine, quel patto fondamentale, su cui si regge l’architettura delle istituzioni, che è costituito dal primato della legge.
Si è detto, con molte buone ragioni, che sta per iniziare una nuova “era della politica”, un nuovo tempo delle istituzioni, un nuovo “format della democrazia”, il quale postula una nuova “gerarchia dei poteri retta dai rapporti di forza e dalla loro fisica eloquenza” (sono parole di un fine analista: Ezio Mauro).
Questo non è un mutamento che riguarda l’Italia e il suo governo di questi giorni, è un mutamento che attraversa l’intero Occidente e che, proprio per questo, non va affatto sottovalutato, va capito e preso sul serio.
Il messaggio che traspare dai fatti di cui da un bel po’ ci viene data quotidiana notizia, il vento che da essi soffia con forza crescente è che l’elezione, la vittoria elettorale è, ormai, rivendicata come investitura in un potere che non può essere più limitato dall’intralcio di garanzie e controlli.
Winner takes all è il principio d’ordine di questo nuovo tempo delle società. Ed esso non ha molto a che spartire con la democrazia. La quale non si identifica affatto con il procedimento elettorale, ma consiste, diversamente, nella qualità del potere che l’elezione conferisce, nei limiti e nei controlli cui esso è sottoposto: a cominciare dal rispetto dei diritti individuali, sociali e politici.
Non è certo un caso che il rapporto tra il potere di chi ha vinto le elezioni e gli intralci e gli ostacoli che gli verrebbero frapposti dai giudici costituisca il leitmotif di quanti in giro per il mondo si alimentano di questo nuovo vento.
Questo, allora, spiega perché una questione come quella della separazione di accusa e giudizio, che di per sé sarebbe pressoché secondaria, venga trasformata in una crociata.
Essa è il pretesto per rivendicare l’immunità del potere dalla legge, la libertà del potere dai vincoli che ne impaccerebbero l’operare, e, perciò, coinvolge non solo l’accusa ma prim’ancora il giudizio. E coinvolge il giudizio come simbolo della sottoposizione del potere alla legge ed ai limiti e controlli che essa istituisce.
 Essa dunque, in realtà, coinvolge la stessa democrazia per come l’abbiamo concepita e conosciuta da settant’anni a questa parte, coinvolge le regole generali della nostra convivenza e le condizioni, le modalità dello sviluppo individuale e collettivo delle nostre società come, nell’occidente, le abbiamo fin qui conosciute e praticate.
L’organizzazione della pubblica accusa non è l’ombelico del mondo, come di per sé non lo è neanche l’amministrazione della giustizia. Ma entrambe sono, insieme all’informazione, il primo fronte sul quale si sta progettando una modificazione sensibile del modo in cui il mondo occidentale si era strutturato ed ha funzionato a far data dalla fine dell’ultima guerra mondiale.

5. Ciò significa che nessuno si può tirar fuori da questa questione, anche se conta di non dover avere a che fare con i P.M. e con la giustizia.
Questo va capito bene: più di quanto di solito si faccia.
Ad essere in gioco non è un proprio eventuale e improbabile incontro con il processo, e neanche la corruzione dei politici o un qualche loro abuso.
Ad essere in gioco sono i diritti di cui ognuno, per lo più senza farci caso, quotidianamente si avvale nel vivere quotidiano.
Questa potrebbe sembrare un po’ un’esagerazione, il frutto di un allarmismo magari non gratuito ma certo eccessivo.
Ma malauguratamente non è proprio così.
La ragione è che – contrariamente a quel che si pensa – questo potere che rivendica di essere liberato dai vincoli non è il potere di un ceto, della c.d. classe politica soltanto, è un potere integrato e diffuso ove pubblico e privato si sommano e si tengono reciprocamente. Anzi è il potere tout court, quello che nasce dalla compenetrazione di politica e tecno-economia, il cui sguardo si estende su tutta la società e su tutte le relazioni che in essa si intrecciano.
Tutti i diritti che ciascuno esercita come individuo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità spirituale e materiale si confrontano con il potere, sia con il potere pubblico che con il potere privato.
Tutti i diritti, privati e pubblici, individuali e collettivi, rischiano, perciò, di essere coinvolti in questo processo che mira alla perentorietà del potere, della sua “fisica eloquenza”, sia che indossi le vesti del ministro o del sindaco, sia che indossi le vesti della multinazionale della AI e dei Big Data, del capo-ufficio o del datore di lavoro.
Dunque, la questione di cui oggi parliamo riguarda tutti, ma – occorre dirlo – lascia indifferenti i più.

6. In parte quest’indifferenza è dovuta al fatto che i più non sono informati o non percepiscono la reale portata del molto più grande che è implicato in questa questione.
Ma per una parte molto più grande quest’indifferenza dipende da un’antica propensione che ha le sue radici nella consolazione dell’ottimismo individualistico e nel c.d. quieto vivere.
“A me non capiterà”, “è meglio tenersi alla larga dai conflitti” sono il seme dell’indifferenza dei più, che attecchisce facilmente in una società ormai singolarizzata, “liquida”, dove domina il canone che “ognuno si salva da solo”.
Questo terreno di coltura dell’indifferenza, che porta la metà degli elettori a non votare e che attraversa tutti gli strati sociali, anche quelli più acculturati, è difficile da arare. Ma forse non è impossibile da smuovere, se si riesce a far capire ciò che in realtà è in gioco, che quel che è in gioco prima o poi tocca tutti e che il suo avverarsi dipende da ciascuno di noi.
Non è facile, ma si deve provare a farlo.

