Harbhajan Ghuman accompagnato da Marco Omizzolo

l’11 aprile 2024 Harbhajan Ghuman, lavoratore indiano residente da anni in Italia, gravemente sfruttato sul lavoro nelle campagne della pianura pontina, aveva già spiegato tutto con parole limpide. La sua testimonianza è a disposizione di tutti su Radio Radicale.

Unità per la Costituzione, tramite il Centro studi Nino Abbate, insieme a tanti esperti e rappresentanti delle istituzioni, appartenenti a posizioni eterogenee e svincolati da adesioni a gruppi culturali specifici, ma uniti dall’interesse preminente alla tutela dei diritti fondamentali (tra cui certamente rientrano il diritto al lavoro dignitoso ed alla integrità psicofisica di chi lo presta) dal mese di novembre 2023 ha intrapreso un percorso di riflessione sui temi della tratta di persone e del grave sfruttamento, in particolare lavorativo. Sono stati ascoltati autorevoli interventi, comparando esperienze a livello nazionale ed internazionale, con la precipua intenzione di mettere al centro due elementi essenziali: la tutela dei diritti umani e l’approccio multi-agenzia dei diversi attori.

In questo ambito, l’11 ed il 12 aprile, a Torino, presso il palazzo di giustizia Bruno Caccia, si è tenuto un convegno di approfondimento e confronto tra giuristi, accademici, rappresentanti del terzo settore, con la straordinaria partecipazione di alcuni testimoni-vittime dello sfruttamento, che hanno assunto un ruolo centrale nell’incontro di studio e riflessione. Il loro coinvolgimento e la loro centralità sono conseguenza del non aver voluto individuarle semplicemente come “vittime” di un reato (il che anche a livello semantico consegna una immagine passiva della persona, in balia delle decisioni di un giudice all’interno di un percorso processuale o comunque, di una autorità) bensì come persone portatrici di una esperienza diretta di sfruttamento e quindi, particolarmente qualificate per discutere di cause, dinamiche e rimedi.  

Per la prima volta, forse, si è inteso porre al centro di un convegno giuridico le persone sfruttate, protagoniste assolute, per ascoltare da loro quali sono le criticità nel contrasto ai fenomeni criminali e quali soluzioni applicabili in relazione ai diversi contesti.

E’ stato emozionante; la magistratura ed in genere gli operatori del diritto dovrebbero avere più spesso il coraggio di ascoltare le testimonianze lucide, analitiche e straordinariamente intense di chi ha subito lo sfruttamento; confrontarsi con le esperienze di survivors o persons with lived experience (espressioni anglosassoni alternative al concetto di “vittima”) è uno stimolo per proseguire l’impegno civile e tentare di coinvolgere le istituzioni in un rinnovato approccio di tutela dei diritti e contrasto al crimine, nella piena coscienza che – in particolare nel settore del grave sfruttamento lavorativo – il bene giuridico violato non è dato solo dai diritti fondamentali degli sfruttati, ma anche dalla legalità dell’economia, dalla regolarità della concorrenza, dalla tutela delle imprese virtuose, dalla trasparenza delle relazioni sociali e industriali; in ultimo, dal benessere di un’intera collettività.

Harbhajan ha raccontato le inenarrabili sofferenze che migliaia di lavoratori indiani sono costretti a subire in una zona d’Italia ad alta vocazione agricola, distante meno di un’ora dalla capitale e dalle istituzioni centrali. Lo accompagna nella narrazione il prof. Marco Omizzolo, che dedica la sua vita professionale, tra l’altro, ad analizzare i fenomeni sociali e criminali di cui Harbhajan ed i suoi connazionali sono vittime e testimoni. Lo affianca anche perché, dopo tantissimi anni di permanenza nel nostro Paese, Harbhajan si esprime ancora in un italiano stentato, a testimonianza della emarginazione sociale che è soltanto uno dei risvolti negativi dello stato di sfruttamento, prossimo o equiparabile ad una condizione pienamente schiavistica.

