di Beatrice Magaro’
La violazione del diritto alla bigenitorialità da parte del genitore che ostacoli i rapporti del figlio con l’altro genitore (anche ponendo in essere condotte che integrino gravi forme di abuso psicologico) e la conseguente necessità di garantire l’attuazione di tale diritto, non impongono necessariamente la pronuncia di decadenza del genitore malevolo dalla responsabilità genitoriale e l’allontanamento del minore dalla sua residenza, quali misure estreme che recidono ineluttabilmente ogni rapporto, giuridico, morale ed affettivo con il figlio, essendo necessaria la verifica, in applicazione del principio del superiore interesse del minore, della possibilità che tale rimedio incontri, nel caso concreto, un limite nell’esigenza di evitare un trauma, anche irreparabile, allo sviluppo fisico-cognitivo del figlio, in conseguenza del brusco e definitivo abbandono del genitore con il quale aveva sempre vissuto e della correlata lacerazione di ogni consuetudine di vita (Cass. Civ. 9691/22)
Leggendo il comunicato stampa che ha fatto seguito all’ordinanza 9691/22 della Corte di Cassazione, pubblicata in data 24.03.22, si è indotti a pensare che il fulcro delle argomentazioni spese dalla Corte nell’ordinanza predetta, siano incentrate su una severa critica delle decisioni giudiziali basate su CTU che recepiscano, in maniera più o meno evidente, la teoria dell’alienazione parentale o PAS (parental alienation syndrome). L’argomentare della Corte è, in realtà, molto più complesso, poiché trae origine da una pronuncia di decadenza, a cui ha fatto seguito il prelievo forzoso di un minore, sottratto, con l’ausilio della forza pubblica ed in maniera repentina, all’ambiente domestico in cui aveva sempre vissuto con la madre. La questione di fatto da cui muove l’ordinanza predetta è rappresentata dalla necessità di assicurare la costruzione di un rapporto significativo tra il padre il figlio, ostacolato, secondo le CTU svolte nei gradi di merito, dalla condotta ostruzionistica della madre.
Orbene, l’analisi si incentra, da un lato, sul metodo di giudizio della condotta materna, che deve essere valutata, secondo la Corte, sulla base di fatti e dati oggettivi e non attraverso un acritico recepimento delle considerazioni di CTU, che “lasciano aleggiare la teorica della sindrome dell’alienazione parentale”, considerata, sulla scorta di un consolidato orientamento della stessa giurisprudenza di legittimità, di dubbia validità scientifica, dall’altro, sui rimedi da adottare per assicurare l’attuazione concreta del principio della bigenitorialità, nel rispetto del best interest of the child.
Da una lettura attenta dell’ordinanza in oggetto si evince, infatti, che il vero fulcro della decisione è rappresentato, più che da una critica alla teoria della PAS, dalla tutela dell’interesse del minore, disciplinato dagli artt.337-ter c.c. e dall’art. 8 della CEDU, che è un principio cardine della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ratificata dall’Italia, con L. 176/91. Si evidenzia, infatti, che nello spirito di tale convenzione l’interesse del minore è declinato in tre diverse accezioni: a) come diritto sostanziale, che deve essere preso in considerazione in via prioritaria nelle decisioni che riguardano un minore; b) come criterio interpretativo della norme astratte dettate nella materia minorile, in modo da assicurare una decisione conforme a tale interesse; c) come regola procedurale, in modo che sia garantita la preventiva valutazione di tale interesse nelle decisioni riguardanti minori.
