1. La separazione delle carriere: l’elevazione a problema sistemico di rari episodi patologici – 2. Le nuove valutazioni di professionalità: le pagelle del magistrato e le gravi anomalie nei successivi gradi di giudizio – 3. Conclusioni
Negli ultimi 30 anni della storia d’Italia i rapporti tra politica e magistratura sono stati costantemente improntanti a periodiche e costanti tensioni, sorte originariamente nel periodo dell’inchiesta “Mani pulite” e poi protrattesi anche a successive esperienze di governo.
Tali tensioni sono sfociate più volte in tentativi di approvazione di riforme in grado di ridurre, sostanzialmente, l’autonomia decisionale che costituzionalmente spetta alla magistratura, complice altresì l’opinione non positiva che buona fetta della popolazione nutre nei confronti dei giudici anche a causa di alcuni recenti accadimenti che hanno riempito le pagine dei giornali e non per vicende che meritano encomio o condivisione.
Sennonché, tali costanti tensioni hanno visto da ultimo l’adozione di norme che prevederanno maggiore severità nella valutazione dell’operato del magistrato; mentre, attualmente, impazza il dibattito sull’opportunità di concretizzare una separazione delle carriere tra organi giudicanti e organi inquirenti, riprendendo un tema caro già all’esperienza dei diversi governi Berlusconi ed oggi nuovamente riproposta.
Mediante tale articolo, quindi, lo scrivente intende sviluppare alcune riflessioni sull’una e sull’altra questione, analizzando gli aspetti che appaiono essere di maggiore interesse ed attualità.
1. La separazione delle carriere: l’elevazione a problema sistemico di rari episodi patologici
Il progetto della separazione delle carriere mira, come è noto, a distinguere nettamente i percorsi formativi e professionali degli organi giudicanti e requirenti, rendendo diverso sia il metodo di accesso con concorsi distinti e sottoponendo gli esponenti dell’una e dell’altra categoria al governo di due distinti organi, diversamente da quanto accade oggi allorché entrambe sono sottoposte al governo del Consiglio Superiore della Magistratura.
E’ evidente come tale proposta di legge costituzionale discenda da un sentimento di profonda sfiducia nella capacità del magistrato di giudicare serenamente quando innanzi a sé si ponga un collega con il quale ha magari condiviso un percorso di studi, una qualsivoglia esperienza di natura professionale o con il medesimo intrattenga rapporti di cordialità e conoscenza.
In primo luogo, vi è da dire che reputo, alla luce della mia fin qui breve esperienza negli uffici giudiziari, assolutamente non condivisibile il presupposto su cui tale progetto di riforma si basa.
Infatti, vi è da chiedersi se e quanto sia verosimile che un giudice possa esercitare in maniera così tanto irresponsabile il potere che è a lui costituzionalmente attribuito per il sol fatto che ha condiviso con il pubblico ministero il percorso formativo finalizzato al conseguimento dell’idoneità al concorso in magistratura o se il medesimo possa farsi anche minimante influenzare nella difficile scelta se condannare un cittadino alla reclusione in base ai rapporti più o meno buoni che egli intrattiene con l’organo requirente.
E’ evidente come una tale situazione, se fosse veritiera e diffusa come una parte delle forze politiche ritengono, dovrebbe ritenersi causa di una rivisitazione non solo della strutturazione delle carriere tra giudicanti e requirenti ma anche dell’intero assetto costituzionale, di fatto individuando nel giudice un soggetto che nella prassi finisce con lo svendere la propria rilevantissima funzione sull’altare di rapporti di più o meno intensa conoscenza e cordialità instaurati con i colleghi.
Mi pare, di contro, ben più rispondente a realtà la tesi per la quale, se davvero accadimenti di tal tipo si sono verificati o continuano a verificarsi sul territorio nazionale, essi vadano ascritti a singoli episodi patologici che non possano però essere assunti a paradigma generale tale da meritare una soluzione così drastica quale quella della separazione delle carriere.