Ascoltare la testimonianza di Harbhajan lascia sgomenti oggi. Dopo la terribile notizia di quanto accaduto a Satnam Singh, lavoratore indiano di 31 anni, impiegato presso una cooperativa agricola della pianura pontina, nella provincia di Latina. Satnam era un lavoratore indiano migrante, impiegato in assenza di contratto regolare, per quanto dato sapere allo stato da fonti aperte. Era intento a lavorare quando un macchinario agricolo gli ha tranciato di netto un braccio, ennesimo episodio di morte e atroce sofferenza sul lavoro. Ma l’intollerabile vergogna sta nel trattamento subito da Satnam subito dopo, evidenza palese di uno sfruttamento bestiale e selvaggio. Non è stato soccorso, non è stata chiamata un’ambulanza, non è stato condotto in ospedale, nulla di tutto ciò. Satnam è stato scaricato per strada davanti alla sua abitazione, a Borgo Santa Maria, insieme al suo braccio ormai staccato, messo in una cassetta, come se si trattasse di ortaggi appena raccolti, in assenza di qualunque parvenza di umanità. Soltanto l’allarme lanciato da Flai Cgil territoriale ha consentito l’intervento dei Carabinieri ed una prima ricostruzione dei fatti.

Satnam è morto qualche ora dopo e con lui è morta la nostra dignità. Seguiranno, come è ovvio, le indagini. Satnam sembra lavorasse per conto di una cooperativa agricola che nel 2022 avrebbe fatturato circa 2 milioni di euro. Gli accertamenti si auspica che stabiliranno quali forme di intermediazione abbiano condotto Satnam ad essere impiegato lì, quale impietoso sfruttamento abbia subito, quali aguzzini abbiano fatto scempio di lui fino a condannarlo a morte certa. Ma i dettagli, ora, lasciano il campo all’irresistibile onda di angoscia che questa notizia genera ed allo specchio davanti al quale siamo posti. Non possiamo chiudere gli occhi fino al punto di non vedere che questo Paese ha perso sensibilità, decenza, capacità di indignazione per condotte disumane che gettano ombre sinistre sul nostro progetto di convivenza civile. Il dibattito è altrove, deviato da una omologazione mass-mediatica ispirata alla contestazione populista low cost o propensa a soffermarsi su temi spensierati. La vicenda di Satnam ci richiama alla responsabilità. Abbiamo solo una possibilità, tutti, dai governanti all’ultimo cittadino: svegliarci dal torpore, per recuperare la legalità e riacquistare la dignità.

La moglie di Satnam dice alla stampa: “il vostro non è un Paese buono”. E’ una frase semplice, ma drammaticamente vera; un atto d’accusa violento e rassegnato al contempo.

Lo sfruttamento lavorativo è comune ad ogni parte d’Italia. Tuttavia, nel caso specifico, in uno scorcio di campagna italiana, poco lontano da Roma, mentre a una decina di chilometri si attrezzano gli stabilimenti balneari del litorale pontino, un uomo privo del suo braccio viene lasciato a morire dissanguato, perché chiamare i soccorsi avrebbe probabilmente significato disvelare l’indicibile, fornire prove certe di uno sfruttamento massivo in danno di semi-uomini, di esseri senza speranza funzionali alla produzione ed all’arricchimento senza regole; poco importa se le vittime siano migranti o italiani; i loro diritti umani più basilari recedono rispetto agli interessi criminali di imprenditori senza scrupoli e della criminalità organizzata.

Auguriamoci che la moglie di Satnam riceva giustizia. Impegniamoci affinchè ciò avvenga, a cominciare dall’immediato riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ex art. 18 d.lgs 286/1998.