7. Proprio perché questa riforma concerne ben altro, deve ritenersi abbastanza scontato che essa passerà. Ma è molto probabile che essa porterà ad un referendum costituzionale.
Per questo non ha molto senso, è ingenua l’idea di disattivare lo scontro in atto offrendosi di trattare: se è vero – come è vero – che dietro questo scontro c’è altro e che questo altro è molto più rilevante, allora non è la trattativa che può indurre a desistere chi questo disegno coltiva.
Ma il referendum costituzionale che verrà impone che si appresti una strategia efficace per affrontarlo con una qualche speranza.
Questa strategia richiede di modificare la percezione che i cittadini, che sono quelli che saranno chiamati ad approvare o a respingere questa riforma, hanno della questione che ad essi sarà sottoposta dal referendum. E per far questo bisogna cominciare con il capire una cosa.
Quello che occorre capire è che questo scontro è generalmente percepito come uno scontro di poteri, come uno scontro tra èlite che si contendono il comando della società.
E finché questa rimane la percezione generale non si possono nutrire molte speranze. E – va aggiunto – non senza ragioni. Ché la legittimazione popolare sta dalla parte della politica (per quanto discreditata possa essere) e non dalla parte della magistratura: come è stato declamato con intelligenza, i politici si possono mandare a casa i magistrati no.
Questo richiede che si aggiustino i linguaggi di questa discussione e del confronto referendario che su di essa si aprirà.
Qualche esempio può chiarire quel che intendo dire.

(i) Innanzitutto, non della divisione dei poteri si deve parlare, bensì del primato della legge.
La divisione dei poteri è un concetto sofisticato e difficile da spiegare. E soprattutto è un concetto che – piaccia o no – fa pensare ad uno scontro tra poteri e che, per questo, non scalda affatto il cuore dei molti che saranno chiamati a votare.
Il primato della legge, invece, evoca l’idea dell’eguaglianza e del controllo, la quale ha più accesso alla sensibilità dei cittadini: esso dice che tutti sono eguali dinnanzi alla legge e che non ci debbono essere privilegi e immunità per chi non la rispetti.

 (ii) Ancora, non sull’indipendenza della magistratura bisogna battere, bensì sulla necessità che essa sia imparziale, immune da ogni influenza.
L’indipendenza è una cosa sacrosanta, ma rischia anch’essa di essere fraintesa, di essere percepita come indipendenza di un potere separato e alternativo da un potere che, invece, può vantare una legittimazione popolare, un potere sulla legge invece che per la legge.
L’imparzialità è, invece, un’idea che, ancora una volta, evoca l’eguaglianza, un’idea che dice che chi è più forte, chi ha più potere non deve per questo influenzare il giudizio in suo favore, l’idea che chi giudica deve essere terzo e deve poter sottostare solo al comando della legge.

(iii) Inoltre, la Costituzione va impugnata – ed è giusto e bene che sia stata impugnata dinnanzi a chi prova a scavalcarla – ma va impugnata come la principale delle leggi, come la legge fondamentale.
La “Costituzione da sola” può far pensare ad una cosa che si contrappone alla legge, ad una sorta di deposito di valori dal quale si può attingere a piacere in polemica con la legge e con chi l’ha fatta.
La “Costituzione con la legge”, invece, ribadisce l’idea che c’è una legge che per la stessa volontà del popolo sta al di sopra delle altre leggi ed alla quale queste altre leggi debbono obbedire. E questo, a sua volta, vale a mostrare che il riferimento alla Costituzione non è nella scelta del giudice, non è una sua facoltà, ma costituisce piuttosto un inderogabile vincolo che gli viene dalla c.d. gerarchia delle fonti che è obbligato a rispettare.
Questi esempi, forse, potranno sembrare ad alcuni quanto meno discutibili: dietro i linguaggi che essi propongono di riassettare, infatti, si sono sedimentati talvolta – e va detto – modi diversi di concepire la giurisdizione.
Non è questo il luogo, ne è il tempo per discuterne.
Qui e ora vi è, invece, uno scontro a decidere il quale sarà, alla fine, il modo in cui sarà percepito dai cittadini. E il modo in cui essi lo percepiranno dipenderà dall’immagine che si trasmetterà della giurisdizione: se quella di una giurisdizione come esercizio di un potere indipendente e alternativo o quella di una giurisdizione qual è definita dall’art. 101 cost., ossia di una funzione esercitata nel nome del popolo e per il popolo, per garantirne i diritti e le libertà ad esso conferiti dalle leggi contro gli abusi e le sopraffazioni del potere, pubblico o privato che sia.

Catania 27 febbraio 2025

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