Stasera su Rai 2 dopo Tg2 post il documentario sull’omicidio di Giuseppe Salvia , tratto dal libro di Antonio Mattone . Qualche mio pensiero sul libro di Antonio Mattone,  “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, prefazione di Andrea Riccardi, Guida editori, pp. 517, euro 20.

C’è sempre da chiedersi quale sia la giusta traduzione di  Cold Case, espressione che una nota serie televisiva ha importato in Italia e che può tradursi come caso irrisolto, oppure caso a pista fredda, nel senso che le indagini sono risalenti e che nuove acquisizioni investigative possono farle riaprire, o anche  letteralmente caso freddo. Quest’ultima traduzione è quella meno adatta: mai il dolore diviene freddo, anche con il passare degli anni.

Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, fu ucciso il 14 aprile 1981 su mandato di Raffaele Cutolo, mentre percorreva la tangenziale di Napoli rientrando a casa. Antonio Mattone ci introduce nella narrazione partendo da una telefonata, quella che ebbe a ricevere da Claudio, figlio di Salvia, che molti anni dopo  gli chiedeva di partecipare al pranzo di Natale organizzato per i detenuti a Poggioreale,  <nel carcere che oggi porta il nome di mio padre .. mi farebbe piacere parteciparvi, senza però farlo sapere in giro>. 

Mattone fa iniziare da quel contatto, sorprendente per molti versi, per la conversione del dolore di un figlio in solidarietà, il suo interesse per la vicenda di Giuseppe Salvia.

Quello di Mattone è un libro inchiesta, che non si sovrappone a quella giudiziaria, della quale anche narra;  le si muove parallelamente, approfittando del tempo trascorso. Lo scorrere del  Xronos che si trasforma in Xairòs, in un fattore che cambia le condizioni dell’indagine, che consente quaranta anni dopo di incontrare Raffaele Cutolo e il killer Mario Incarnato. Cutolo, il 22 luglio 2019 nel carcere di Parma, confessa il delitto e aggiunge: <lui si accaniva contro di me, non so perché, non lo faceva con gli altri, ma mi faceva sempre perquisire. E per questo gli diedi due schiaffi.>  Cutolo morirà il 17 febbraio 2021 con i suoi segreti.

Incarnato ricorda come il professore avesse chiesto un omicidio eclatante, perché uccidere Salvia in modo pubblico significava rafforzare il suo potere e quello della NCO: Salvia fu ucciso perché <non era corrotto>, aggiunge Incarnato.

Mattone si interroga su una serie di anomalie: perché nonostante l’attacco allo Stato, nella persona di uno dei suoi servitori, l’omicidio Salvia passò sostanzialmente sotto silenzio? La risposta è forse nei legami di Cutolo con esponenti delle Istituzioni? Come si spiega che una intervista di Enzo Biagi alla vedova Salvia non fu mai trasmessa, per sopravvenuti ‘problemi tecnici’? la risposta è forse nel rapimento di Ciro Cirillo, assessore regionale campano, avvenuto appena due settimane dopo l’omicidio di Salvia, e nella successiva trattativa fra apparati dello Stato e Brigate Rosse mediata da Cutolo, oggetto della inchiesta del giudice Carlo Alemi?

E’ una indagine, quella di Mattone, che prova a dare qualche risposta. Si svolge in modo accurato su fonti testimoniali e documentali, è tesa ad accertare chi fosse realmente Giuseppe Salvia, quali le sue radici, quale la ragione del suo impegno, come maturò il senso del dovere che lo avrebbe condotto alla morte, per aver adempiuto alle funzioni pubbliche affidategli con disciplina e onore, come prescrive l’art. 54 della Costituzione. Salvia aveva gestito da uomo dello Stato il padiglione di Poggioreale destinato a camorristi e terroristi ed era ben consapevole del rischio che correva, tanto da avere chiesto il trasferimento ad altra sede.

Mattone, senza sconti, indaga l’animo dei protagonisti, da Salvia a Incarnato, che poi ebbe a collaborare con la giustizia, per giungere ad analizzare la società italiana degli anni ’80, a descrivere il nostro Paese e la città di Napoli nel bel mezzo della guerra fra la NCO e Nuova Famiglia, intrecciata con la presenza di Nar, Prima Linea, BR, terrorismo nero. Indaga Mattone i vissuti personali e sociali degli autori del delitto, le terribili vicende che misero a ferro e fuoco Napoli e la Campania, ma anche le connivenze a Roma, gli appoggi possibili da parte di uomini delle Istituzioni, quelle stesse Istituzioni delle quali faceva parte Giuseppe Salvia e per le quali trovò la morte.

