Il 12 giugno 2022 gli italiani sono stati chiamati ad esprimere il proprio voto nel referendum che vedeva tra i quesiti anche quello dal titolo “Separazione delle carriere”. L’esito del Referendum ha registrato un’affluenza alle urne del 20,9% degli elettori, molto inferiore al quorum richiesto per l’abrogazione della disciplina vigente. A seguito dell’intensa campagna di sensibilizzazione sull’argomento, gli italiani dunque non hanno ritenuto necessario, né opportuno, di introdurre una netta separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti. Ebbene dopo appena pochi mesi da questo importante risultato referendario, si intende superarne gli esiti, frustrando la volontà degli elettori.

Il tema della separazione delle carriere è particolarmente importante, perché capace di incrinare i delicati equilibri di un sistema della giustizia delineato e costruito dai nostri padri costituenti, subito dopo la Seconda guerra mondiale, per evitare in radice il pericolo di una magistratura piegata ai desiderata del potere politico a discapito delle libertà dei cittadini. E’ facile vedere nel panorama mondiale quali siano le conseguenze per i cittadini di una magistratura debole e al servizio del regime (basti pensare alle condanne ai dissidenti in Russia o alle donne in Iran). La nostra Costituzione ha voluto realizzare una magistratura pienamente autonoma e indipendente da ogni altro potere.

La separazione delle carriere avrebbe come prima conseguenza ineludibile quella della creazione di un doppio CSM; una duplicazione tanto dispendiosa quanto dannosa sul piano della efficienza della giustizia e della formazione culturale dei magistrati. Oggi la prima garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura è data dalla forte cultura comune che unisce, e deve sempre unire, i giudici e pubblici ministeri, costruendo in ogni magistrato una precisa identità radicata nel ruolo di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini contro ogni arbitrio, ogni violenza, ogni forma di criminalità.       

I timori espressi da parte dei fautori della separazione delle carriere in ordine alla terzietà del Giudice, in realtà, non persuadono affatto. Infatti, la terzietà del giudice, fondamentale come condizione per la sua imparzialità, va attuata e rafforzata all’interno del processo, con una piena applicazione dei principi fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e non certo con soluzioni che ci allontanano non solo dalla nostra tradizione giuridica ma anche dalle linee di tendenza più significative presenti nel panorama europeo e internazionale.

Quando l’Unione Europea ha istituito la Procura Europea, configurandola come un organo indipendente destinato a svolgere le indagini in maniera imparziale, ha stabilito che possano farne non solo i magistrati che abbiano già ricoperto funzioni di pubblico ministero, ma anche quelli che abbiano esercitato altre funzioni giurisdizionali nei rispettivi Stati membri.

Negli USA, patria del modello accusatorio, quasi tutti i giudici della Corte Suprema in passato hanno svolto anche funzioni di pubblico ministero. A partire all’attuale Chief Justice of the United States.

Purtroppo, in Italia, già oggi a seguito degli interventi normativi verificatisi a partire dal 2006, sono pochissimi i passaggi da una funzione all’altra.

Eppure, già nel 2000 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ha un’impronta fortemente garantista, aveva raccomandato a tutti i Paesi di “consentire di svolgere successivamente le due funzioni”, le quali richiedono “analoghe garanzie in termini di qualifiche, competenze e status”. Si era precisato che “tale disposizione costituisce anche un’ulteriore tutela per il pubblico ministero”.

La prospettiva del Consiglio d’Europa merita di essere condivisa con convinzione proprio alla luce dell’esperienza italiana. La comune cultura della giurisdizione, che attualmente impone una comune formazione – iniziale e permanente – del Giudice e del Pubblico Ministero, costituisce un argine potente contro ogni rischio di pericolose derive del Pubblico Ministero. Oggi il Pubblico Ministero non è “l’avvocato dell’accusa”, ma è il primo garante della legalità nella ricerca e raccolta delle prove, con la stessa impostazione e formazione del Giudice. Cambiare sarebbe in controtendenza con una lunga tradizione italiana, che è un importante modello di riferimento in ambito europeo. In Italia, molti dei giudici più autorevoli sono stati anche pubblici ministeri autorevoli, e viceversa, in un contesto in cui l’intercambiabilità tra funzioni era la regola, fino alla riforma del 2006: per citare alcuni grandi uomini, e grandi magistrati, da tutti conosciuti, Rosario Livatino, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone. E’ al loro esempio che vogliamo sempre continuare ad ispirare il nostro lavoro.

La Direzione Nazionale di Unicost.

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