(nota a Cass. pen., Sez. 6, 16 novembre 2023 (dep. 18 gennaio 2024), n. 2319, Pres. De Amicis, Rel. Di Nicola Travaglini)

1. Il fatto

La Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma con la quale: un imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e per reati-fine in materia di stupefacenti; l’altra imputata era stata assolta dal medesimo reato di associazione a delinquere dedita al narcotraffico, per non avere commesso il fatto, mentre era stata condannata – e questo è ciò che qui rileva – per il trasporto di 5 chili di marijuana.

Limitando la presente esposizione alla posizione dell’imputata, quanto alla sua condanna per trasporto di stupefacente, va evidenziato che la stessa ha proposto ricorso per cassazione per: violazione degli artt. 17 Cost., 8 della Direttiva 2011/36/UE, 4 e 8 CEDU, in quanto la sentenza impugnata avrebbe erroneamente omesso di applicare la clausola di non punibilità per le vittime di tratta; violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 54 cod. pen., non essendo stata valutata la situazione antecedente al delitto della ricorrente, costretta a fuggire a soli 18 anni e sottoposta a violenze gravissime da parte dei trafficanti nel corso del viaggio dalla Nigeria alla Libia; vizio di motivazione per illogicità, apparenza della motivazione e travisamento della prova, sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe ignorato la convergenza del compendio probatorio, dimostrativo della condizione di assoluta vulnerabilità della ricorrente, già dal dicembre 2018.

2. I principi affermati dalla Corte di cassazione

Nell’accogliere il ricorso, la Corte[1] ha censurato la mancata applicazione alla ricorrente, vittima di tratta, della scriminante dell’art. 54 cod. pen., da interpretare in conformità al diritto sovranazionale in materia. In particolare, la sentenza analizza il rapporto tra i principi sovranazionali sulla non punibilità delle vittime di tratta e l’ordinamento italiano, al fine di accertare se vi sia una disposizione interna in forza della quale tali principi possano trovare applicazione.

2.1. Si prendono in considerazione, a tal fine: a) la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo e recepita dall’Italia con la legge 11 agosto 2003, n. 228, in cui per la prima volta il delitto di tratta di persone è definito come una grave violazione dei diritti umani; b) la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, (“Convenzione di Varsavia”), ratificata dall’Italia con la legge 2 luglio 2010, n. 108, che introduce il concetto di identificazione delle vittime di tratta (art. 10) e la causa di eventuale non punibilità per i reati commessi in condizione di costrizione (art. 26)[2]; c) la giurisprudenza della Corte Edu, che ha ricondotto la tratta all’art. 4 Cedu[3] e, soprattutto, ha riconosciuto la non incriminazione delle vittime di tale reato[4]; d) l’art. 79, par. 1, lettera d), TFUE e la Carta di Nizza, art. 5, par. 3; e) la Direttiva 2011/36/UE, la quale adotta una nuova e più ampia definizione di tratta, includendovi anche nuovi tipi di sfruttamento, come lo “sfruttamento di attività illecite”, e definisce anche la cd. “posizione di vulnerabilità”, intesa come la condizione in cui può trovarsi la vittima e di cui l’autore possa approfittare per porre in essere la condotta (art. 2, co. 2)[5]; f) la Direttiva 2012/29/UE, che colloca il reato di tratta tra i delitti di violenza di genere e qualifica le vittime come esposte a particolare rischio di vittimizzazione secondaria, previa valutazione individuale, da parte di personale qualificato; g) le Direttive 2011/95/UE e 2013/33/UE e la decisione quadro 2001/220/GAI, che qualificano le vittime di tratta come beneficiarie della protezione internazionale ed umanitaria, da cui il diritto, in quanto soggetti “vulnerabili”, al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 18 d.lgs. n. 286/1998.

La Corte ricostruisce la non punibilità della vittima di tratta per i delitti commessi a causa di tale condizione quale conseguenza del principio di non contraddizione dell’ordinamento, sul rilievo che sarebbe irragionevole punire chi abbia commesso un reato in una condizione di costrizione che lo stesso ordinamento riconduce alla violazione dei diritti umani fondamentali. Nel quadro normativo e giurisprudenziale appena delineato, i più significativi fondamenti di tale affermazione sono rappresentati: dall’art. 26 della Convenzione di Varsavia (Norme che escludono la pena); dall’art. 8 della Direttiva 2011/36/UE (Mancato esercizio dell’azione penale o mancata applicazione di sanzioni penali alle vittime), secondo il quale: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai principi fondamentali dei loro ordinamenti giuridici, per conferire alle autorità nazionali competenti il potere di non perseguire né imporre sanzioni penali alle vittime della tratta degli esseri umani coinvolte in attività criminali che sono state costrette a compiere come conseguenza diretta di uno degli atti di cui all’art. 2»; dalla sentenza della Corte EDU del 16 febbraio 2021, che condanna il Regno Unito per non aver riconosciuto il principio di non incriminazione a una vittima di tratta, in violazione dell’art. 4 CEDU.

