Questi mesi a cavallo tra il vecchio ed il nuovo anno sono periodi convulsi, durante i quali notizie ed eventi tumultuosamente si rincorrono, mettendo in seria difficoltà la capacità di orientamento non soltanto dei comuni cittadini, ma anche degli stessi operatori della giustizia. Ciò si verifica in tanti contesti. Le lacerazioni istituzionali non sono soltanto nazionali, ma travalicano i confini e coinvolgono istituzioni giudiziarie e politiche in polemiche ed accuse “transnazionali”, con riferimento a fenomeni che, comunque, riguardano temi di primaria importanza, come i diritti umani di moltitudini di persone migranti ed estremamente vulnerabili, come il rispetto della legalità.

I rapporti tra diritto interno e diritto internazionale, gli obblighi dello Stato italiano nei riguardi degli obblighi convenzionali, di primaria rilevanza giuridica in virtù del richiamo delle relative norme costituzionali, la tutela dei diritti umani, la gestione delle migrazioni, la legalità internazionale, sono solo alcuni capitoli del dibattito tutto aperto, che rischia di arrecare ferite alla credibilità del Paese agli occhi del mondo.

L’ordine di arresto della corte penale internazionale a carico di Osama Almasri Njeem ha fatto irruzione con prepotenza nella scena del diritto penale internazionale e degli obblighi nazionali dell’Italia. Ne è scaturita una vicenda che, a cascata, è giunta a coinvolgere anche la magistratura. I temi sono estremamente delicati e non si vogliono esprimere opinioni dirette a (dis)orientare l’informazione in un senso o in un altro. Tralasciando di affrontare – almeno per ora – il tema relativo alla mancata esecuzione dell’ordine di arresto della corte penale internazionale, nonché quello riguardante eventuali errori della corte di appello di Roma o per altri versi, del ministro della giustizia o del governo, è interessante capire di cosa è accusato l’alto ufficiale libico, indagato dalla corte dell’Aja. In particolare, soffermandoci su una lettura assolutamente giuridica, è di estremo interesse analizzare il provvedimento della corte con riferimento a vari profili, tra cui quello riguardante la sussistenza della giurisdizione della CPI nel caso di specie. La maggioranza dei giudici del collegio ha agganciato la giurisdizione della CPI alla ritenuta conseguenzialità temporale dei fatti di cui è indagato l’ufficiale libico alla situazione di conflitto asseverata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione del 2011, conseguente alle sommosse che portarono al ribaltamento del regime di Gheddafi ed ai tumulti successivi.

Infatti, il 26 febbraio 2011, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, agendo ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ha deferito alla corte penale internazionale la situazione nella Giamahiria Araba Libica a far data dal 15 febbraio 2011, in conformità con l’articolo 13(b) dello Statuto, decidendo, tra l’altro, che “le autorità libiche coopereranno pienamente con la Corte e il Procuratore e forniranno tutta l’assistenza necessaria in conformità con la presente risoluzione”, ed esortando “tutti gli Stati e le organizzazioni regionali e internazionali interessate a cooperare pienamente con la Corte e il Procuratore”.

In ragione di ciò, il 2 ottobre 2024, il procuratore della CPI, ha richiesto un mandato d’arresto  per Osama Elmasry Njeem, per i seguenti crimini contro l’umanità e crimini di guerra di competenza della Corte, commessi in Libia da febbraio 2015 ad almeno il 2 ottobre 2024:

(i) imprigionamento come crimine contro l’umanità (articolo 7(1)(e) dello Statuto);

(ii) oltraggio alla dignità personale come crimine di guerra;

  • (iii) trattamenti crudeli come crimine di guerra;
    • (iv) la tortura come crimine di guerra e crimine contro l’umanità;
    • (v) altri atti inumani come crimine contro l’umanità;
    • (vi) la violenza sessuale come crimine di guerra e crimine contro l’umanità;
    • (vii) lo stupro come crimine di guerra e crimine contro l’umanità;
    • (viii) omicidio e tentato omicidio come crimine di guerra e crimine contro l’umanità;
    • (ix) l’emissione di sentenze senza una precedente sentenza pronunciata da un tribunale regolarmente costituito come crimine di guerra;
    • (x) la riduzione in schiavitù come crimine contro l’umanità;
    • (xi) la schiavitù sessuale come crimine di guerra e come crimine contro l’umanità
    • (xii) la persecuzione come crimine contro l’umanità.

