Roma 12 febbraio 1980. Alle ore 12 circa, Vittorio Bachelet, giurista, docente universitario e vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, veniva ucciso dalle Brigate rosse sul mezzanino delle scale dell’Università “La Sapienza” di Roma, tra le facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza, al termine di una lezione nell’aula «Aldo Moro».

Quel giorno lo ricordo benissimo. Era una bella e tranquilla giornata di sole, e nulla faceva presagire la tragedia. All’improvviso tanta confusione di cui non si capì subito il motivo. I fabbricati delle Facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Politiche sono contigui e comunicanti attraverso una porta che apre il passaggio sul pianerottolo di quella stessa scalinata ove fu assassinato Bachelet. E quelle scale le facevo spesso per raggiungere il vialetto che porta all’ingresso su viale Regina Elena. L’Istituto di Diritto Penale della Facoltà di Giurisprudenza, che avevo cominciato a frequentare dopo la laurea si trovava (e si trova ancora) al secondo piano del fabbricato, e la percezione di quanto era successo non fu quindi immediata. Agli allarmi bomba, alle manifestazioni, e alle sirene della polizia eravamo da tempo abituati, e appena vi era il sentore di qualche pericolo il personale amministrativo dell’Istituto correva a chiudere la serranda scorrevole di sicurezza che all’epoca era apposta dopo la porta a vetri. Poi arrivò la notizia: hanno ucciso Bachelet. Ancora increduli, in Istituto si cominciò a temere per la vita di Giovanni Conso, il nostro professore. E i ricordi qui si fanno confusi. Rammento solo il pianto e lo sgomento di tante persone; poi l’arrivo del Presidente Sandro Pertini, accolto da un grande applauso.

Pochi mesi dopo, rividi il Presidente Pertini al Palazzo del Quirinale. Nello stesso anno, dopo Bachelet, vennero uccisi anche i magistrati Nicola Giacumbi, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa. E noi, uditori d.m. 13 maggio 1980, fummo i primi magistrati in tirocinio ad essere ricevuti dal Presidente della Repubblica.

Roma 12 febbraio 1980. Alle ore 14,33 ai centralini di due quotidiani (Repubblica e Avanti!) arrivarono le telefonate di rivendicazione: «Siamo le Brigate Rosse, abbiamo giustiziato noi il professor Bachelet. Seguirà comunicato». Nel comunicato, si diceva che Bachelet aveva reso possibile la trasformazione del CSM «da organismo formale a mente politica» assumendo il «controllo delle attività giuridiche dei singoli magistrati» e «assicurando inoltre un collegamento organico all’Esecutivo».

Il delitto è da collocare nel contesto di un periodo tormentato, e in particolare nella vicenda che aveva avuto inizio nel 1976, quando il 17 maggio si era aperto presso la Corte d’assise di Torino il primo grande processo contro le Brigate rosse; tra gli imputati vi erano alcuni dei capi storici dell’organizzazione, Curcio, Franceschini e Gallinari. Nel corso di quel difficile processo, gli avvocati difensori degli imputati aderirono alla richiesta degli stessi e rinunciarono al mandato difensivo. Vennero allora nominati difensori d’ufficio l’avvocato Fulvio Croce, Presidente dell’Ordine degli avvocati e procuratori di Torino e l’avv. Pierangelo Accatino. L’avvocato Croce accettò l’incarico e delegò alla difesa otto avvocati che erano consiglieri dell’Ordine. La risposta dei brigatisti fu immediata: qualunque avvocato che fosse stato chiamato alla loro difesa, sarebbe stato un “difensore di regime” che come tale sarebbe stato combattuto. Il 28 aprile 1977 venne quindi ucciso l’avvocato Croce.  Il nuovo delitto sconvolse l’opinione pubblica, e alla riapertura del processo solo quattro degli otto giudici popolari accettarono di far parte della giuria. Il Presidente della Corte d’Assise fu pertanto costretto a rinviare il processo a tempo indeterminato. Il processo riprese poi il 9 marzo 1978, per intervento dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, e si concluse dopo 107 giorni di dibattimento, con ventinove condanne e sedici assoluzioni.