Grava, dunque, sugli Stati l’obbligo positivo di proteggere e di non perseguire le vittime di tratta, alla luce di una valutazione individualizzata del caso concreto e ferma l’adozione di tutte le misure di protezione necessarie. Il giudice che voglia discostarsi dalla non incriminazione, sebbene sia stata riconosciuta la specifica condizione di vittima di tratta, può farlo, a condizione che fornisca una motivazione analitica sul punto.

A fronte di soggetti sottoposti a poteri ricattatori, privati in tutto in parte della propria autonomia decisionale, potenzialmente sfiduciati verso le autorità dello Stato ospitante quanto all’esistenza di concrete possibilità di sottrarsi al circuito dello sfruttamento, la Corte di cassazione individua tre diversi tipologie di delitti suscettibili di non essere puniti se commessi dalla vittima di tratta: quelli strettamente collegati alla condizione di irregolarità nel territorio dello Stato; quelli in cui il trafficante si appropria del provento criminoso (come furto, traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione); quelli commessi per liberarsi dallo sfruttamento da parte di terzi.

2.2. La Cassazione passa poi ad affrontare la questione della presenza nell’ordinamento interno di strumenti che prevedano la non punibilità delle vittime di tratta in relazione al loro coinvolgimento nelle attività illecite. Preso atto della mancanza di una specifica disposizione[6], ritiene di poter utilizzare allo scopo l’art. 54 cod. pen. (stato di necessità), nel senso che il giudice, «quando deve operare il bilanciamento tra opposti interessi in relazione ai reati commessi dalle vittime di tratta, a ciò costrette dalla loro posizione di vulnerabilità relazionale, è tenuto ad interpretare l’art. 54 cod. pen. in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali costituiti in particolare: a) dalla tutela dei diritti umani inalienabili delle vittime di tratta; b) dal divieto di vittimizzazione secondaria derivante dal sottoporre ad un processo penale non dovuto, anche in una logica di non contraddizione dell’ordinamento; c) dall’interdizione ad esporre, con i propri atti giudiziari, lo Stato ad una possibile responsabilità a causa di interpretazioni che violano i doveri assunti attraverso gli artt. 10, 11 e 117 Cost., e il conseguente obbligo di interpretazione conforme[7]».

Quanto alle condizioni per il riconoscimento della scriminante, la sentenza recepisce l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui questa non può applicarsi allorché il soggetto che la invochi avrebbe potuto sottrarsi alla minaccia, e dunque alla commissione del delitto che ne è derivato, ricorrendo alla protezione dell’autorità, purché, però, detta soluzione alternativa si prospetti come realmente praticabile ed efficace a neutralizzare la situazione di pericolo attuale – imminente o perdurante – in cui l’agente o il terzo destinatario della minaccia si trova[8].

L’accertamento condotto deve, pertanto, considerare tutte le circostanze del caso concreto per verificare se l’imputato fosse vittima di tratta e, in caso di riscontro positivo, se ricorressero tutti gli estremi dell’art. 54 c.p. (stato di costrizione, attualità ed inevitabilità del pericolo di un danno grave alla persona, confronto tra i beni in conflitto nell’ottica del giudizio di proporzione). Ai fini dello svolgimento di tale valutazione, si richiamano l’art. 10, par. 2, della Convenzione di Varsavia[9] e l’art. 11, par. 4, della Direttiva 2011/36/UE, secondo cui il processo di individuazione delle vittime di tratta deve essere fondato su indicatori che considerino la resistenza delle stesse nel riferire la loro posizione: il timore delle conseguenze di un’eventuale denuncia; la scarsa percezione della propria situazione; una sorta di riconoscenza nei confronti del trafficante, che ha reso possibile la sua immigrazione clandestina; la difficoltà nel rivivere il proprio passato; la sfiducia nelle autorità.