In altri termini: se vi sono stati, nel corso del tempo, giudici o pubblici ministeri che hanno attuato comportamenti di indebita vicinanza nella decisione di uno o più procedimenti o hanno orientato le proprie decisioni sulla base di logiche e valutazioni di vicinanza personale ad un collega, essi di certo dovranno essere per tali episodi sanzionati sotto il profilo quantomeno disciplinare; tuttavia, ben diverso è individuare ciò quale problema che attiene e riguarda l’interezza o la gran parte della categoria perché, lo si ribadisce, qualora così fosse la situazione meriterebbe risposte ben più profonde e penetranti della mera separazione delle carriere.
Mi pare, peraltro, che tale sentimento di profonda sfiducia nei confronti della magistratura italiana sia altresì fomentato anche dall’atteggiamento assunto da parte degli organi di informazione e dai commenti negativi veicolati per il tramite degli ormai utilizzatissimi social network.
Sotto tale aspetto, va ricordato come a talune vicende che hanno colpito negativamente la magistratura e che hanno di questa restituito un’immagine negativa (probabilmente, ben peggiore di ciò che realmente è la vita quotidiana all’interno degli uffici giudiziari) siano stati dedicati, in maniera anche condivisibile stante l’interesse pubblico alla notizia, titoli a nove colonne; mentre la stessa attenzione non è stata dedicata, per ovvie ragioni, alle migliaia e migliaia di colleghi che svolgono quotidianamente la funzione con estremo impegno e profonda onestà intellettuale.
Tale schema, che per la verità nel nostro Paese non riguarda solo i giudici ma anche gli esponenti della politica e dei vertici delle amministrazioni pubbliche, in tutta evidenza restituisce nella popolazione l’idea, evidentemente fallace, per la quale la condotta o il malcostume di uno o più singoli sia poi quello della totalità o della grande maggioranza della categoria alla quale questi appartengono, quando sovente così non è.
A tale senso di profonda sfiducia la classe politica vuole, quindi, dare una risposta netta, tranciante, intensa: il problema è che bisogna chiedersi quanto tale riforma sia condivisibile e quanto, invece, serva a dare una risposta soddisfacente per una fetta sempre più ampia di elettorato che nutre scarsa fiducia nei soggetti investiti dell’esercizio del potere giurisdizionale.
Ad esempio, l’ampliamento della distanza processuale tra giudice e pubblico ministero avrebbe potuto essere perseguito, qualora se ne fossero considerati condivisibili i presupposti, mediante altri strumenti, quali ad esempio la previsione di un obbligo di astensione in caso di presenza in udienza di pubblico ministero con il quale il giudice vanti rapporti di consolidata conoscenza (in maniera, di fatto, simile a quanto oggi accade con gli avvocati) o con la previsione di apposite fattispecie disciplinari a carico del giudice e del pubblico ministero che indebitamente si trovino a parlare di procedimenti da loro trattati al di fuori delle strette sedi istituzionali.
Sennonché, nessuna di tali possibili ipotesi alternative è stata mai vagliata né seriamente presa in considerazione da alcuna forza politica condivide e sostiene la tesi degli effetti positivi che porterebbe con sé la riforma della separazione delle carriere, così facendo sorgere seri dubbi se questa davvero miri a risolvere i problemi di indebita pretesa vicinanza tra giudice e pubblico ministero oppure serva, almeno come fine anche non primario, a dare una risposta politicamente significativa per soddisfare un elettorato sempre maggiormente critico nei confronti di giudici e pubblici ministeri.
Peraltro, l’ipotesi di inserimento di nuove cause di astensione obbligatoria o di nuove fattispecie disciplinari, per come sopra superficialmente delineate, sarebbe non solo più semplice perché attuabile con legge ordinaria e non con legge costituzionale ma avrebbe, a parere del sottoscritto, anche una portata deterrente ben più efficace dell’esser il giudice o il pubblico ministero sottoposti formalmente a due diversi organi di governo; inoltre, produrrebbe effetti immediati di distanziamento processuale tra le parti, a differenza della separazione delle carriere che produrrebbe di fatto un’ampia innovazione culturale che, come tutte le innovazioni di tale portata, necessiterebbe almeno di alcuni anni per essere efficacemente metabolizzata.