E’ certo che Salvia si opponesse a Cutolo. E il suo potere e la rete criminale della NCO Cutolo li costruiva in carcere, a Poggioreale, facendo proselitismo fra i detenuti, garantendo loro protezione dentro e fuori i penitenziari, nonché sostegno economico alle famiglie. Contrastare Cutolo, come fece Salvia procedendo alla perquisizione personale nonostante l’opposizione del “professore”,  tanto da essere schiaffeggiato, significava incrinarne il potere, la sua leadership dentro e fuori Poggioreale, primazia accresciuta dai tanti omicidi che si consumarono in quel carcere per mano di esponenti della NCO, anche approfittando dei due terremoti del novembre ‘80 e del febbraio ’81.

Salvia era deciso ad applicare le regole, con Cutolo e i suoi accoliti, come anche con i terroristi, senza recedere. Anzi tutelando gli altri detenuti, quelli ‘comuni’, che erano vittime del potere camorrista in carcere.  Aveva fatto proprio lo spirito della riforma Gozzini, la scelta di un cambio di passo dello Stato verso i detenuti: differenziare il trattamento per reinserire. Aveva colto e attuava lo spirito costituzionale, quello sul senso della pena che deve anche offrire occasioni per ripartire. Sul quotidiano  Il Mattino dopo l’omicidio si legge della confidenza che Salvia aveva fatto in passato al giornalista: a Poggioreale, in quelle condizioni di sovraffollamento e di tensioni, era impossibile pensare a qualsiasi reinserimento sociale dei detenuti.  

Ma chi era Salvia? Mattone ne descrive le origini capresi, la frequentazione del liceo dei Barnabiti nel quartiere della Pignasecca a Napoli, tutto ricostruito grazie alle inedite testimonianze di compagni di giochi, di scuola, di università, colleghi e agenti della polizia penitenziaria, oltre che di Immacolata Troianiello, la moglie del vicedirettore. Non è una ricostruzione ridondante, anzi, è un modo per conoscere Salvia, serio, per bene, normale, ironico, scoprendo le ragioni dell’impegno, la grande umanità e al tempo stesso altrettanta decisa fermezza nel rispetto delle regole, sapendo distinguere i camorristi e i terroristi dai delinquenti comuni, alcuni dei quali parteciparono alle esequie del vicedirettore, mentre altri gli scrissero, riservatamente, a proposito delle intenzioni di camorristi detenuti che avevano la disponibilità di coltelli e di armi.  

Mattone – forte della sua esperienza del mondo penitenziario –  ricostruisce la storia del carcere di Poggioreale seguendo la vicenda di Salvia: è uno spaccato oggettivo che consente anche di rinvenire prove della  autorevolezza, competenza e dedizione di Salvia, caratteristiche che lo rendevano il direttore di fatto, perché si assumeva la responsabilità delle questioni più spinose e pericolose, anche spettanti ad altri, che invece si sottraevano.

 “La vendetta del boss” ci riporta alla presenza dei terroristi nel carcere napoletano. Salvia era chiamato a gestire le tensioni sociali, politiche e criminali degli anni ’70-’80, che si vivevano in città a Napoli e che si ripresentavano fra le mura della casa circondariale. E che il ‘pianeta carcere’ fosse nel mirino dei terroristi lo si capiva dai precedenti omicidi di Girolamo Tartaglione e Alfredo Paolella, il primo magistrato, capo della Direzione Affari Penali del Ministero di Giustizia e il secondo criminologo, anche componente del Centro di Osservazione Criminologico del quale faceva parte Giuseppe Salvia.  Vi era anche stato il rapimento di Giovanni D’Urso, magistrato a capo della direzione del Ministero che si occupava proprio dei trasferimenti dei detenuti, misura cruciale e unica reazione possibile dopo le rivolte, gli omicidi, le devastazioni nel carcere di Poggioreale, trasferimenti ai quali Cutolo si opponeva. Il nome di Salvia fu trovato su un appunto rinvenuto a Ercolano, una lista degli ‘obiettivi’, come anche fu oggetto di un comunicato letto dal brigatista Seghetti nel corso di un processo a Napoli: Salvia era accusato di aver impedito ai terroristi detenuti di svolgere l’opera di proselitismo ideologico verso i detenuti comuni. Era quindi anche nel mirino dei terroristi, oltre che di Cutolo.

Cutolo, dopo aver subito la perquisizione ed aver reagito schiaffeggiando Salvia, provò a riagganciare invano i rapporti con il vice direttore, lo sfidò in altre occasioni, infine ne decretò la morte. E Salvia, dal canto suo, non eseguì un ordine di trasferimento di Cutolo, disposto con un fonogramma falso, sintomo delle coperture nelle istituzioni di cui Cutolo godeva: Mattone narra di un poliziotto infedele che operava presso il Ministero della Giustizia e che aveva trasferito di propria iniziativa altri pericolosi detenuti.