Si richiamano, altresì, ai fini dell’individuazione delle cd. “persone trafficate”, le “Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento”, allegate al “Piano nazionale di azione contro la tratta e il grave sfruttamento”, introdotte dall’art. 13 della legge 228/2003[10], le quali hanno recepito gli indicatori e i protocolli contenuti nei documenti elaborati dalle organizzazioni internazionali, tra cui anche UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime). Si tratta di “parametri sintomatici”, suddivisi in ragione dell’ambito di sfruttamento (sessuale, lavorativo, contesto di delinquenza diffusa), a partire dai quali la Corte elabora un elenco esemplificativo di indici tipici della tratta, applicabili anche dal giudice: essere donna o minorenne in condizioni economiche disagiate e con basso livello di istruzione; provenire da un Paese esposto al fenomeno della tratta; avere percorso rotte utilizzate da organizzazioni criminali; avere vissuto esperienze di sfruttamento nei Paesi di transito; avere contratto debiti prima e durante il viaggio; avere subito la sottrazione di documenti di identità; non avere alcuna conoscenza della lingua del Paese di destinazione anche dopo una lunga permanenza in esso; essere ospite presso abitazioni note alle forze di polizia per la presenza di fenomeni di sfruttamento sessuale o lavorativo o attività delinquenziali.

Quanto, infine, alla valutazione circa il carattere eventualmente relativo della coazione e circa l’evitabilità del pericolo, è necessario prendere le mosse dalla posizione di vulnerabilità, disciplinata dal codice di procedura penale, il cui art. 90-quater impone allo Stato l’obbligo di predisporre strumenti capaci di tutelare i diritti fondamentali. A ciò si aggiunge la previsione dell’art. 2, par. 2, della Direttiva 2011/36/UE, che definisce la “vulnerabilità” non come una condizione soggettiva, ma come una situazione in cui la vittima non ha altra scelta se non cedere agli abusi subiti: in quest’ottica, l’attenzione non ricade più sulla persona ma sulla struttura del delitto, nel rispetto della dignità umana ex artt. 2 Cost. e 8 Cedu; e questa conclusione interpretativa trova conferma – secondo la Corte di cassazione – nel Considerando 11 della Direttiva 2011/36/UE, che comprende nella nozione di tratta anche lo “sfruttamento di attività criminali”, tra cui rientra lo sfruttamento di una persona perché commetta vari reati contro il patrimonio o in materia di stupefacenti.

2.3. Alla luce di tali motivazioni, il giudice di legittimità afferma che una persona in condizione di vulnerabilità può invocare la scriminante dello stato di necessità quando sia vittima di tratta, sia asservita ai capi di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico e sia costretta a trasportare la sostanza stupefacente, non potendosi sottrarre in alcun modo alla situazione di pericolo.

Ciò porta all’annullamento della sentenza di secondo grado sul punto, per l’inadeguata valutazione dello specifico contesto in cui si trovava ad agire la vittima di tratta al momento della commissione del reato in materia di stupefacenti[11]. Nel giudizio di rinvio – statuisce la Corte di cassazione – si dovrà tenere conto del riconoscimento della protezione internazionale da parte della Commissione territoriale, valorizzando, eventualmente, anche il contenuto delle Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento allegate al Piano nazionale di azione contro la tratta, sopra menzionate, che ne individuano la serie degli indicatori generali e specifici[12].

3. Osservazioni

La sentenza rappresenta la compiuta trasposizione nell’ordinamento interno, mediante opportuni adattamenti, dei principi affermati da Corte EDU, Quarta Sezione, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito del 16 febbraio 2021, da cui trae anche la maggior parte dei riferimenti al quadro normativo e giurisprudenziale sovranazionale.

3.1. In particolare, la Corte di Strasburgo statuisce che l’art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel proibire la schiavitù, ha l’obiettivo di proteggere le vittime della tratta, imponendo agli Stati di adottare misure adeguate alla loro tutela; sicché, in determinate circostanze, può risultare in contrasto con tale dovere l’esercizio dell’azione penale nei confronti di tali persone, poiché la condanna le renderebbe ancora più vulnerabili e potrebbe ostacolarne l’integrazione nella società e l’accesso agli aiuti a loro destinati. Pertanto, in presenza di un fondato sospetto che l’indagato possa essere stato oggetto di tratta, il suo status deve essere accertato tempestivamente da personale specializzato, con valutazione da svolgersi in base ai criteri individuati nel Protocollo di Palermo e nella Convenzione contro la tratta (secondo cui la minaccia della forza e/o della coercizione non è richiesta quando l’individuo è un bambino), e la pubblica accusa dovrebbe attenersi a tale indicazione, salva l’esistenza di chiare ragioni contrarie, pur sempre coerenti con la disciplina della tratta. Il mancato tempestivo accertamento, da parte dell’autorità giudiziaria, dello status di vittima della tratta in capo ad un indagato, in presenza di un fondato sospetto di tale condizione, si traduce nella violazione del diritto ad un equo processo, garantito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, posto che può impedire l’acquisizione di prove che avrebbero potuto costituire un aspetto fondamentale della difesa.

