Chi ha trent’anni ancora non era nato.

Per chi ha oggi trent’anni, questa è la storia di un’altra vita, di una vita prima della sua.

Fa impressione perché io -che all’epoca di anni ne avevo 18- quei tre mesi, da maggio a luglio del 1992, li sento come fossero un marchio sulla pelle, come se fosse la storia di ieri. Come se fosse successo ora, ma in realtà sono passati più di trent’anni. Una generazione e sembrava ieri.

Già allora avvertivo la chiara consapevolezza che qualcosa nel paese si era rotto, che qualcosa nel paese non sarebbe stato più come prima, come immagino fu per Moro, come è stato l’11 settembre per il mondo intero.

Avevo la chiara consapevolezza che quella estate avrebbe rappresentato un punto di non ritorno per il nostro paese.

Le bombe non finirono mica quell’anno, cambiò la Repubblica che dalla prima passò alla seconda, i capi di cosa nostra furono presi, poi tornò piano piano la pace, forse una pace ancora più pericolosa.

Li ricordo bene quei tre mesi, mia madre morì il giorno dopo Capaci, il 24 maggio; poi subito dopo vennero gli esami di maturità (che non andarono molto bene) con una tesi scopiazzata sulla storia della mafia in Sicilia e infine, a luglio, via D’Amelio. Tre ceffoni, uno più forte dell’altro. Il 19 luglio invece stavo a Roma, a casa di mia zia, lontano da Catania per cercare un po’ di sollievo, quando in televisione tutte le reti cominciarono a trasmettere immagini raccapriccianti. Morte, distruzione, sembrava fosse la guerra, sembrava che la guerra fosse scoppiata in Sicilia, nella mia terra. Mi ricordo che piansi.

Volevo fare quel mestiere, lo volevo fare a tutti i costi, avevo 18 anni e volevo essere come loro.

La sera, per dire quando fantastichi prima di addormentarti, sognavo addirittura di morire come loro. Perché erano i miei eroi. Combattevano contro i mafiosi, combattevano contro gli esseri più violenti ed arroganti della terra, senza armi e senza muscoli, solo con la loro intelligenza. Lo facevano con il sorriso, perché quando vedevo le loro interviste in tv non traspariva mai odio o rancore; al contrario, al contrario esatto, i volti di Falcone e Borsellino trasmettevano fiducia, trasmettevano emozioni, sì, in realtà trasmettevano amore, l’amore delle vacanze estive, quando sei con la tua famiglia, con i tuoi genitori, con gli zii, in costume da bagno con un po’ di pancia e le braccia e le gambe esili. A pensarci oggi sembra come un film di altri tempi.

Questa è l’immagine di Paolo Borsellino che ho dentro di me, un giudice che con il sorriso in bocca racconta storie da volta stomaco ad un giornalista francese poco prima di essere ammazzato.

Questi sono i ricordi di un ragazzino di 18 anni un po’ incosciente e con tanta voglia di vivere di fronte alla morte accanto a lui.

Era una idea -quella di fare il magistrato- che in realtà mi frullava in testa già da quattro anni, ricordo che fu quando, al primo anno del liceo, la scuola ci portò a vedere il film “Cento giorni a Palermo”. Probabilmente sono i loro baffi ed il loro sorriso che mi hanno sempre fatto sembrare Carlo Alberto Dalla Chiesa e Paolo Borsellino come se fossero la stessa persona.

 Nel mio immaginario sono sempre stati uguali. Quei cento giorni sono come da maggio a luglio, quei cento giorni sono come quei cento passi che dividono casa Badalamenti da casa Impastato. Una storia che si ripete. È la storia della mia terra.

È la storia dei nostri eroi.

Forse le loro idee politiche, così lontane dalle mie, me li rendevano ancora più simpatici, forse il fatto che andavano dritti per la loro strada a muso duro, fieri; forse il fatto che furono traditi entrambi dalle Istituzioni, il fatto che entrambi erano diventati troppo scomodi, per tanti, per troppi.

Ingombranti.

Guerrieri senza patria e senza spada direbbe un poeta.

 Possono dire di avere vissuto ogni loro giorno, di averlo vissuto in modo così forte da essere divenuto il vissuto di un intero paese. Loro sono nei libri di Storia, quella che studiano a scuola i nostri figli. Loro sono diventati la storia di un popolo e di lì nessuna bomba li potrà mai levare.

Perché Paolo Borsellino, e non solo lui, sono diventati Simboli e quando in una comunità nasce un simbolo, il simbolo diventa eterno, dura nei secoli, come il mito. Riesce a tirar fuori, da dentro di noi, ciò che sta nascosto e non vede l’ora di venir fuori. Così è stato per quasi vent’anni. Una città intera si è ribellata, un paese intero è stato parte della magistratura, si è sentito tutelato dalla magistratura, ha avuto fiducia nella magistratura, perché è bene ciò che combatte contro il male.

Ma è mai possibile che ci vogliano i morti ammazzati per amare la giustizia ?

No, non è possibile e non è nemmeno giusto che sia così. Per amare la giustizia ci vorrebbero giudici umili, umili ed autorevoli, insomma ci vorrebbero tante brave persone, che facessero agli altri quelle che vorrebbero gli altri facessero loro.

Questa è la legge fondamentale: perché il popolo ami la giustizia ci vorrebbero giudici che amino il loro mestiere, che rispettino il loro mestiere, che mettano il loro mestiere prima di se stessi.

Ma no, che c’entra, forse è meglio guardare allo stipendio, forse venderei mia madre per un titolo sul giornale. In tv le facce si sono fatte buie, non sorridono, non trasmettono emozioni, sembrano più automi che fanno discorsi registrati, hanno gli occhi neri, c’è buio nel loro fondo.

Cara figlia, mi spiace, tu sei più sfortunata, la tua generazione non ha più santi né eroi, siamo solo noi.

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