La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) del 13 febbraio 2025 nel caso P.P. contro Italia (ricorso n. 64066/19) affronta la questione della necessità di una risposta tempestiva in materia di violenza domestica, da parte dell’autorità giudiziaria requirente e giudicante) e del conseguente diritto della vittima a un rimedio effettivo.
Fatti del caso: La ricorrente, P.P., evidenziava di aver ha subito molestie e violenze dal suo ex compagno a partire dal 2007, che nonostante le denunce presentate, le autorità italiane non avevano avviato tempestivamente le indagini, sicchè una sentenza emessa il 30 maggio 2017, la Corte d’appello di Firenze assolse A.B. per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che ha introdotto il reato di atti persecutori, ossia il 25 febbraio 2009, ma dichiarò estinti per prescrizione i fatti commessi dopo tale data. Essa condannò A.B. a risarcire la ricorrente; l’importo del risarcimento doveva essere determinato dai giudici civili. A seguito di ricorso per cassazione con una sentenza emessa il 5 giugno 2019, nove anni e mezzo dopo che era stata depositata la denuncia, la Corte confermò la prescrizione del reato, ma annullò la sentenza per quanto riguarda la responsabilità di A.B. per vizio di motivazione, in quanto il dibattimento non era stato riaperto durante il processo di appello. La Corte suprema rinviò la causa dinanzi ai giudici civili. Con una sentenza emessa nel 2024, la Corte d’appello di Firenze condannò A.B. a versare alla ricorrente un risarcimento di 268.403,26 EUR, più le spese, riconoscendo la sussistenza di danni psicologici in capo alla vittima. Si tratta di una sentenza non ancora definitiva.
La Decisione della Corte: La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso P.P. contro Italia (ricorso n. 64066/19) del 13 febbraio 2025 ha trattato la questione della protezione contro le molestie e la violenza domestica. La ricorrente, una cittadina italiana residente a Pisa, ha denunciato il suo ex compagno per atti di persecuzione e molestie iniziati nel 2007. Nonostante le ripetute denunce, le indagini penali hanno subito ritardi significativi, culminando nella prescrizione dei reati a causa dell’inattività delle autorità. La Corte ha rilevato che le autorità italiane non hanno gestito con la necessaria diligenza e tempestività le denunce di violenza domestica presentate dalla ricorrente. Questo ha portato all’impunità dell’autore dei reati e ha esposto la vittima a una prolungata situazione di vulnerabilità. La Corte ha sottolineato che gli Stati hanno l’obbligo positivo di istituire e far rispettare un sistema efficace di repressione contro tutte le forme di violenza domestica, offrendo alle vittime adeguate garanzie procedurali. Inoltre, le autorità devono considerare la particolare vulnerabilità delle vittime e agire con la massima tempestività.
Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che l’Italia non avesse adempiuto a questi obblighi, violando così l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. Di conseguenza, è stato ordinato all’Italia di versare alla ricorrente 10.000 euro a titolo di equa soddisfazione per il danno subito. La Corte, nel condannare l’Italia per la mancata protezione tempestiva della ricorrente, evidenzia che l’obbligo dello Stato di proteggere le vittime di violenza domestica, va ben oltre una semplice reazione alle denunce: si tratta di un vero e proprio dovere di prevenzione e di garanzia di un sistema giuridico che sia pronto a intervenire in modo rapido ed efficace.
La violenza domestica è un crimine che crea una situazione di estrema vulnerabilità per le vittime, spesso caratterizzata da un isolamento psicologico, sociale ed economico. La mancanza di una risposta tempestiva da parte delle autorità rischia di perpetuare e aggravare questa vulnerabilità, lasciando la vittima senza protezione e senza il necessario supporto. La Corte sottolinea che le autorità pubbliche non devono solo reagire a un episodio di violenza, ma devono prevenire l’escalation di questi episodi, che possono evolversi in abusi più gravi, compresi abusi fisici e psicologici intensi, fino a mettere in pericolo la vita stessa della vittima.