Il caso trattato dalla Corte EDU è parzialmente sovrapponibile a quello italiano, avendo ad oggetto l’incriminazione di due minori vietnamiti per coltivazione di stupefacenti. In particolare, il giudice di appello inglese, pronunciatosi in ultima istanza, nel confermare la condanna, aveva ritenuto che l’art. 26 della Convenzione Antitratta «non può interpretarsi come fonte di una condizione di immunità per le vittime della tratta coinvolte in attività criminali, sicché non può estendersi l’ambito applicativo del “costringimento fisico”, idoneo ad escludere la punibilità», avendo il Regno Unito adempiuto agli obblighi derivanti dalla Convenzione antitratta grazie all’attribuzione al pubblico ministero del potere discrezionale, di decidere di non esercitare o di non proseguire l’azione penale nei confronti di un imputato che, pur non potendo allegare a sua difesa la coercizione, ricade nell’ambito protettivo dell’art. 26 della Convenzione antitratta.

La Corte EDU individua, quali obblighi positivi, derivanti dall’art. 4 della Convenzione: 1) il dovere (sostanziale) di adottare la disciplina legislativa e amministrativa diretta a vietare e punire la tratta; 2) il dovere (sostanziale), in determinate circostanze, di adottare misure operative per proteggere le vittime, o potenziali vittime, della tratta; 3) l’obbligo procedurale di indagare su situazioni di potenziale tratta.

Ma – ciò che più rileva – dalla Convenzione contro la tratta o da qualsiasi altro strumento internazionale non può essere desunto alcun divieto generale di agire penalmente nei confronti delle vittime di tratta che abbiano commesso reati. La Corte EDU evince, però, dalle disposizioni sulla non punibilità – artt. 26 della Convenzione contro la tratta, 8 della direttiva contro la tratta e 4, paragrafo 2, del Protocollo del 2014 alla Convenzione sul lavoro forzato dell’OIL – che la vittima di tratta deve essere stata costretta a commettere l’attività criminale, e che, in tal caso, le autorità nazionali dovrebbero essere autorizzate, ma non obbligate, a non procedere nei suoi confronti. Tuttavia, la coercizione non sembra necessaria, laddove sia coinvolto un minore, pur non essendo vietata neanche in questo caso, in termini assoluti, la persecuzione penale.

In ogni caso – ed è questo il principio fatto proprio dalla Corte di cassazione nella sentenza oggetto di analisi – la pronuncia dei giudici di Strasburgo afferma che il perseguimento delle vittime, o potenziali vittime, della tratta può, in determinate circostanze, essere in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure operative per tutelarle da ulteriori danni e facilitarne il recupero; mentre la sottoposizione ad un procedimento penale sarebbe dannoso per la loro integrità psico-fisica, rendendole potenzialmente più vulnerabili e rendendo più difficile la loro integrazione sociale.

Non viene dunque stabilito alcun automatismo, né un divieto generalizzato di perseguimento penale di soggetti vittime di tratta, ma si afferma la necessità di un bilanciamento fra gli opposti interessi al rispetto della legalità penale e alla tutela di tali soggetti. Né si individuano gli istituti giuridici da applicare per garantire tale valutazione in concreto, evidentemente lasciati al margine di apprezzamento degli Stati, caratterizzati da ordinamenti giuridici diversi.

3.2. In questo quadro, la Corte di cassazione prende atto dell’inesistenza dell’ordinamento italiano di un’apposita previsione di non punibilità[13] ed opera la scelta dello stato di necessità[14] quale istituto più adeguato in concreto a consentire la valutazione del grado di costrizione dell’agente, ovvero la sua specifica situazione quale vittima di tratta, allo scopo di verificare proporzionalità del reato da lui compiuto rispetto a tale situazione.

Non è questa la sede per procedere ad un approfondimento dogmatico della circostanza – se scusante, operante sul piano soggettivo della colpevolezza, o scriminante, operante sul piano più marcatamente oggettivo dell’antigiuridicità – perché ciò che conta è l’adattamento dell’istituto ai principi sovranazionali effettuato dalla sentenza in commento, la quale, non a caso, non fornisce giustificazioni di carattere sistematico. È però opportuno sottolineare che, nella giurisprudenza di legittimità, la scriminante dello stato di necessità, sia pure di rarissima applicazione, è stata invocata, il più delle volte senza successo, in diversi ambiti: dai reati tributari, all’occupazione abusiva di immobili dai reati in materia di immigrazione a quelli commessi dalle vittime del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù[15].

Sembra potersi osservare come la fattispecie concreta abbia “aiutato” la Corte ad operare questa scelta, trattandosi di un reato in materia di stupefacenti, per di più leggeri, non caratterizzato da violenza contro la persona, commesso da persona di sesso femminile e, dunque, per ciò solo, più vulnerabile quale vittima di tratta. Diverse avrebbero potuto essere le valutazioni se l’incriminazione avesse avuto per oggetto reati più odiosi, posti un essere da un soggetto di sesso maschile, come ad esempio lo sfruttamento della prostituzione, magari minorile, o implicanti l’uso di violenza o minaccia, da cui emergesse un significativo livello di pericolosità del reo.