Sulla scia di tali rilievi, nonché dei giurisprudenza della CEDU improntata, da un lato, sulla tutela effettiva della bigenitorialità, dall’altro sul rispetto delle esigenze e della sensibilità del minore, la Corte muove una severa critica alla decisione impugnata, che come detto, aveva stabilito il trasferimento coattivo del minore presso una casa famiglia, sia sotto il profilo del mancato ascolto del minore, che in ragione della scarso rispetto nei confronti di quest’ultimo, repentinamente sottratto all’ambiente in cui era sempre vissuto ed alla madre, la quale aveva costituito per anni il suo unico punto di riferimento. Invero, nella prospettiva evincibile nell’ordinanza in oggetto, il Giudice di merito, allorquando deve valutare la necessità dello spostamento di un minore da un nucleo familiare all’altro, deve operare un difficile bilanciamento tra il danno immediato, conseguente in maniera pressochè inevitabile al repentino distacco, e la prospettiva futura ed incerta di una vita migliore, dovendosi comunque evitare sofferenze che nel breve periodo lascino strascichi troppo traumatici. Nel caso considerato il giudice di merito aveva completamente omesso detto bilanciamento. In casi come quello esaminato dalla Corte l’interrogativo è il seguente: vale davvero la pena strappare il minore all’unica sua figura di riferimento, nella prospettiva incerta di assicurare l’accesso all’altra figura genitoriale, qualora il genitore convivente ostacoli la relazione?
A tale interrogativo la Cassazione risponde evidenziando innanzitutto che l’accertamento della condotta, asseritamente ostruzionistica, deve basarsi su fatti e non su valutazioni apodittiche fondate su pregiudizi o su teorie di dubbia validita’ scientifica; dall’altro che occorre, comunque, evitare prelievi forzosi, effettuati senza l’ascolto del minore e, quindi senza tener conto sia della sua sensibilità che delle ragioni opposte dalla stesso rispetto al rifiuto dell’altro genitore, che se adeguatamente valutate potrebbero, nel caso concreto, far propendere per una valutazione meno negativa della condotta materna in termini di ostruzionismo.
Muovendo da tali rilievi la Corte evidenzia che l’esecuzione coattiva del decreto di allontanamento, consistente nell’uso di una certa forza fisica diretta a sottrarre il minore dal luogo in cui risiede con la madre, a prescindere dai vizi del provvedimento, non appare misura conforme ai principi dello Stato di diritto, in quanto prescinde dall’età del minore non ascoltato, dalle sue capacità di discernimento e potrebbe cagionare traumi rilevanti e imprevedibili per le modalità autoritative che il minore non può non introiettare.
Rispetto al prelievo forzoso, appaiono preferibili, nella prospettiva garantistica della Corte, le misure coercitive indirette di cui all’art. 709-ter, che potrebbero astrattamente indurre il genitore convivente a tenere una condotta più collaborativa, volta a promuovere l’altra figura genitoriale, senza al contempo causare traumi al minore e soprattutto senza privarlo del genitore con cui vive abitualmente.
Invero, la soluzione adottata dai Giudici di merito nel caso de quo si rivela contraddittoria, perché, da un lato muove dal rispetto del principio della bigenitorialità e, quindi dal fine giusto di garantire l’accesso anche alla figura genitoriale (il padre), di fatto assente nella vita del minore, dall’altro finisce per privare il minore del genitore presente nella sua vita (la madre), in maniera traumatica e repentina, creando un pregiudizio immediato nella prospettiva incerta di un futuro riavvicinamento al padre.
Conclusivamente, le riflessioni suggerite della Corte sono molteplici: nel caso in cui un minore rifiuti un genitore occorrerà innanzitutto valutare le ragioni del rifiuto, sulla base dei fatti e non di valutazioni o giudizi apodittici, nonché procedendo all’ascolto del minore, successivamente, nella fase della scelta delle misure volte ad assicurare la bigenitorialità, occorrerà privilegiare le soluzioni che maggiormente salvaguardino l’interesse del minore, garantendo il rispetto delle sue abitudini e dei sui desiderata, ed effettuando sempre un bilanciamento tra il danno immediato che una soluzione può creare e la probabilità che da tale situazione derivi una prospettiva di effettivo beneficio al minore stesso.