Questo e molto altro si rinviene ne “La vendetta del boss”, che ci fa guardare al passato per comprendere il presente e il futuro. Certo, che Salvia fosse nel mirino di terroristi e di Cutolo contemporaneamente fa sorgere il sospetto che l’omicidio non fosse solo un delitto di camorra. Ma si tratta di un sospetto che resta tale anche se, di fatto, vi era certamente una convergenza di interessi. Ma “La vendetta del boss” offre anche altre suggestioni attuali.

A Poggioreale fu realizzato, presente Cutolo, un altare con l’immagine del “professore”. Il culto per la personalità verso il capo della NCO, fatte le debite proporzioni, non è diverso dal mito di Emanuele Sibillo, giovanissimo capo della ‘paranza dei bambini’: per Sibillo è stata trasformata, dopo la morte del giovane boss, una edicola votiva in un luogo di culto al centro storico di Napoli. Vittime di estorsione venivano lì convocate e futuri adepti lì convenivano per ossequiare il baby boss. E colpisce anche il linguaggio: Cutolo si rivolse con uno state senza pensiero – espressione ormai di moda grazie alla serie Gomorra – al giovane avvocato di un altro imputato che, divenuto difensore di Cutolo,  è tra le fonti della indagine di Mattone.

Fanno riflettere le ricostruite anomalie in occasione dell’interrogatorio di Cutolo all’Asinara da parte del giudice istruttore. Il giudice dovette insistere non poco per restare solo con l’imputato e i suoi difensori, come prescrive il codice, ordinando a probabili esponenti dei servizi segreti di allontanarsi. Si temeva che Cutolo parlasse del sequestro Cirillo. L’indipendenza della magistratura, ora come allora, serve alla democrazia e di questa i magistrati, in primo luogo, devono essere responsabili custodi.

Il problema del sovraffollamento che affliggeva Poggioreale permane, anche in questo caso con le dovute differenze e pur prendendo atto di miglioramenti innegabili, grazie alla progressiva metabolizzazione della riforma penitenziaria, che Salvia iniziò ad attuare: la differenziazione del trattamento dei detenuti, l’impegno di tanti funzionari, poliziotti e educatori, i tentativi legislativi, mai sufficienti, di decongestionare il carcere limitandolo ai casi di necessità. Ma tutto questo non basta. In gioco ora come allora è il senso costituzionale della pena: depenalizzare e assegnare a una pubblica amministrazione efficiente il compito di punire, decongestionando il processo penale,  piuttosto che eliminarlo con la tagliola della improcedibilità; introdurre pene alternative alla reclusione in carcere, anche la detenzione domiciliare da comminare già con la sentenza, il che richiederebbe una capacità di guardare oltre il consenso di breve periodo e una forte progettualità politica  che nessun governo ha finora avuto, liberandosi da logiche da populismo penale; investire risorse umane nel recupero e nella prevenzione e nei percorsi di reinserimento, assumendo personale specializzato, fondamentale perchè le misure alternative al carcere, la messa alla prova e i percorsi di giustizia riparativa – che ora si vanno giustamente a incentivare –  siano istituti seri e non di facciata. Ne trarrebbe giovamento la coesione sociale, i maggiori costi della repressione si sposterebbero sulla prevenzione e ridurrebbero il costo sociale e morale del delinquere, si ridurrebbe il pericolo di recidiva.  

Ultimo spunto. Salvia ci lascia una eredità non da poco, che merita di essere condivisa da ogni cittadino, anche non impegnato nel mondo della giustizia. Ad un collega Salvia disse: <non pensare che il sacrificio di oggi porti immediatamente frutti, siamo servitori dello Stato, non possiamo fare gli impiegati>.  E’ una chiara critica a una logica solo burocratica, quella del fare il minimo indispensabile e del tenere le ‘carte a posto, quella che rinuncia alla assunzione piena delle responsabilità che ogni funzione  impone. Nel coraggio, nella sua competenza, nella generosità e nel senso di comunità dimostrate, in un contesto difficilissimo, dal vicedirettore Salvia sta la speranza di una rinascita, non solo economica, ma anche morale di questo Paese. Perché il sacrificio non sia vano non dobbiamo dimenticarci di Giuseppe Salvia. E il libro di Mattone ci aiuta a non farlo.    

(*) articolo già pubblicato sul blog dell’Espresso curato da Tano Grasso            

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