Ulteriore profilo problematico è quello della determinazione del livello di costrizione conseguente all’essere vittima di tratta, ove la valutazione – come ben evidenziato dalla Corte di cassazione – non può che prescindere da ogni automatismo. Vengono in rilievo, a tale proposito, le numerose fattispecie penali previste dall’ordinamento – rappresentate dagli artt. 600 (Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) e 601 (Tratta di persone) cod. pen., cui si aggiunge l’art. 600-octies (Impiego dei minori nell’accattonaggio. Organizzazione dell’accattonaggio), introdotto con d.l. n. 113 del 2018, convertito dalla legge n. 132 del 2018, nonché dagli artt. 602 (Acquisto e alienazione di schiavi) e 603-bis (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) cod. pen. – e gli orientamenti giurisprudenziali maturati su tali fattispecie.

Si è affermato, innanzi tutto, quanto alla condizione di vulnerabilità e allo stato di bisogno nei reati di riduzione in schiavitù o tratta, che la situazione di necessità della vittima costituisce il presupposto della condotta approfittatrice dell’agente, sicché tale nozione non può essere posta a paragone con lo stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen., ma va piuttosto posta in relazione alla nozione di bisogno indicata nel delitto di usura aggravata (art. 644, comma quinto, n. 3 cod. pen.) o allo stato di bisogno utilizzato nell’istituto della rescissione del contratto (art. 1418 cod. civ.). La situazione di necessità va, quindi, intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, coincide con la definizione di “posizione di vulnerabilità” indicata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, attuata con legge n. 228 del 2003 (Sez. 3, n. 2841 del 26/10/2006, Rv. 236022; Sez. 3, n. 21630 del 6/5/2010, Rv. 247641; Sez. 5, n. 49148 del 28/5/2019, P., Rv. 278051). Per la configurabilità del delitto di tratta, in ogni caso, non è richiesto che il soggetto passivo si trovi già in schiavitù o condizione analoga, con la conseguenza che il delitto si ravvisa anche se una persona libera sia condotta con inganno in Italia, al fine di porla nel nostro territorio in condizione analoga alla schiavitù: il reato di tratta può essere, infatti, commesso anche con induzione mediante inganno in alternativa alla costrizione con violenza o minaccia (così Sez. 5, n. 40045 del 24/9/2010, Rv. 248899). Più in generale, ai fini della configurabilità del requisito dello stato di soggezione della persona offesa, rilevante per l’integrazione dei reati, non è necessaria la totale privazione della libertà personale della medesima, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione (ex multis, Sez. 5, n. 15662 del 17/2/2020, Rv. 279156; Sez. 5, n. 49594 del 14/10/2014, Rv. 261345; Sez. 5, n. 44385 del 24/9/2013, Rv. 257564)[16].

Dunque, seppure a diversi fini, la giurisprudenza sostanzialmente afferma che la vittima di tratta non può perciò solo considerarsi in stato di necessità, potendosi in generale fare ricorso alla diversa categoria dogmatica dello stato di bisogno[17]. Deve però tenersi conto del fatto che l’ottica adottata dalla giurisprudenza richiamata è stata quella dell’individuazione dell’elemento della fattispecie incriminatrice e non della causa di giustificazione[18].

Rifiutato ogni automatismo, ciò che conta – secondo la sentenza in commento – è che vi sia un’analisi a tutto tondo della situazione dell’imputato, comprensiva degli elementi dai quali desumere la sua situazione di vittima e il grado di costrizione subito. Sembra ovvio, in questo quadro, che la valutazione offerta dalla commissione territoriale circa la meritevolezza di protezione internazionale, anche qualora la stessa facesse riferimento ad una situazione di tratta, non potrebbe ritenersi vincolante per il giudice penale. Diversi sono, infatti, i parametri utilizzati ai fini della protezione internazionale e ai fini della valutazione dello stato di costrizione: ben può darsi il caso di una effettiva vittima di tratta che non abbia mantenuto con i suoi sfruttatori uno stato di soggezione e si sia determinata successivamente o, comunque, con un sufficiente grado di autonomia alla commissione del reato. E sembra potersi sostenere che possano assumere rilievo, per escludere una costrizione rilevante ai sensi dell’art. 54 cod. pen., elementi quali, a titolo esemplificativo: il possesso di documenti, una significativa libertà di circolazione, il possesso di denaro o beni propri, la disponibilità di strumenti di comunicazione, la presenza di una rete di rapporti personali indipendente da quella dello sfruttamento, la partecipazione agli eventuali utili del reato.