In sostanza, questi fatti gravissimi sarebbero avvenuti, sotto il comando di Elmasri (anche agendo egli direttamente) nell’inferno del carcere libico di Mitiga.

Di contro, molto interessante è l’acclusa dissenting opinion di un componente del collegio, Socorro Flores Liera, che si fonda essenzialmente sul difetto di giurisdizione della CPI con riferimento ai fatti accaduti in Libia (si ricorda, Stato non aderente allo Statuto della corte) per mancanza delle condizioni specificate nell’atto. In sostanza, il giudice dissenziente ritiene non sussistente la giurisdizione della CPI (come aveva già precedentemente fatto in altri casi lo stesso giudice, ponendosi in minoranza) poiché non ritiene che i fatti per cui si procede possano direttamente ritenersi collegati al medesimo contesto del 2011, menzionato nella citata Risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU da cui la giurisdizione della CPI sulla Libia trae fondamento.

Considerazioni di più ampio respiro riguardano il rispetto della legalità internazionale ed il ruolo della CPI. Ci si può interrogare se la corte penale internazionale stia agendo nel tentativo di fornire un’interpretazione espansiva del proprio confine operativo (con il pericolo, però, di esporsi al rischio di indebolirsi, suscitando una crescente opposizione politica internazionale ai suoi provvedimenti – si pensi ai recentissimi casi Putin e Netanyahu). Tuttavia, si può ribaltare la domanda con analoga efficacia: forse sono gli Stati (almeno alcuni di loro) che si allontanano dalla adesione convinta ai principi dello Statuto di Roma che si pongono alla base dell’idea di legalità internazionale e di conseguenza, mettono all’angolo la CPI, con il chiaro intento di sottrarsi ad un controllo delle proprie strategie politiche globali, in un mutato scenario geopolitico.

Quale che sia il punto di osservazione, non abbiamo adeguate risposte.

Tuttavia, è bene ricordare quali siano i fatti che si verificano ormai da molti anni in quel crocevia di disperati verso l’Europa che è costituito dai campi di prigionia libici e – da qualche anno – anche tunisini. In questo senso, è drammaticamente utile leggere un ulteriore recente rapporto che si concentra proprio sui campi tunisini e libici. Si tratta di una recentissima collezione di testimonianze dirette, raccolte da alcune organizzazioni (tra cui ASGI) e presentato pochi giorni fa al Parlamento europeo. State trafficking (la “tratta di Stato”) riferisce delle condizioni a cui vengono sottoposti i migranti dell’Africa subsahariana in Tunisia e Libia, a seguito dell’instaurazione del regime tunisino di Kais Saied, altro leader molto discusso, con cui i Paesi europei intrattengono frequenti contatti.

E’ appena il caso di ricordare che le testimonianze dirette sono sempre originali e toccanti per la loro drammaticità, ma non sono affatto una novità. I rapporti delle organizzazioni internazionali sono ormai molto numerosi e concordi nel denunciare costanti ed efferate violazioni dei diritti umani. Ma le stesse informazioni sono ormai da anni contenute nelle indagini condotte dagli uffici di procura, nei processi ed anche in sentenze emesse dai tribunali. Sono voci poco pubblicizzate che noi magistrati abbiamo incontrato spesso. Sono le voci soffocate che echeggiano dalle pagine di report giornalistici o di atti giudiziari. Sono forse il prezzo che la coscienza offuscata dell’Europa paga per contenere la temuta invasione?

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