Inoltre, tali strade alternative permetterebbero di dare adeguata risposta sanzionatoria ai singoli casi patologici che dovessero verificarsi, senza che ciò finisca con il coinvolgere ingiustamente la totalità della categoria; e, altresì, farebbe venir meno qualsiasi dubbio (sollevato da più voci anche in sede del recente congresso ANM tenutosi a Palermo) in ordine alla possibile perdita di autonomia in capo al pubblico ministero, nel caso in cui la riforma della separazione delle carriere dovesse venire effettivamente alla luce.
In sintesi, quindi, e per concludere vi è il serio dubbio che pochi sparsi casi patologici possano essere elevati dall’attuale classe di governo a problema endemico e sistemico della categoria dei magistrati, ancorché non vi siano elementi significativi idonei a suffragare solidamente una simile tesi.
Infatti, pur dovendosi trovare condivisibile sanzionare chi commetta leggerezze o sbavature legate a eventuali rapporti particolarmente stretti con colleghi che svolgono funzioni diverse dalle proprie, parimenti non condivisibile mi pare l’attuazione di riforme con esiti penalizzanti non tanto per gli attuali esponenti del potere giurisdizionale quanto, più generalmente per la tenuta democratica dell’intero Paese, la quale si fonda (e deve necessariamente fondarsi) per larga parte sui valori di autonomia e indipendenza del potere giudiziario.
2. Le nuove valutazioni di professionalità: le pagelle del magistrato e le gravi anomalie nei successivi gradi di giudizio
In relazione, poi, all’ulteriore aspetto legato alle nuove valutazioni di professionalità, come previste a seguito della riforma attuata mediante adozione del d.lgs. n. 44 del 28 marzo 2024, vanno effettuate una serie di riflessioni.
In primo luogo, pare che le novità di maggior momento siano rappresentate dalla previsione delle c.d. pagelle (cioè, quelle che permetteranno di distinguere il lavoro del magistrato con giudizi di discreto, buono, ottimo) e la particolare attenzione che verrà rivolta alle c.d. gravi anomalie legate all’esito dei provvedimenti adottati dal magistrato nelle successive fasi di giudizio.
Con riguardo alla previsione delle pagelle, mi pare in verità condivisibile la volontà di procedere a una forma di graduazione del lavoro svolto per evitare un’indebita equiparazione e uniformazione di tutti i magistrati sul territorio nazionale a prescindere dall’impegno o dalla qualità del loro operato.
Sennonché, i principali dubbi sorgono sotto il profilo strettamente esecutivo.
In primo luogo, il nuovo art. 11-ter del d.lgs. 160/2006 prevede che le pagelle debbano essere adottate esclusivamente “con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro”; giacché risulta evidente come una tale locuzione appaia far riferimento più propriamente, se non esclusivamente, a una valutazione del magistrato in senso produttivistico (cioè, sotto il profilo della quantità e tempestività dei provvedimenti adottati) e non nell’accezione che probabilmente sarebbe più rilevante, cioè quella legata alla qualità del lavoro svolto.
Secondariamente, il dubbio che mi pare esser maggiormente rilevante è quello legato alle evidenti difficoltà di assicurare, non sotto il profilo formale ma soprattutto su quello sostanziale, un giudizio uniforme su tutto il territorio nazionale.
Così, per farla breve, il giudice che si trova a operare in Tribunali con ruoli ordinati, senza sovraccarichi di lavoro, con forme organizzative che permettono un corretto e efficiente esercizio delle proprie funzioni, non avrà problemi a ottenere l’”ottimo”; mentre il giudice che si trova in Tribunali di frontiera, con problemi di carenza di organico, necessità di sostituire colleghi assenti, ruoli sovraccarichi e quant’altro si possa immaginare, a parità di impegno con il collega che ha la “fortuna” di operare altrove, farà ben più fatica di quest’ultimo a ottenere un risultato positivo.
Preso atto del problema, a mio avviso sarà dunque questa la sfida di più elevata complessità, cioè quella appunto di garantire modalità e presupposti di rilascio della pagella idonei a valorizzare l’impegno del magistrato tenendo in considerazione in maniera significativa il contesto in cui è chiamato a operare e garantendo quindi, nei fatti, effettiva uniformità di giudizio.