Altra questione da tenere in adeguata considerazione – anche se distinta da quella della verifica della sussistenza degli indici di vulnerabilità cui si riferisce la Corte di cassazione – è quella della prova dello stato di necessità e della sua consistenza. Sotto questo profilo, vengono in rilievo le differenze strutturali tra la valutazione operata ai fini della protezione internazionale, che può prendere le mosse anche dal solo narrato del richiedente, e lo standard probatorio del processo penale, in cui l’imputato gode della garanzia delle autoincriminazioni, che esclude un suo obbligo di verità e richiede, perciò, un’approfondita valutazione, da parte del giudice, di ogni sua affermazione tesa a limitare la responsabilità penale o alleggerirne la portata.

Quanto al grado di pericolo che il giudice deve prendere considerazione ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione, la pronuncia si pone in linea con la giurisprudenza di legittimità[19], secondo cui lo stato di necessità determinato dall’altrui minaccia, di cui all’art. 54, comma terzo, cod. pen. (c.d. coazione morale), è configurabile anche nel caso in cui il pericolo attuale di un danno grave alla persona non abbia la natura di pericolo imminente, ma quella di pericolo perdurante, in cui il danno possa verificarsi nei confronti del soggetto minacciato in un futuro prossimo ovvero farsi attendere per un più lungo lasso di tempo. E, in ogni caso, lo stato di necessità sussiste anche quando il pericolo derivi dall’altrui minaccia e si sostanzi in una coazione relativa, tale da limitare la libertà di autodeterminazione del soggetto coartato senza produrre un totale annullamento della sua facoltà volitiva. Sotto questo profilo, assume particolare rilevanza la valutazione che deve essere effettuata in relazione all’impossibilità per l’imputato di rivolgersi alle autorità, per rescindere il nesso di costrizione dal quale era avvinto rispetto all’organizzazione criminale responsabile della sua tratta. Per evitare un abuso del ricorso alla causa di giustificazione, pare necessario, anche in questo caso, che tale valutazione sia condotta sulla base di una complessiva considerazione del quadro istruttorio, non potendo essere ritenute sufficienti a tal fine mere affermazioni difensive, a maggior ragione se provenienti dal difensore e non dall’imputato personalmente.

Un ulteriore aspetto applicativo degno di nota, lasciato aperto dalla sentenza in commento, è rappresentato dalla diversità dei regimi del primo e del terzo comma dell’art. 54 cod. pen.: nel caso del primo comma, la condotta non è penalmente perseguibile; mentre nel caso del terzo comma, l’unico responsabile è chi abbia costretto altri ad agire. Laddove il giudice ritenesse di applicare tale ultima disposizione, a causa dello stato di costrizione dell’imputato vittima di tratta, del reato risponderebbero gli organizzatori della tratta stessa, spesso membri di associazioni a delinquere dedite anche ad altri reati reati-fine, di varia natura. E va osservato, sul punto, che, in mancanza della concreta individuazione di tali soggetti, si realizzerebbe un vuoto di tutela penale, più facilmente accettabile in relazione a fattispecie – come quella in esame – legate agli stupefacenti, ma più difficilmente accettabile nei reati con vittima, magari anch’essa vulnerabile, come quelli legati alla prostituzione o, di nuovo, alla tratta.

3.3. Conclusivamente, dalla sentenza emerge come la Corte di cassazione abbia raccolto coraggiosamente la sfida che le viene dal diritto – e, soprattutto, dalla giurisprudenza – sovranazionale, dando dell’art. 26 della Convenzione di Varsavia un’interpretazione estensiva, nel senso della necessità dell’effettiva considerazione della condizione di costrizione dell’imputato che sia vittima di tratta; costrizione che assai raramente potrà configurarsi come rilevante ai sensi dell’art. 46 cod. pen. e più spesso porrà un problema di quantificazione del suo grado, anche in relazione al test di proporzionalità rispetto alla gravità del reato commesso, richiesto dall’art. 54 cod. pen. È possibile ipotizzare, dunque, che la giurisprudenza richiederà – al fine di verificare la configurabilità dello stato di necessità – un livello di costrizione crescente a seconda del reato per il quale si invoca l’applicazione della scriminante: minore per le condotte in tema di stupefacenti, maggiore per i reati contro la persona, tra cui possono annoverarsi, a titolo esemplificativo, quelli contro la personalità individuale o la libertà personale, oltre allo sfruttamento della prostituzione, anche minorile. Ed è superfluo ricordare che tale valutazione è attività di merito e, perciò, se adeguatamente motivata – proprio alla luce dei criteri-guida individuati nella sentenza in commento – resta sottratta al sindacato di legittimità.


