Il Fatto

Con la sentenza depositata in data 1 febbraio 2024, n. 4557, la quinta sezione della corte di cassazione ha confermato la condanna del comandante dell’imbarcazione Asso28, in doppia conformità con le decisioni del tribunale e della corte di appello di Napoli[1]. L’imbarcazione operava come  nave di appoggio e supporto alla piattaforma petrolifera Sabratha (di proprietà di società petrolifere, tra cui ENI) e  provvedeva al  salvataggio di 101 migranti alla deriva su un gommone in zona SAR libica[2]. Tra essi vi erano anche minori e donne in stato di gravidanza. Il comandante, dopo aver preso a bordo anche un sedicente ufficiale libico, presente sulla piattaforma, faceva rotta verso Tripoli dove riconsegnava i migranti, facendoli trasferire su una motovedetta libica.

La Cassazione evidenzia come tale condotta abbia determinato il trasferimento dei migranti “in un porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e attesa l’ineffettività del sistema di accoglienza libico e le condizioni inumane e degradanti presenti nei centri di detenzione per i migranti, trattandosi di luoghi ove non sono assicurati la protezione fisica e il rispetto dei diritti fondamentali, come sopra indicato.”

Agli accorti conoscitori delle basi del diritto internazionale umanitario e delle regole di salvataggio in mare la decisione appare una conferma ragionevole di quanto ribadito negli anni, ma l’approccio al tema caratterizzato dalla prevalenza dell’esigenza di controllo e riduzione dei flussi migratori rispetto alla tutela dei diritti umani può determinare reazioni superficiali e scomposte. E’ come se, per decreto o per convenzioni, si possa mutare la realtà, cambiandogli il nomen; come se, per garantire che l’impalcatura delle apparenze non crolli, sia sufficiente ripetere “ bugie con le gambe lunghe”, come nella drammaturgia di Eduardo[3]; come se, per rendere sicuro un porto, fosse miracolosamente bastevole dire che lo è, a dispetto di ogni oggettiva evidenza.

Dunque, ritorna alle cronache il tema dei salvataggi in mare e nuovamente torna ad essere, più che argomento di diritto o di analisi antropologica o geopolitica, motivo di critica aprioristica all’esercizio della giurisdizione. La questione deve essere affrontata compiutamente, oltre che sulla base dei principi di diritto umanitario, alla luce delle previsioni e degli obblighi sanciti nelle tre convenzioni internazionali di riferimento: la convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (c.d. convenzione SOLAS, la cui prima versione nacque dopo la vicenda del “Titanic”, nella sua ultima versione del 1 novembre 1974, recepita con la legge 23 maggio 1980 n. 313) la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (del 10 dicembre 1982, recepita con legge 2 dicembre 1994, n. 689) e la convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, siglata ad Amburgo il 27 aprile 1979, resa esecutiva in Italia dalla legge n. 147/1989 (c.d. convenzione SAR).

L’individuazione dello “Stato sicuro”

Lo sbarco o abbandono arbitrari operati dal comandante della nave è reato di pericolo astratto e l’elemento oggettivo è integrato dallo sbarco dei passeggeri avvenuto arbitrariamente, nel caso in cui dallo sbarco medesimo derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità dei soggetti passivi, dovendo il giudice escludere la punibilità, in ossequio al principio di offensività, solo se manchi del tutto ogni ragionevole possibilità di produzione del danno. Strettamente collegato a questo passaggio di principio della Suprema Corte è la qualificazione di porto (in)sicuro del luogo di sbarco (o di traghettamento su motovedetta libica nelle acque immediatamente prospicienti la costa libica, nel porto di Tripoli, nel caso specifico). Gli interventi operati dalle Corti sovranazionali rappresentano  indicatori rilevanti ai fini della nozione di pericolo, seppure riferiti alle condotte degli Stati membri dell’Unione Europea o contraenti della Convenzione EDU. Parimenti rilevanti sono le informazioni assunte da organismi internazionali, istituzionali, governativi e non governativi[4].

La CGUE si è pronunciata più volte sul tema delle relazioni tra gli Stati con riguardo al pericolo di respingimento (di recente, seconda sezione – 30 novembre 2023, nelle cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21).

Secondo la Corte dell’Aja, il principio della fiducia reciproca impone a ciascuno di tali Stati di ritenere che  tutti gli altri Stati membri rispettino il diritto unionale e i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo. Pertanto, il trattamento riservato ai richiedenti protezione internazionale in ciascuno Stato membro deve conformarsi alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, nonché della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, così come  il divieto di respingimento, diretto e indiretto (art. 9 della direttiva 2013/33/UE) si presume sia rispettato in ciascuno Stato membro.