Il circuito della violenza è un modello che descrive il comportamento del perpetratore in una relazione abusiva. Esso si articola in diverse fasi cicliche che si ripetono, creando un ambiente di violenza continua che può essere fisica, psicologica, sessuale o economica. Questo ciclo spesso sfocia in una spirale che diventa sempre più difficile da interrompere per la vittima.
Le fasi principali del circuito della violenza sono:
- Tensione crescente: Nella fase iniziale, il perpetratore inizia a mostrare segni di irritabilità, frustrazione e intolleranza. Può esserci un aumento del controllo e delle tensioni all’interno della relazione. La vittima potrebbe cercare di placare il partner o evitare conflitti, ma l’ambiente diventa sempre più insostenibile. Questo è il periodo in cui si manifestano i primi segnali di comportamento abusivo (insulti, minacce verbali, criticismo, ecc.).
- Atto di violenza: La fase successiva è caratterizzata dall’escalation della violenza, che può essere fisica (percosse, schiaffi, calci) o psicologica (umiliazione, minacce). In alcuni casi, può anche essere sessuale o economica (come il controllo delle finanze). Durante questa fase, la vittima può subire gravi danni fisici ed emotivi, e l’abusante si sente soddisfatto del suo comportamento violento.
- Riconciliazione e luna di miele: Dopo l’atto di violenza, il perpetratore può provare sensi di colpa o giustificarsi, chiedendo scusa alla vittima. In alcuni casi, potrebbe promettere di cambiare e cercare di riportare la situazione alla normalità. La vittima, colpita dalla speranza che il partner possa migliorare, accetta le scuse e crede che l’abuso non si ripeterà. Spesso, il perpetratore fa promesse che non manterrà mai, creando un ciclo di speranza e disillusione.
- Ripetizione del ciclo: Il ciclo della violenza si ripete continuamente. Dopo un periodo di apparente normalità, la tensione aumenta di nuovo e l’atto di violenza si verifica nuovamente, seguendo lo stesso schema. Ogni ciclo tende a diventare più intenso, con il perpetratore che, nel tempo, può utilizzare forme di violenza sempre più gravi.
Questo ciclo è estremamente dannoso, sia a livello fisico che psicologico, per la vittima, che può sentirsi intrappolata senza via di uscita. Il “circuito della violenza” spiega perché molte vittime di violenza domestica tornano ripetutamente dai loro aggressori, nonostante le promesse di cambiamento. La manipolazione psicologica, il senso di colpa, la paura e l’isolamento sociale rendono estremamente difficile interrompere questo ciclo.
Di qui la necessità di una risposta tempestiva e adeguata da parte dell’autorità giudiziaria, volta ad interrompere il circuito della violenza e ad evitare il protrarsi di situazioni di frustrazione.
Secondo la giurisprudenza della Corte, e in particolare la sentenza di P.P. contro Italia, gli Stati membri della Convenzione Europea dei diritti umani hanno un obbligo positivo di agire in modo che le vittime di violenza domestica ricevano una protezione effettiva. Non si tratta solo di creare leggi che penalizzino la violenza, ma di assicurarsi che queste leggi siano applicate in modo efficace e senza indugi.
L’obbligo positivo non riguarda solo l’adozione di leggi, ma anche l’adozione di procedure tempestiveche assicurino che i procedimenti giuridici siano gestiti in modo celere. L’efficacia di un sistema giuridico, in questo contesto, è valutata dalla sua capacità di rispondere con prontezza alle esigenze di protezione delle vittime, a prescindere dalla complessità o dalle difficoltà pratiche che possono sorgere durante un’indagine o un processo.
La risposta tempestiva non è solo una necessità per garantire giustizia, ma un elemento chiave per proteggere la dignità e la sicurezza delle vittime di violenza domestica. Gli Stati devono riconoscere che la violenza domestica non è solo un problema criminale, ma una questione di diritti umani, dove l’efficacia della risposta istituzionale può fare la differenza tra il perpetuarsi della violenza e la possibilità per la vittima di uscire dalla spirale di abuso. In definitiva, una risposta tempestiva non solo rispetta gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, ma contribuisce anche a interrompere il ciclo di violenza, fornendo alle vittime le garanzie necessarie per una vita libera da paura e abuso.