[1] I primi commenti alla sentenza sono di F. Di Muzio, Non punibilità delle vittime di tratta per reati commessi con abuso della posizione di vulnerabilità, nota a Cass. pen., 16 novembre 2023, n. 2319/2024, in Diritto & Giustizia, 2024, fasc. 15, 6, e di G. Fazzeri, Stato di necessità ed interpretazione convenzionalmente conforme: la Corte di cassazione si pronuncia sulla “vittima di tratta”, in Sistema penale, 26 marzo 2024.

[2] «Ciascuna delle Parti stabilisce, in conformità con i principi fondamentali del proprio sistema giuridico nazionale, la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette».

[3] Corte EDU, Rantsev c. Cipro del 7 gennaio 2010, secondo cui la tratta, sia pur non menzionata espressamente nell’art. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (a differenza dell’art. 5, par. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), deve esservi comunque ricompresa, in quanto, al pari della schiavitù, della servitù, del lavoro forzato,comporta uno stretto controllo delle attività delle vittime, i cui movimenti sono spesso limitati, nonché l’uso di violenza e minacce nei confronti delle stesse, che vivono e lavorano in condizioni di indigenza.

[4] La fondamentale Corte EDU, V.C.L. e A.N. c. Regno Unito del 16 febbraio 2021, la quale considera per la prima volta la posizione, anche giudiziaria, delle vittime di tratta, prevedendo che lo Stato violi l’obbligo di adottare le misure di protezione necessarie in favore delle vittime stesse, laddove le persegua penalmente. Cfr. anche Corte EDU, Krachunova c. Bulgaria del 28 novembre 2023, secondo cui «l’articolo 4 della Convenzione, interpretato alla luce del suo oggetto e del suo scopo e in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed efficaci, stabilisce un obbligo positivo da parte degli Stati contraenti di consentire alle vittime della tratta di chiedere un risarcimento ai loro trafficanti per il mancato guadagno».

[5] I cui punti nevralgici sono – per la Cassazione – i seguenti: «a) l’adozione di una nuova e più ampia definizione di tratta di esseri umani nella quale sono inclusi nuovi tipi di sfruttamento tra i quali “lo sfruttamento di attività illecite” (art. 2); b) la definizione di “posizione di vulnerabilità”, per tale intendendosi la condizione in cui può trovarsi la vittima e di cui l’autore del reato può approfittare per porre in essere la condotta (art. 2, comma 2); c) l’imposizione di precisi obblighi agli Stati membri volti a fornire alle vittime adeguata tutela attraverso misure specifiche di rapida identificazione, assistenza e sostegno (art. 11), sin da quando le autorità abbiano un “ragionevole motivo” di ritenere che la persona sia vittima di tratta, per un lasso di tempo congruo».

[6] In particolare, la Cassazione richiama il rapporto di valutazione sull’Italia, pubblicato nel 2019 dal Gruppo di Esperti GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings) ed istituito ai sensi dell’art. 36 della Convenzione di Varsavia: in tale studio sono contenute alcune raccomandazioni rivolte al nostro Paese, tra cui l’adeguata formazione del personale chiamato ad identificare le vittime di tratta e la piena attuazione dell’art. 26 della Convenzione, concernente l’adozione di una espressa causa di non punibilità di tali vittime.

[7] L’interpretazione delle norme deve rispondere all’obbligo di cooperazione ed al principio di coerenza complessiva dell’ordinamento multilivello, come statuito anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, secondo cui il diritto nazionale deve essere applicato perseguendo lo scopo delle direttive e dei regolamenti unionali. L’obbligo richiamato, però, vale anche con riferimento alla Cedu e alle Convenzioni del Consiglio d’Europa, come più volte affermato dalla Corte costituzionale (Corte cost., n. 109 del 2017, che richiama le decisioni n. 68 del 2017 e nn. 276 e 36 del 2016): in particolare, assume rilievo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che si impone quando vi siano precedenti consolidati.

[8] Sez. 1, n. 47712 del 29/09/2022; Sez. 3, n. 15654 del 2/02/2022, in motivazione al punto 5; Sez. 3, n. 40270 del 16/07/2015.

[9] Secondo cui, «In particolare, ciascuna delle Parti adotta le misure legislative o le altre misure necessarie ad identificare le vittime in collaborazione, se del caso, con le altre Parti e con le organizzazioni che svolgono un ruolo di sostegno. Ciascuna delle Parti si assicura che, se le autorità competenti hanno ragionevoli motivi per credere che una persona sia stata vittima della tratta di esseri umani, quella persona non venga allontanata dal proprio territorio finché la procedura d’identificazione, che la vede vittima di un reato previsto dall’articolo 18 della presente Convenzione, sia stata completata dalle autorità competenti e si assicura che la persona riceva l’assistenza di cui all’articolo 12, paragrafi 1 e 2».