Tuttavia, qualora le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in uno Stato membro (o in uno Stato terzo) costituiscano motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti e, di conseguenza, un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali, gli Stati membri, ivi compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro  ( verso lo Stato terzo). Sul punto, con riguardo al trasferimento verso lo Stato terzo di provenienza e passando ad altra Corte sovranazionale, è ben nota la sentenza della CEDU (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia 23 febbraio 2012).

Peraltro, nel caso specifico della Asso28, la realtà dei fatti evidenzia un respingimento collettivo che  determina l’allontanamento di un cospicuo  numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le loro argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente (la pronuncia della Suprema Corte richiama la risalente CGUE, Medvedyev ed altri c. Francia, 29 marzo 2010).

La Cassazione ribadisce, con passaggi ineccepibili e dettagliati, che se il recupero avviene in acque internazionali la consegna di tutti i migranti alla guardia libica equivale a violare il principio di non respingimento sancito  dalla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo Status dei rifugiati del 1951.

E’ un fatto notorio che in Libia i migranti siano stabilmente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, a tortura e comunque a situazioni di grave sfruttamento con concreto pericolo per la vita all’interno dei centri di detenzione libici.

Oltre alle plurime denunce documentate provenienti da molte ONG, le organizzazioni internazionali offrono un quadro chiaro. Altrettanto noto è  il rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite del 12 febbraio 2018[5] che analizzava gli sviluppi politici e di sicurezza in Libia e offriva una visione degli sviluppi in tema di situazione umanitaria e rispetto dei diritti umani[6]. Il rapporto attesta il pericolo grave ed attuale per i migranti, non solo in quanto naufraghi del Mediterraneo, ma forse ancora di più in caso di restituzione alla Libia. Un passaggio è particolarmente rilevante con riguardo alla guardia costiera libica:

La missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia ha continuato a documentare la condotta spericolata e violenta da parte della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e / o intercettazioni in mare. Ad esempio, il 6 novembre 2017, i membri della Guardia Costiera hanno picchiato i migranti con una fune e hanno puntato le armi da fuoco nella loro direzione durante un’operazione in mare. La missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia ha anche documentato l’uso di forza eccessiva e illegale da parte dei funzionari del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale. Il 19 novembre, durante un raid su un campo di migranti improvvisato nella zona di Warshafanah, membri dei gruppi di Tajura e Janzur affiliati al Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale hanno aperto il fuoco sui migranti senza fornire alcun preavviso verbale, causando un numero di morti e lesioni.

Il rapporto è stato ripreso puntualmente già dalla sentenza della Corte di Cassazione Sez. VI, 16 dicembre 2021, n. 15869  la quale aveva ritenuto sussistente lo stato di necessità di alcuni naufraghi che pochi giorni prima dell’evento dell’Asso28, con violenza e minaccia, si erano opposti all’ufficiale della nave privata Vos Thalassa che li aveva salvati, per evitare il ritorno, disposto dai centri di coordinamento, in Libia, proprio sulla base della attestata insicurezza della destinazione.

Non vi sono, invero, elementi per ritenere oggi un miglioramento della situazione in Libia; anzi, da allora si sono moltiplicate le risultanze sconfortanti, anche all’interno di indagini condotte da diverse procure della Repubblica. Peraltro, con l’aggravarsi della situazione politica in Tunisia, segnali preoccupanti provengono anche da quel Paese[7] e la catalogazione dello stesso quale Paese sicuro non è del tutto rassicurante, proprio per il predetto principio di effettività.

Gli errori del comandante

Va chiarito che l’obbligo giuridico del soccorso in mare, la cui ingiustificata omissione costituisce reato (art. 1113 cod. nav., 1158 cod. nav.) richiede, per chiunque sia in grado di farlo, di prestare il soccorso necessario ad assistere una persona in pericolo e di dare immediato avviso alle autorità competenti. Certamente i migranti in questione – e particolarmente le donne in gravidanza ed i minori – erano in pericolo. Neanche di loro il comandante si è curato e ciò gli è valsa la condanna per il reato di abbandono.

Il comandante della nave, una volta intervenuto, in qualità di agente dello Stato membro era onerato dell’obbligo di verifica delle condizioni legittimanti il respingimento ovvero di quelle impeditive. Oltre che di una cura speciale per coloro che  – minori e donne gravide – già erano intrinsecamente vulnerabili ed in pericolo.

A questo punto, sono subentrate le altre singolari circostanze evidenziate nella sentenza, che accertano la sussistenza dell’elemento psicologico dei reati in capo al comandante e l’insussistenza dell’invocata causa di giustificazione dell’ordine legittimo.