Peraltro, mentre il momento della valutazione di professionalità incide direttamente sulla carriera del singolo magistrato, tale questione avrà poi a lungo termine ricadute sulla qualità dell’intera categoria, allorquando cioè le pagelle conseguite al termine di ogni quadriennio avranno un peso specifico tutt’altro che irrilevante in sede di concorsi per posizioni semidirettive o direttive; sarà fondamentale quindi, anche in ordine a tale aspetto, che il C.S.M. adotti le relative delibere attenzionando tale aspetto e prevedendo dei criteri quanto più oggettivi possibili in base ai quali verrà rilasciata la c.d. “pagella”.
Passando, poi, al profilo delle gravi anomalie, la novella afferma testualmente che “Possono costituire indice di grave anomalia ai fini del periodo precedente il rigetto delle richieste avanzate dal magistrato o la riforma e l’annullamento delle decisioni per abnormità, mancanza di motivazione, ignoranza o negligenza nell’applicazione della legge, travisamento manifesto del fatto, mancata valutazione di prove decisive, quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità ovvero quando il rigetto, la riforma o l’annullamento assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”.
Ora, tralasciando tutte le fattispecie condivisibili che costituiscono già fonte di responsabilità civile e disciplinare per il magistrato (abnormità, mancanza di motivazione, ignoranza o negligenza nell’applicazione della legge, travisamento manifesto del fatto, mancata valutazione di prove decisive), va focalizzata l’attenzione sugli ulteriori due aspetti che posso integrare il concetto di grave anomalia e cioè:
– quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità;
– quando il rigetto, la riforma o l’annullamento assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato.
In riferimento alla prima delle due ipotesi (quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in sé stesse di particolare gravità) mi pare essere tale previsione quella fonte di maggiori preoccupazioni per la tenuta del sistema giudiziario nel suo complesso considerato.
In primo luogo, perché tale giudizio di fatto pone in pericolo l’intera carriera di un magistrato quand’anche a fronte di un percorso professionale fatto di costante impegno e qualità nella redazione dei provvedimenti, egli ne emetta anche solo uno che, si badi bene, non per forza dev’essere oggettivamente pessimo ma basta che come pessimo sia valutato dal successivo grado di giudizio (dovendosi quindi chiedere sulla base di cosa si asserisce che il successivo grado di giudizio debba avere necessariamente ragione e quello del grado precedente necessariamente torto; ricordando che l’anzianità di servizio e lo svolgimento di funzioni di gradi superiori sicuramente costituisco canoni di valutazione dell’abilità del magistrato ma di certo non gli unici).
Successivamente, perché tale previsione pone una sostanziale disparità tra giudici dei gradi successivi e quelli dei gradi precedenti, così realizzandosi una sorta di diseguaglianza tra “alta magistratura” e “bassa magistratura” che per nulla rispecchia il disegno elaborato dal legislatore costituente, il quale all’art. 107, comma 3, Cost. ha stabilito espressamente la parità tra tutti i magistrati di ogni ordine e grado, affermando testualmente che “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.”.
Infine, perché di fatto pone questo genere di vaglio unicamente a carico dei giudici di merito, non essendo sottoposti quelli di legittimità ad impugnazione innanzi a giudici di grado superiore (salvi i rari casi di ricorso innanzi alle corti sovranazionali, con lesione, anche sotto tale profilo, del summenzionato art. 107, comma 3, Cost.).
Va, poi, posta l’attenzione sull’altro aspetto che può comportare la sussistenza di c.d. gravi anomalie e cioè quello relativo alle ipotesi in cui “il rigetto, la riforma o l’annullamento assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”.
In primo luogo, va subito sgomberato il campo da un equivoco di fondo: non ogni rigetto o annullamento costituiscono errore colpevole o rimproverabile del magistrato.