In quel contesto politico e sociale, si contrapponevano i sostenitori della necessità del ricorso a leggi speciali per il contrasto alla violenza terroristica e coloro i quali, invece, propugnavano l’impossibilità di recedere dalle fondamentali garanzie democratiche anche di fronte all’emergenza criminale. Bachelet si collocava fra questi ultimi, e – affermando che non era necessario ricorrere a normative speciali – sosteneva con fermezza che a contrastare il terrorismo era sufficiente l’impegno e il lavoro quotidiano della magistratura.

Divenne così autorità di riferimento dell’intero sistema giudiziario.

I processi successivi al suo assassinio accertarono poi che l’attentato era stato organizzato e compiuto da esponenti del gruppo terroristico che lo aveva rivendicato.

Il ricordo di Rosy Bindi

Rosy Bindi, assistente di Vittorio Bachelet e insieme a lui la mattina in cui fu assassinato, ricorda che «il 1980 era iniziato con l’assassinio, il 6 febbraio, di Piersanti Mattarella, per mano della mafia e del terrorismo nero. Il presidente della Regione Sicilia stava offrendo all’intero paese un esempio di buona amministrazione in una regione del mezzogiorno. Per sconfiggere la mafia, voleva semplicemente una Sicilia con le carte in regola. E questo contrastava con gli interessi di Cosa nostra e metteva in allarme chi aveva sempre prosperato grazie all’intreccio tra mafia e politica. La determinazione e il rigore di Piersanti Mattarella facevano paura a tanti. Vittorio Bachelet era il vice presidente del Consiglio Superiore della magistratura in anni nei quali i magistrati erano tra i principali obiettivi del terrorismo, ma soprattutto il rapporto tra l’Ordine giudiziario e gli altri poteri dello Stato e la politica era percorso da forti tensioni e rischiava una rottura profonda. Con la sua particolare predisposizione al dialogo, la sua sapienza giuridica, la sua raffinata capacità politica era riuscito a tenere unito il CSM e proprio pochi giorni prima la sua morte aveva ottenuto il voto unanime su un importante documento che affrontava il rapporto tra Parlamento e Magistratura in piena aderenza al dettato della nostra Carta fondamentale.

Anche questo difficile risultato faceva paura e costituiva un ostacolo a quei poteri che nell’ombra puntavano alla destabilizzazione degli equilibri della Repubblica per sospendere e alterare il sapiente disegno della nostra democrazia costituzionale.

Mi sono chiesta più volte perché fosse stato ucciso proprio all’università e nella sua facoltà. Perché non fu scelto un altro luogo e un altro momento, come ad esempio il mattino presto, quando ogni giorno si recava nella sua parrocchia a Messa?

La risposta più vera è venuta dal Cardinale Carlo Maria Martini. Un anno dopo la morte l’arcivescovo di Milano parlerà di Vittorio Bachelet come di un martire laico, perché non fu assassinato mentre proclamava la sua fede, ma mentre serviva, fedele alla Costituzione, la libertà, la giustizia, la pace.

Fu ucciso nel luogo della sua professione di fede laica, che tanto amava, alla quale non aveva mai rinunciato e alla quale sperava di poter tornare presto a tempo pieno. Era onorato del servizio che stava svolgendo nelle Istituzioni italiane, ma ne avvertiva anche tutta la fatica e aspettava il mese di dicembre, quando terminando il mandato al Csm sarebbe tornato ai suoi studi e ai suoi giovani.

Gli fu impedito. Ma il suo estremo sacrificio, il suo martirio laico, ci consegnano la luminosa testimonianza di un impegno che dobbiamo fare nostro per la libertà del nostro Paese»

(Rosy BINDI “Quel 12 febbraio del 1980”, in CSM “Vittorio Bachelet. Gli anni 70 tra speranze e disillusioni”, 2020).

12 febbraio 2025. Il ricordo del CSM e dell’Associazione Bachelet

Nella mattinata del 12 febbraio, il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha osservato un minuto di silenzio per ricordare l’assassinio del suo vicepresidente a cui è oggi intitolato l’edificio dove ha sede l’Istituto; è stato anche riproposto il dossier che era stato preparato in occasione del quarantennale.