Non può escludere il dolo del comandante l’essersi affidato agli ordini di un sedicente (mai compiutamente identificato nelle sue funzioni) ufficiale libico presente sulla piattaforma petrolifera. Il mancato contatto del centro di coordinamento libico e tantomeno di quello italiano – solitamente contattato anche in caso di interventi in zona SAR libica (la cui individuazione è peraltro equivoca, poiché una zona SAR libica nonn è mai stata ufficialmente riconosciuta dall’IMO) – è indice di condotta omissiva e sintomatica del dolo, che si è protratta anche dopo la consegna dei migranti alla guardia libica nel porto di Tripoli, allorchè non avveniva alcuna verifica circa il luogo di accoglienza e le condizioni di trattamento dei migranti, neanche di quelli più vulnerabili.

Infine, appare davvero singolare invocare la scriminante dell’ordine legittimo in quanto l’identità e la carica delpresunto ufficiale libico sono rimaste ignote. Fermo restando che  l’ordine poteva essere ritenuto legittimo (e vincolante per il comandante dell’Asso28) solo se proveniente dal centro di coordinamento libico, ovvero da quello di Roma in via sussidiaria, la circostanza aggiunge ulteriori connotazioni negative alla condotta dell’imputato, peraltro di comprovata esperienza e con numerosi anni di navigazione e comando.

Rammenta la Corte che una diversa condotta in capo al comandante era pienamente esigibile. Gli si richiedeva di allertare preventivamente i centri di coordinamento secondo le procedure previste nelle convenzioni, prima ancora che di identificare compiutamente l’ufficiale libico, verificandone la titolarità ad impartire l’ordine.

In conclusione, la pronuncia fornisce un’articolata lettura degli interventi delle Corti sovranazionali, chiarisce la natura effettiva e sostanziale del concetto di “porto sicuro”, sgombera il campo da possibili scorciatoie normative e comportamentali tese a “riconsegnare” i migranti senza rassicurazioni circa il rispetto dei diritti fondamentali, che va verificato dagli Stati membri tramite i propri agenti. In realtà, alla luce dei precedenti giurisprudenziali (il già citato caso della Vos Thalassa per tutti) anche ove si fosse proceduto a contattare i centri di coordinamento, la riconsegna alla guardia costiera libica avrebbe continuato a suscitare qualche dubbio, se non sotto il profilo della responsabilità penale del comandante, sotto quello della responsabilità dello Stato di bandiera della nave che aveva operato il search and rescue.

In sostanza, ciò che non è sicuro non diventa sicuro per un maquillage di coscienze; la pronuncia ci rammenta che la dissimulazione del reale tramite immagini o evocazioni può valere in drammaturgia, ma non nelle tristi vicende del Mediterraneo, dove fluttuano migliaia di vite e dove è in gioco la tutela dei diritti fondamentali delle persone.


[1] Per un approfondimento specifico, si veda M. CARTA, La criminalizzazione del comandante della nave: criticità e prospettive, Roma,  2021.

[2] Si può rammentare che le zone SAR sono ripartite d’ intesa tra gli Stati e la loro identificazione non è legata alle frontiere marittime esistenti e non le pregiudica, tanto che queste zone possono coprire un tratto di mare molto più ampio rispetto a quello in cui lo Stato esercita legittimamente la propria sovranità.

[3] Commedia scritta nel 1946.

[4]. Con decreto del 17 marzo 2023, in attuazione dell’art.  2-bis  del  d.lgs.  28  gennaio 2018, n. 25, sono  considerati  dall’Italia Paesi  di  origine  “sicuri”:  Albania, Algeria,  Bosnia- Erzegovina, Capo Verde, Costa  d’Avorio,  Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo,  Macedonia  del  Nord,  Marocco,  Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia. La Libia non è tra questi. Peraltro, la giurisprudenza sovranazionale a cui rimanda la Corte di Cassazione esclude che lo Stato membro possa ricorrere a presunzioni assolute circa la definizione di “Paese sicuro”, ma richiede di verificare che le condizioni effettive siano tali da garantire la sicurezza per i migranti di non subire trattamenti inumani o degradanti  (cfr. Cass. Sez. I,  11 novembre 2020, n. 25311).

[5] https://unsmil.unmissions.org/report-secretary-general-united-nations-support-mission-libya

[6] cfr. L’intervento umanitario di ONG nel Mediterraneo. Il caso ProActiva Open Arms (altalex.com)

[7] Tunisia: le violazioni dei diritti umani accertate nel 2022 (amnesty.it)

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