Esistono annullamenti o rigetti che effettivamente possono trarre la propria causa in sviste, disattenzioni o imperizia; ma a fronte di questi casi, tantissime ipotesi di annullamenti o rigetti possono dipendere da cause del tutto fisiologiche in ambito giudiziario quali la sussistenza di un dibattito giurisprudenziale ancora in atto, l’adesione da parte dei giudici di grado superiore a un filone diverso da quello cui i giudici del grado inferiore hanno ritenuto di aderire ed ancora, nei casi di discovery successiva all’adozione del provvedimento, l’ipotesi di prove che, ancorché non sopravvenute, non erano state acquisite al fascicolo di indagine (dovendosi, in tali casi, di fatto rimproverare a pubblici ministeri o G.I.P. la gravissima colpa di non essere stati onniscienti!).
Quindi, mi pare doveroso sottolineare come la prima grande difficoltà di una giusta applicazione della nuova normativa sia quella di capire quando un annullamento sia disceso da errore e quando no: giacché adottando un criterio solo formale, sarà giudicato peggio un giudice cui vengono annullati un numero X di provvedimenti perché si era attestato sulla tesi A mentre poi la Corte di Cassazione, all’esito di un dibattito all’interno della stessa instauratosi, decida ex post (cioè, dopo che il magistrato di merito ha adottato i provvedimenti quando il dibattito era ancora in corso) di attestarsi sulla tesi B rispetto a un giudice che formalmente ha ricevuto meno annullamenti o rigetti ma ciò si sia verificato in presenza di un quadro giurisprudenziale pacifico e uniforme ormai da tempo o su una situazione di fatto priva di incertezza alcuna in ordine alla sua ricostruzione storica.
Successivamente, tale novità normativa di fatto rischia di appiattire grandemente il dibattito giurisprudenziale, poiché a fronte di una parte della categoria che si assumerà il rischio di distaccarsi dalla giurisprudenza maggioritaria (perché, ad esempio, le specificità del caso concreto lo richieda) e così di subire potenziale nocumento sulla propria carriera (andando incontro all’evidente rischio di un range di annullamenti o rigetti più elevato), ve ne sarà un’altra che si adagerà sulla giurisprudenza maggiormente condivisibile e la applicherà senza soffermarsi troppo sul riflettere se la stessa sia quella maggiormente adatta a far giustizia in quello specifico caso.
Beninteso, va chiarito un punto: non sempre la decisione formale giusta sotto il profilo giudiziario (cioè, inappuntabile sotto il profilo della motivazione e che passa a pieni voti il vaglio dei gradi superiori) è quella idonea a far giustizia nel caso di specie (che è quella giustizia “sostanziale” che i Tribunali, pur nell’ovvio rispetto delle norme dell’ordinamento e delle relative coordinate giurisprudenziali, dovrebbero quanto più possibile assicurare).
Anzi, molto spesso, le milioni di ipotesi di casi concreti che possono verificarsi nella vita quotidiana richiedono un lavoro di adattamento delle norme e della giurisprudenza; ed anzi è proprio tale lavoro di continuo adattamento dell’ordinamento alle pieghe del caso concreto che costituisce il cuore del lavoro del magistrato.
Infatti, se il nostro lavoro si limitasse all’analisi e ricostruzione un fatto storico cui meccanicamente va applicata la massima di riferimento consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, la nostra professione potrebbe comodamente, e senza grandi negatività, essere affidata all’intelligenza artificiale della quale tanto si dibatte in questo periodo storico.
Per le ragioni fin qui esposte, indefettibile si pone l’esigenza di limitare valutazioni negative o non positive in ordine al parametro della “capacità” (sul quale le gravi anomalie andranno a influire) solo a casi davvero patologici, in cui l’annullamento o rigetto costituisce una prassi frequente e costante nel lavoro del magistrato e non riguardi, di contro, singoli fascicoli o una serie limitata di provvedimenti e quando, soprattutto, esso sia davvero frutto di un errore nello svolgimento della professione e non, di contro, legato agli aspetti fisiologici che sono già sopra stati evidenziati.
In tal senso, maggiormente condivisibile mi pareva la locuzione ipotizzata nella bozza di decreto elaborata nel mese di agosto 2023, nel corpo della quale era stato previsto che le gravi anomalie sarebbero state rilevanti solo se avessero avuto caratteri di “marcata preponderanza” rispetto al totale degli affari trattati dal magistrato; eliminata tale locuzione nel decreto da ultimo approvato, toccherà al C.S.M. sanare il vulnus legato alla mancata previsione, nel predetto testo normativo, di qualsivoglia appiglio di tipo quantitativo al quale agganciare la valutazione di tali situazioni.