Inoltre, proprio nel giorno del suo assassinio, nella sede del Csm, l’associazione che porta il suo nome ha voluto dedicare una ampia riflessione ai nodi problematici della riforma costituzionale in corso che prevede la divisione in due del Consiglio superiore della magistratura (uno per i magistrati giudicanti e un altro per i pubblici ministeri) e l’istituzione di un’Alta corte disciplinare. Sul tema “L’Alta corte disciplinare, pro e contro di una proposta che fa discutere” [il Convegno è registrato su Radio Radicale] si sono confrontati Renato Balduzzi, professore di diritto Costituzionale alla Cattolica di Milano e organizzatore dell’incontro, i costituzionalisti Francesca Biondi e Nicolò Zanon, il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, il procuratore generale presso la Cassazione Luigi Salvato e Margherita Cassano, prima presidente della Corte di Cassazione.

Nel corso dei lavori sono emerse alcune criticità del disegno di legge approvato, in sede di prima deliberazione, dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025 [criticità rilevate anche su questa rivista nelle domande all’Accademia, v. “Indipendenza della Magistratura. Riforma costituzionale e disgregazione delle norme a tuttela. E dopo?” – 22 gennaio 2025]; in particolare quelle relative al progetto di un’Alta Corte disciplinare per la magistratura ordinaria. «La prima», ha rilevato il vice presidente Fabio Pinelli, «riguarda il perché i magistrati dovrebbero essere giudicati da componenti, quanto meno in parte, sorteggiati, in difformità con quanto previsto per gli altri ordini professionali». Per quanto riguarda poi le impugnazioni, «le sentenze disciplinari emesse in prima istanza dall’Alta corte sono impugnabili soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte», mentre la Costituzione, all’articolo 111 «prevede che contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge». Infine, «la terza criticità riguarda la circostanza che il disegno di legge costituzionale non affronta i problemi relativi all’esercizio dell’azione disciplinare da parte del procuratore generale della Cassazione su tutti i magistrati, requirenti e giudicanti».

Il professore Nicolò Zanon, ha quindi evidenziato – tra le criticità del disegno di legge – il «gigantismo del disciplinare dei magistrati ordinari» e «un rinvio fortissimo alla legge ordinaria»; ha rammentato poi la grande severità dei giudizi disciplinari nella consiliatura 2010-2014, soprattutto nei ritardi nel deposito dei provvedimenti. La professoressa Francesca Biondi ha fornito una lettura critica della relazione al disegno di legge nella parte in cui afferma che “l’istituzione di una Alta Corte disciplinare, dunque, viene a costituire l’esito di uno sviluppo naturale”; osserva a riguardo la Biondi che «c’è una sinergia tra tutte le funzioni del CSM, quelle amministrative e quella disciplinare, quindi ….a me non pare che [lo spostamento della competenza disciplinare] sia una naturale conseguenza ma che anzi è un elemento di rottura». La riforma e l’istituzione dell’Alta corte imporrebbe comunque la riduzione drastica degli illeciti disciplinari che dovrebbero diventare molto pochi. Mentre tutti gli altri comportamenti dovrebbero essere ordinariamente rilevati nell’ambito delle valutazioni di professionalità; e ciò per evitare che il CSM debba  trovarsi  a giudicare su gli stessi fatti oggetto di giudizio disciplinare.

Il procuratore generale Luigi Salvato ha affermato che la critica relativa a un certo lassismo da parte del CSM in materia disciplinare non corrisponde alla realtà dei fatti, ed è priva di alcun utile riferimento comparativo fra la giurisdizione disciplinare della magistratura ordinaria e la magistratura amministrativa e contabile, e anche con le giurisdizioni disciplinari di altri Paesi. Non si tiene poi conto che «i decreti di archiviazione del procuratore generale non vengono resi nel chiuso delle stanze ma vengono mandati al Ministro dalla giustizia che ha il potere di esercitare l’azione», che la richiesta di non farsi luogo può essere contrastata dal Ministro della giustizia e che la sentenza della sezione disciplinare può essere impugnata dallo stesso Ministro con ricorso per Cassazione anche se non ha esercitato l’azione. Per quanto riguarda l’Alta corte, si legge testualmente, nella relazione al disegno di legge, che con la sua istituzione “si realizza così anche il valore aggiunto di promuovere un livello professionale e deontologico omogeneo per tutti gli appartenenti alle carriere giudicante e requirente della magistratura”. Secondo Salvato, più di un equivoco è sotteso a questa affermazione: infatti, occorre ben distinguere l’etica e il diritto, e fare le dovute distinzioni  tra deontologia ed etica, e ancora tra deontologia e responsabilità disciplinare. «Così come il modello di cittadino non può essere certo affidato al codice penale, il modello di magistrato non può certo essere affidato al codice disciplinare».