L’articolo 603 bis c.p. e le altre misure di contrasto introdotte dalla legge 199/2016 devono diventare patrimonio comune e ricevere applicazione sistematica. Allo stesso modo a dirsi per le confinanti, ma distinte, fattispecie degli articoli 600 e 601 c.p., ancora troppo poco applicate, perché troppo bassi sono i numeri delle identificazioni delle vittime gravemente sfruttate sul lavoro. L’accesso a percorsi diffusi di assistenza ed inserimento socio-lavorativo non è soddisfacente, mentre sarebbe strumentale a obiettivi di prevenzione dello sfruttamento e di qualificazione del lavoro; l’articolo 18 del d.lgs 286/1998 resta lo strumento principe, che coniuga tutela dei diritti ed efficacia dell’azione di contrasto al crimine, ma troppe volte è disapplicato. Altri strumenti andrebbero pensati ed introdotti perché il fenomeno, complesso ed in costante cambiamento, richieste risposte aggiornate e innovative.

Le azioni dello Stato sono troppo spesso slegate, mentre occorre una strategia nazionale e territoriale di rete, a cui dovrebbero partecipare stabilmente anche le forze dell’ordine e le procure della Repubblica, oltre ad ispettori del lavoro, enti pubblici e del terzo settore. Sono nati strumenti importanti di pianificazione degli interventi, tavoli di coordinamento (si pensi al tavolo sul caporalato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali) sono state previste strategie (piani nazionali, linee guida, etc.) ma ora è tempo di un cambio di passo; a livello politico in primis, ma poi anche da parte degli operatori della giustizia, i quali devono studiare la materia e farne una priorità. E poi, c’è il timore, se non la certezza, che senza il coinvolgimento attivo e stabile del mondo delle imprese, opportunamente posto dalle istituzioni del Paese di fronte alle proprie responsabilità, la conta delle tragedie non si fermerà. Le tante persone che gestiscono imprese leali e legali sono anch’esse vittime di questo scempio, ostaggi di caporali senza scrupoli, al soldo di criminali del profitto a prescindere.

Gli sforzi progettuali, finora, sono stati diretti principalmente all’assistenza ai lavoratori sfruttati, previa difficile emersione dei casi e al contrasto degli episodi criminali. Occorre proseguire su questa strada, ma siamo sicuri che questa non sia anche o soprattutto la conseguenza drammatica di un problema che risiede nell’assenza di etica imprenditoriale, delle relazioni tra imprese e società civile, tra imprese e istituzioni? Non è forse il caso che nasca una vigorosa azione pubblica (una governance, come si suole dire in questi tempi) che si prefigga un coordinamento permanente delle diverse azioni (anti-tratta, anti-sfruttamento lavorativo, di contrasto al lavoro sommerso ed agli insediamenti abitativi marginali, di favore verso sistemi trasparenti di intermediazione e di trasporto dei lavoratori, di studio di interventi che agevolino la domanda e offerta di lavoro, liberandola dalle ipocrisie della legge 189/2002, di partecipazione responsabile dei settori produttivi, di dialogo costante con le istituzioni sovranazionali).

Ed è accettabile per il settore giustizia restare alla finestra ed attendere di essere chiamato a solo a giudicare dopo? Non è forse il caso che le Procure della Repubblica siano coinvolte stabilmente nei meccanismi nazionali di referral e nelle azioni di coordinamento a livello centrale e decentrato?

Ascoltiamo, dunque, le parole di Harbhajan e poi domandiamoci se quel che è accaduto a Satnam ci lascia di stucco, ci sorprende come un fulmine a ciel sereno; e poi chiediamo a noi stessi cosa stiamo facendo per evitare che accada ancora.

Il lavoro; quel basamento che fonda la Repubblica, il lavoro sfruttato nelle costruzioni, dove abitiamo, nel turismo, dove ci divertiamo, nella logistica, che ci consegna a domicilio sfizi e necessità, nell’agricoltura, con cui apparecchiamo le tavole, da cui ci nutriamo, noi e i nostri figli.

Il lavoro di Satnam imbandiva le nostre tavole, che oggi sono sporche anche del suo sangue.

Video della testimonianza di Harbhajan Ghuman

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