Comunque, messe da parte le valutazioni in ordine alle potenziali problematiche che tale riforma potrà comportare, il C.S.M. entro il prossimo 20 luglio 2024 dovrà adottare la circolare che stabilirà in concreto come dovranno essere calcolate tali gravi anomalie legate agli annullamenti o rigetti nei gradi successivi di giudizio.
In ordine a tali profili, condivisibile mi pare l’idea di indicare in via percentuale una soglia oltre la quale tali patologie del provvedimento (o, per quanto sopra detto, presunte tali) divengano gravi.
Sennonché, altrettanto condivisibile mi sembra la graduazione di tali soglie percentuali a seconda della funzione svolta dal singolo magistrato: giacché è di immediata evidenza come il pubblico ministero che dovrà affrontare, ad esempio in una richiesta cautelare, prima i rigetti del G.I.P., poi gli eventuali annullamenti in sede di riesame e poi ancora quelli in sede di legittimità, avrà un quantum di annullamenti o rigetti ben più elevato dei giudici del Tribunale del Riesame che possono vedersi annullati i propri provvedimenti a seguito di ricorso per Cassazione esperibile solo per vizi di legittimità.
Alla luce di quanto detto, mi pare più che opportuna una graduazione delle percentuali di annullamenti o rigetti che tenga in considerazione la specifica funzione svolta (in breve: una percentuale X che per un pubblico ministero sarebbe fisiologica, potrebbe divenire patologica per un giudice di primo grado ed ancora di più per quello di secondo grado – senza considerare che poi andrebbe parametrato il dato anche a seconda dell’appartenenza di un giudice al mondo del civile o del penale con tutte le differenze che a tali funzioni si ricollegano).
Ancora, andrà chiarito in che modo dovranno essere calcolati gli annullamenti o i rigetti in caso di provvedimenti collegiali: a tal proposito, a fronte di una tesi per la quale essi andrebbero considerati solo con riguardo alla figura del relatore/estensore, ben più convincente mi pare l’ipotesi contraria, cioè quella di effettuare un tale giudizio avuto riguardo all’intero collegio ed imputando, eventualmente, l’annullamento a tutti e tre i magistrati che lo compongono (anche perché, a ragionare diversamente, si creerebbe un doppio binario tra il potere del componente del collegio di votare contro la soluzione proposta dal relatore e l’assenza di conseguenze negativa in capo al medesimo componente in caso di successivo annullamento; inoltre, una previsione diversa andrebbe contro ai principi dettati in materia di responsabilità patrimoniale e disciplinare che, in casi di tal tipo, investono in modo condivisibile l’intero collegio e non il singolo relatore/estensore).
Ancora, dubbi sorgono dalla necessità di effettuare un’interpretazione condivisibile della apparente discrasia che si pone tra l’art. 11, comma 2, lett. a, d.lgs. 160/2006 a tenore del quale le gravi anomalie devono essere considerate in relazione al complesso dei provvedimenti depositati dal magistrato (“… assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”) e il precedente art. 10-bis, comma 2, lett. c, del medesimo decreto, il quale in tema di tenuta del fascicolo del magistrato stabilisce che all’interno di questo debbano confluire provvedimenti a campione anche con riguardo a quelli “relativi all’esito degli affari trattati nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio”.
Orbene, da una prima lettura la discrasia appare evidente, giacché se l’art. 11 contempla la necessità di valutare le gravi anomalie in relazione al complesso degli affari del magistrato non si vede come il medesimo parametro possa poi essere effettuato mediante inserimento a campione dei provvedimenti da cui si evinca l’esito degli affari trattati nei successivi gradi di giudizio, come vorrebbe l’art. 10-bis.