Osserva, infine, il procuratore generale che l’Alta Corte nel sistema riformato è un giudice speciale, e la Costituzione, all’ articolo 102, secondo comma, vieta l’istituzione dei giudici speciali. Appare invero singolare che l’art.105, solo tre articoli dopo, preveda invece l’ istituzione di un giudice speciale, la qual cosa  «rischia di far saltare la regola del divieto di istituzione di giudici speciali».

La presidente Margherita Cassano, nel suo intervento, ha ampliato il tema ai rapporti complessi tra legge e giurisdizione, indicando anche alcune delle ragioni della crisi, e tra queste: la decretazione d’urgenza anche in casi che richiederebbero un’opera di riordino preventivo e che quindi comportano inevitabilmente «lo spostamento del baricentro dell’intervento dalla sede propria, ovvero quella parlamentare, alla sede interpretativa del magistrato», costretto quindi a sostituirsi al legislatore e a fare uso della categoria assolutamente eccezionale dell’ abrogazione implicita; e la sfasatura nelle moderne democrazie tra la richiesta di intervento da parte del corpo sociale e le capacità di risposta da parte del decisore politico, con conseguente sovraesposizione della magistratura coinvolta nella richiesta di affermazione di nuovi diritti la cui discussione dovrebbe essere propria ed esclusiva del Parlamento. Sul tema del convegno si è posta, e ha quindi posto all’uditorio, l’ interrogativo se la riforma serva o meno a riequilibrare questo rapporto, o se invece la strada da percorrere sia altra. E occorre anche stare attenti a tutti i pericoli derivanti dal voler considerare l’ intervento disciplinare, che invero incide solo su casi patologici, “un faro di orientamento” per i magistrati. Ha infine evidenziato come i membri laici nelle strutture centrali del governo autonomo (e oggi anche territoriali) siano stati previsti dalla Costituzione come «espressioni della sensibilità diffusa di un corpo sociale» con la funzione di stimolare – con la loro autorevolezza – la magistratura «a non essere autoreferenziale nelle sue soluzioni e a vedere i problemi in una prospettiva diversa che è quella del corpo sociale e non quella del corpo professionale». Secondo la Cassano, finora non è mai stato affrontato seriamente, in sede scientifica, il tema sulle ricadute di una legge maggioritaria sul funzionamento degli organi di garanzia costituzionale, e in particolare sulla stessa funzione dei membri laici come prevista dalla Costituzione. Funzione che sembra oggi essersi allontanata dallo spirito della legge e quindi da quel modello autorevole di cui non si fa il nome, ma che comunque aleggia nell’aula, e che è ben rappresentato da Bachelet.

La presidente ha quindi concluso affermando che l’art.111 è una garanzia che vale per tutti i tipi di sentenza; appare quindi dubbia una lettura limitativa della norma che escluda il ricorso per cassazione per le sentenze dell’Alta Corte. E – infine – di non aver trovato ancora alcuna adeguata risposta all’interrogativo “perché soltanto per la magistratura a differenza che per tutti gli altri corpi professionali si prevede un controllo disciplinare completamente esterno alla categoria di appartenenza”. Su entrambi i temi, vi “sarebbe sicuramente un arretramento”, con evidenti ricadute per le garanzie del magistrato incolpato.

Bachelet: concordi per servire la giustizia.

Anche questa rivista vuole oggi ricordare – nel quarantacinquesimo anniversario della sua uccisione – Vittorio Bachelet, e quale miglior ricordo delle sue parole?

Di seguito viene pertanto trascritto il discorso pronunciato da Vittorio Bachelet in occasione dell’insediamento quale vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il 21 dicembre 1976.