[10] Sul punto, A. Peccioli, Commento alla legge 11 agosto 2003, n. 228, in Dir. pen. proc., 1/2004, 36 ss.

[11] Si evidenzia anche che la Corte di appello non si è confrontata con la complessa questione tecnico-giuridica riguardante l’interpretazione dell’art. 54 cod. pen. operata nell’elaborazione giurisprudenziale di legittimità (Sez. 1, n. 47712 del 29/09/2022, Rv. 283785; Sez. 3, n. 15654 del 2/02/2022, Rv. 283168; Sez. 3, n. 40270 del 16/07/2015, Rv. 265039; Sez. 3, n. 19225 del 15/02/2012, Rv. 252620).

[12] Secondo la Corte di cassazione, la verifica cui è tenuto il giudice di merito per stabilire se sussistono i presupposti dell’art. 54 cod. pen., in ordine alla realizzazione del reato in materia di stupefacenti commesso dall’imputata, quale vittima di tratta, deve riguardare, tra l’altro: le sue condizioni personali quando è partita dalla Nigeria e le esperienze vissute durante il viaggio anche nei Paesi di transito (dichiarate o individuate); la situazione di vita in Italia al momento del commesso reato (con specifico riferimento al contesto lavorativo, al rapporto con i connazionali, alle fonti di sostentamento e allo sfruttamento sessuale patito); l’esistenza di un debito, la sua entità e le ragioni per cui era stato contratto; la necessità di saldarlo con specifica preoccupazione nei confronti della propria famiglia; la peculiare condizione di assoggettamento all’altrui volontà; la convinzione di non poter sfuggire al controllo di chi la sfruttava e di non potersi rivolgere alle autorità; il legame tra la natura del pericolo incombente sulla ricorrente ed il reato per cui la stessa è stata sottoposta a processo penale; i rischi cui si sarebbe trovata esposta qualora si fosse rifiutata, con riferimento ad eventuali ritorsioni, anche indirette, da parte dei suoi sfruttatori.

[13] Ricorda sul punto, il Gruppo di lavoro per l’attuazione dei protocolli con la Corte europea dei diritti dell’uomo e con la Corte di giustizia, Rassegna 2020-2021, area penale,158, in Cortedicassazione.it – nell’abstract dedicato alla sentenza, qui parzialmente ripreso –come, con riferimento alla legislazione italiana, il rapporto del gruppo di esperti sulla lotta contro la tratta di esseri umani (GRETA) del Consiglio d’Europa – adottato il 7 dicembre 2018 e pubblicato il 25 gennaio 2019 – ha esortato all’introduzione di una specifica norma attuativa dell’art. 26 della Convenzione di Varsavia, ritenendo insufficiente il ricorso alla scriminante prevista dall’art. 54 c.p. (stato di necessità) e sostanzialmente auspicando, anche per il suo valore simbolico, l’introduzione di una specifica causa di esclusione della punibilità. Più in generale, quanto alla capacità del nostro ordinamento di lasciar emergere con tempestività le condizioni di sfruttamento e tratta, si ricorda l’art. 18 del d.lgs. 286 del 1998, finalizzato a garantire assistenza e protezione alle persone straniere coinvolte.

[14] Tale scelta non è evidentemente obbligata; in fattispecie diverse da quella in esame, si potrebbe fare riferimento, ad esempio, al costringimento fisico di cui all’art. 46 cod. pen., che presuppone una violenza fisica alla quale non si può resistere o sottrarsi.

[15] L’osservazione è di G. Fazzeri, Stato di necessità ed interpretazione convenzionalmente conforme: la Corte di cassazione si pronuncia sulla “vittima di tratta”, in Sistema penale, 26 marzo 2024; si rinvia alla giurisprudenza ivi citata, note 24 e ss.

[16] La selezione dei riferimenti giurisprudenziali è ripresa da Gruppo di lavoro per l’attuazione dei protocolli con la Corte europea dei diritti dell’uomo e con la Corte di giustizia, Rassegna, cit., 159-161.

[17] Sia consentito il richiamo ad A. Andronio, Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Diritti Lavori Mercati, 3/2019, par. 1.

[18] Cass. pen., Sez. 3, n. 3368 del 02/02/2005.

[19] Tra le sentenze citate, la più significativa è Sez. 3, n. 15654 del 02/02/2022, Rv. 283168 – 01.

Sentenza Cass. pen., Sez. 6, 16 novembre 2023 (dep. 18 gennaio 2024), n. 2319, Pres. De Amicis, Rel. Di Nicola Travaglini)

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