Sennonché, mi sembra che un’interpretazione sistematica imponga la seguente distinzione:
– per quanto riguarda il profilo delle gravi anomalie statistiche, cioè quelle che impattano sul numero eventualmente elevato di annullamenti o rigetti nei gradi successivi, questi non potranno che essere calcolati sul totale dei provvedimenti depositati dal magistrato (giacché, a ragionar diversamente, diverrebbe una vera e propria roulette in cui la valutazione dipende dal periodo più o meno fortunato che viene preso in considerazione per l’estrazione dei provvedimenti a campione, potendo quel dato periodo per nulla essere indicativo della reale capacità del magistrato o perché egli ha in generale tanti annullamenti/rigetti e in quel periodo casualmente ne aveva avuti in minor quantità o perché in generale ne ha pochi e in quel periodo se n’erano concentrati in misura più elevata della media);
– valorizzare, conseguentemente, l’analisi dei provvedimenti estratti a campione unicamente per la valutazione dell’altro profilo che può costituire grave anomalia e cioè quello che viene integrato “quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità”.
Ciò detto, nel corpo del presente paragrafo sono state evidenziati alcuni possibili aspetti vulnerabili della recente riforma del d.lgs. 160/2006 (probabilmente, nemmeno tutti), spettando al C.S.M. l’adozione di una delibera che non solo renda quanto meno possibile legata a fattori incerti la valutazione del magistrato (con tutte le connesse difformità che a ciò possono conseguire ed anzi certamente conseguirebbero) ma che soprattutto renda al magistrato la funzione che egli deve svolgere, quella cioè del ritrovamento della decisione più giusta per il singolo caso concreto che, come detto, molto spesso prescinde dalla mera applicazione della massima anche unanime nella giurisprudenza di legittimità.
Infatti, ancorché tale modo di operare metterebbe al sicuro quanto al buon esito nei gradi successivi di giudizio, esso al tempo stesso causerebbe un problema, a parere dello scrivente ben più profondo, quale l’impossibilità del giudice di esercitare efficacemente il proprio ruolo, consistente anche nella necessità di individuare quando casi formalmente uguali meritino decisioni differenti quando differente sia il contesto in cui le vicende umane sono maturate, la personalità degli indagati e delle persone offese ed altri aspetti del caso concreto non valutabili ex ante in astratto.
3. Conclusioni
Nel corso della presente trattazione si è cercato, pertanto, di evidenziare quali sono i possibili effetti distorsivi delle riforme maggiormente discusse, alcune già attuate altre in via di attuazione, non tanto sul lavoro o sulla carriera del singolo magistrato quanto in ordine al corretto funzionamento dei meccanismi di tutela giurisdizionale del cittadino su cui si fonda l’intero concetto di democrazia.
In tal senso, infatti, la figura di un magistrato limitato nei suoi poteri decisori o “spaventato” dagli effetti negativi che sulla sua carriera potrà avere una decisione che si distacchi dalle massime giurisprudenziali fino a quel momento venutesi a formare è un magistrato che vede necessariamente e indebitamente limitata la sua funzione che altro non è che quella di assicurare giustizia.
Va evidenziato, inoltre, come i profili e le potenziali negatività messe in risalto nel corso della presente trattazione peseranno in primis sulle spalle dei cittadini, ivi compresi quelli che sull’onda dell’indignazione per i fatti di cronaca che nei tempi recenti hanno riguardato la nostra categoria si dichiarano favorevoli a tali riforme, i quali potrebbero trovarsi innanzi a decisioni nella sostanza non condivisibili le quali troverebbero la propria causa, ancorché indiretta, nelle storture che tali cambiamenti normativi, se non debitamente attuati, potrebbero provocare.
E’ evidente, quindi, quale sia in tal momento storico la delicatezza e decisività del ruolo che avrà il C.S.M. nell’adozione delle relative delibere, consistente nel garantire che mentre da un lato il sistema come innovato sarà in grado di intercettare situazioni patologiche e meritevoli di adeguate contromisure, dall’altro potrà contestualmente permettere alla gran parte dei magistrati che quotidianamente operano ampiamente entro i limiti della fisiologia di continuare a esercitare efficacemente la propria funzione, in nome non della tutela del singolo magistrato e della sua carriera ma in quello, di certo più rilevante, della tenuta e del rispetto dei principi su cui si fonda la democrazia nella nostra Nazione.