 «Signor Presidente, illustri colleghi,

desidero prima di tutto ringraziare per l’auspicio del Presidente e per la fiducia che mi è stata dimostrata e che, anche se si è realizzata su una scelta, credo che possa contare sullo spirito di quel largo incontro che tutte le persone qui presenti hanno dichiarato di voler realizzare nella conduzione del comune impegno nel Consiglio Superiore della Magistratura. E vorrei dire che questa sintonia è sottolineata dal fatto che i voti non venuti a me sono andati al prof. Conso a cui sono legato da comunanza di ideali e da tale antica amicizia, da potersi quasi assumere a emblematico significato del desiderio di incontro dell’intero Consiglio Superiore della Magistratura. Io desidero raccogliere, penso anche a nome vostro, l’invito del Presidente. Il Vice Presidente del Consiglio infatti si trova nella delicata posizione di essere collaboratore deferente del Presidente, suo vicario e insieme espressione elettiva del Consiglio Superiore della Magistratura: e cercherò di svolgere queste funzioni come meglio saprò, con tutto il mio impegno e con piena lealtà. Dicevo che dobbiamo raccogliere l’invito del Presidente a considerare il momento drammatico della vita della giustizia nel nostro Paese per affrontare il quale noi dobbiamo dare tutto il nostro contributo. Sappiamo che le cause di questo momento drammatico, le cause del malessere, delle disfunzioni della giustizia non sono solo le cause relative a procedure o a carenze di strutture giudiziarie ma sono cause anche assai più generali, delle quali ciascuno di noi non può non tener conto; ma sappiamo anche che il nostro compito principale in questa sede è di venire incontro per la nostra parte a questa situazione: garantendo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e dei singoli giudici in un momento in cui l’amministrazione della giustizia è diventato un compito di prima linea, e creando, nonostante tutto, in questa situazione, le condizioni per un buon andamento della Giustizia. Mi pare che questo ci richieda di pensare a rimedi assai concreti con i quali le disfunzioni esistenti possono essere sanate, ma ci richieda anche di essere capaci di dare il doveroso impulso a quell’«adeguamento dell’ordinamento giudiziario, ai principi costituzionali e alle esigenze della società» che è il titolo programmatico della relazione del precedente Consiglio, che ci viene consegnato come testimonianza da portare avanti perché quell’obiettivo sia attuato in concreto nella realtà. E a questo punto, se il Presidente consente, vorrei dare un saluto cordiale ai membri del Consiglio uscenti, che hanno salutato ufficialmente la scorsa volta, ma cui non abbiamo in quell’occasione potuto rispondere.

Vorrei sottolineare che questo Consiglio, Signor Presidente, inizia una vita nuova non solo per il fatto che esso è rinnovato per essersi tenute nuove elezioni; ma anche perché si tratta di un Consiglio, che è stato eletto in base ad una nuova legge elettorale, che ha favorito una presenza più variata di posizioni e di intenti per garantire in esso una larga rappresentanza di tutti gli orientamenti, le forze, i contributi presenti nella Magistratura. Da questo punto di vista ritengo che questo Consiglio – proprio nello spirito della nuova legge – richiederà anche una larga partecipazione di tutti alla gestione del Consiglio. Questa realtà composita, oltre che l’aumento del numero dei consiglieri, sembra richiedere anche al Comitato di Presidenza di sperimentare quelle forme organiche di consultazione – attraverso formule che sono state in vario modo ipotizzate e che andranno vagliate – per poter portare avanti con speditezza i lavori del Consiglio e insieme per ottenere la corresponsabilità di tutti.

Io so, Signor Presidente, che tutti i colleghi sono ansiosi di dare questo contributo al comune lavoro. Forse anche l’attesa che abbiamo avuto in questo periodo, in cui si è completato il collegio per giungere alla costituzione definitiva, ha aumentato la volontà di lavorare, la volontà di essere presenti, la volontà di collaborare. Quindi io credo davvero che Ella troverà nei consiglieri che stanno iniziando il loro mandato degli operatori estremamente attenti he si sforzeranno di dare tutto il loro apporto e – io spero – di trovare le più larghe convergenze; su di essi, Signor Presidente, potrà contare la Magistratura italiana in questo momento drammatico».

(da “Il Consiglio Superiore di Vittorio Bachelet”, a cura di G. Conso, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 2000, pp. 19-20)

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